Il conducente è tenuto a prestare attenzione alle eventuali insidie presenti sul percorso
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 25460 del 12 novembre 2020
Nel contenzioso in oggetto la Corte di Cassazione torna nuovamente a delineare i confini della responsabilità da cose in custodia di cui all’articolo 2051 c.c. con riferimento ad un sinistro stradale provocato da una buca esistente sul manto stradale.
La Corte richiama il principio ormai consolidato secondo il quale in tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell’articolo 1227 c.c., primo comma, richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà ex articolo 2 della Costituzione.
Ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso.
Quindi, nel caso in oggetto, in considerazione dell’ora diurna in cui l’incidente si era verificato e delle dimensioni della buca, la Corte di Cassazione statuisce che l’anomalia del manto stradale non potesse non essere vista da un attento utente della strada, aggiungendo che in relazione alle cose inerti (quali la buca stradale) grava sul danneggiato l’onere di dimostrare la pericolosità della cosa.
Il danneggiato è tenuto a provare che, se debitamente informato, avrebbe opposto il rifiuto al trattamento sanitario
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 25875 del 16 novembre 2020
Il contenzioso in oggetto trae origine da una richiesta risarcitoria conseguente alla perdita della capacità riproduttiva della danneggiata per effetto di un intervento chirurgico di interruzione volontaria della gravidanza in assenza di valido consenso informato.
La Corte ribadisce il principio ormai consolidato in materia di violazione del diritto al consenso informato secondo il quale è risarcibile il diritto violato all’autodeterminazione a condizione che il paziente alleghi e provi che, una volta in possesso dell’informazione, avrebbe prestato il rifiuto all’intervento.
Infatti, il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica rileva sul piano della causalità giuridica ex articolo 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto all’autodeterminazione – perfezionatosi con la condotta omissiva violativa dell’obbligo informativo preventivo – e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.
La notifica telematica si perfeziona per il mittente se eseguita entro le ore 24.00
Cassazione civile, sezione I, ordinanza n. 12224 del 22 giugno 2020
Nell’ordinanza in oggetto la Corte si pronuncia in tema di notifica telematica e di termini per il suo perfezionamento.
L’analisi trae spunto dalla sentenza della Corte costituzionale con la quale è stata dichiarata l’illegittimità dell’articolo 16septies del Decreto Legge n. 179 del 18 ottobre 2012 nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta.
La Corte di Cassazione ritiene infatti che il divieto di notifica per via telematica oltre le ore 21 risulta introdotto allo scopo di tutelare il destinatario per salvaguardarne il diritto al riposo in una fascia oraria (dalle 21 alle 24) in cui egli sarebbe, altrimenti, costretto a continuare a controllare la propria casella di posta elettronica.
Quindi, solo in virtù di detta esigenza si giustifica la fictio iuris secondo cui il perfezionamento della notifica – effettuabile dal mittente fino alle ore 24 (senza che il sistema telematico possa rifiutarne l’accettazione e la consegna) – è differito, per il destinatario, alle ore 7 del giorno successivo.
Pertanto, deve ritenersi tempestiva la notifica dell’appello eseguita telematicamente alle ore 23.49.52, come da avviso di accettazione generato dal sistema, dell’ultimo giorno utile per la proposizione del gravame.
Il valore probatorio del modulo a doppia firma di constatazione amichevole di incidente
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 25468 del 12 novembre 2020
Nella causa in oggetto si controverte sul valore del modulo di constatazione amichevole di incidente, anche detto modulo CAI, nell’ambito del contenzioso di responsabilità civile automobilistica e sull’opponibilità delle dichiarazioni ivi contenute all’assicuratore, soggetto terzo rispetto ai conducenti che hanno firmato la dichiarazione.
L’articolo 143, comma 2, del Codice Assicurazioni Private prevede che quando il modulo sia firmato congiuntamente da entrambi i conducenti coinvolti nel sinistro si presume, salvo prova contraria da parte dell’impresa di assicurazione, che il sinistro si sia verificato nelle circostanze, con le modalità e con le conseguenze risultanti dal modulo stesso. La Cassazione ha chiarito che il modulo CAI a doppia firma, pur non avendo valore di piena prova, genera una presunzione iuris tantum valevole nei confronti dell’assicuratore il quale potrà superarla fornendo prova contraria.
La regola generale pertanto è che la denuncia di sinistro stradale deve essere trasmessa all’assicuratore prima di citarlo in giudizio, non solo per informarlo delle circostanze, modalità e conseguenze del sinistro, onde consentirgli la liquidazione stragiudiziale del danno derivatone, ma anche, nel caso di denuncia congiunta, ai fini della presunzione, fino a prova contraria, a carico dell’assicuratore, della veridicità delle dichiarazioni ivi contenute.
Al contrario, se il modulo di constatazione amichevole è portato per la prima volta a conoscenza dell’assicuratore nel corso del giudizio, nei suoi confronti le predette dichiarazioni hanno valore solo indiziario.
L’assicuratore è tenuto a sopportare le spese di lite dell’assicurato
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 24409 del 3 novembre 2020
Nell’ordinanza in oggetto la Corte si pronuncia sulla censura della ricorrente relativa alla violazione e falsa applicazione dell’articolo 91 c.p.c. in ordine alla liquidazione delle spese processuali, in particolare in relazione all’onere di rimborso delle spese di giudizio posto a carico della società di assicurazione.
La Corte richiama il principio già sancito nelle sentenze 28 febbraio 2008, n. 5300, e 11 settembre 2014, n. 19176, secondo il quale nell’assicurazione per la responsabilità civile, la costituzione e difesa dell’assicurato, giustificata dall’instaurazione del giudizio da parte di chi assume di aver subito un danno, è svolta anche nell’interesse dell’assicuratore, ritualmente chiamato in causa, in quanto finalizzata all’obbiettivo ed imparziale accertamento dell’esistenza dell’obbligo di indennizzo. Pertanto, anche nel caso in cui nessun danno venga riconosciuto al terzo che ha promosso l’azione, l’assicuratore è tenuto a sopportare le spese di lite dell’assicurato, nei limiti stabiliti dall’articolo 1917 c.c., comma 3.
Ricorda ancora la Corte come nella sentenza n. 19176 del 2014 sia stata cassata la statuizione del giudice di merito nella parte in cui, condannando l’assicuratrice a tenere indenne l’assicurato degli effetti pregiudizievoli della sentenza, comprese le spese di giudizio nei riguardi
del danneggiato, non aveva posto a carico della compagnia assicuratrice anche le spese processuali sopportate dall’assicurato per la propria difesa.
Ne consegue che, dando continuità a questa giurisprudenza, il giudice di merito avrebbe dovuto esplicitamente prevedere la condanna della società di assicurazione alla manleva dell’assicurato anche in ordine alle spese processuali alle quali egli era stato condannato (nel nostro caso, infatti, la domanda di risarcimento danni era stata accolta) ed alle spese da lui sostenute per la sua difesa in giudizio.
L’accertamento del danno morale richiede una differente ed autonoma valutazione rispetto alle altre voci di danno non patrimoniale
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 24473 del 4 novembre 2020
Nella pronuncia in commento si precisano ancora una volta i confini delle sottocategorie di lesione di cui si compone il danno non patrimoniale.
Viene ribadito il principio ormai condiviso per cui la natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale deve essere intesa nel senso di:
- Unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica;
- Onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice, di tenere conto a fini risarcitori di tutte le conseguenze (modificative in pejus della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di articolata, compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto del danno, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.
Nel procedere all’accertamento e alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale e, cioè, tanto l’aspetto interiore del danno sofferto quanto quello dinamico-relazionale.
Nella valutazione del danno alla salute, in particolare, il giudice dovrà pertanto valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso) quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che costituisce altro da sé).
La Corte conclude statuendo che nel caso di lesione della salute costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico, inteso come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali, e del danno cosiddetto esistenziale, appartenendo tali categorie o voci di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale. Al contrario, non costituisce duplicazione risarcitoria la differente ed autonoma valutazione compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione.
L’indennità erogata dall’ente di assicurazione civile deve essere detratta dal quantum dovuto dal responsabile civile
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 24633 del 5 novembre 2020
Nell’ordinanza in oggetto la Corte si pronuncia in merito al rapporto tra indennità Inail e risarcimento del danno per responsabilità civile.
La Corte richiama quanto hanno avuto modo di puntualizzare le Sezioni Unite in materia, ovvero che dall’ammontare del risarcimento dovuto dal responsabile del sinistro va detratto quanto corrisposto al danneggiato allo stesso titolo da parte dell’ente gestore di assicurazione sociale, trattandosi di prestazione economica a contenuto indennitario erogata in funzione di copertura del pregiudizio occorso che soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo al quale sia addebitabile il sinistro, salvo il diritto del danneggiato di agire nei confronti del danneggiante per ottenere l’eventuale differenza tra il danno subito e quello indennizzato.
Infatti, le somme che il danneggiato si sia visto liquidare dall’ente gestore di assicurazione sociale a titolo di rendita per l’invalidità civile vanno detratte dall’ammontare dovuto, allo stesso titolo, dal responsabile civile, poiché diversamente il danneggiato conseguirebbe un importo maggiore di quello cui ha diritto.
Pertanto, le prestazioni previdenziali o indennitarie dell’assicuratore sociale assumono carattere di mera anticipazione rispetto all’assolvimento dell’obbligo a carico del responsabile.
In conclusione, il danneggiato perde la legittimazione all’azione risarcitoria per la quota corrispondente all’indennizzo riscosso, mentre conserva il diritto a ottenere il residuo dal responsabile, ove il danno sia coperto solo in parte.
Si precisa, infine, che la regola prevista dall’articolo 1916 c.c., secondo la quale l’assicuratore che ha pagato l’indennità può surrogarsi nei diritti dell’assicurato verso il terzo danneggiante, impedisce che il danneggiato possa cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di rendita assicurativa con l’intero importo del risarcimento danni dovutogli dal terzo e di conseguire così due volte la riparazione del medesimo pregiudizio subito.
La prescrizione del danno da contagio a seguito di emotrasfusione
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 26189 del 17 novembre 2020
Il caso in esame ha ad oggetto la richiesta risarcitoria, formulata sia iure proprio sia iure hereditatis, per la morte della congiunta dovuta alla contrazione di un virus a seguito di emotrasfusione e, più nello specifico, attiene alla tematica del termine di prescrizione per l’esercizio di tale diritto.
Secondo la Corte, la morte di colei che avrebbe contratto la malattia costituisce il danno evento rispetto alla domanda iure proprio sicché la prescrizione decorre dalla data della morte e, considerata l’epoca della morte, il termine di prescrizione è di 10 anni avuto riguardo alla pena edittale di cui all’articolo 589 c.p.
Infatti, nell’ipotesi di illecito civile costituente reato, qualora ai sensi dell’articolo 2947, comma 3, c.c. occorra fare riferimento al termine di prescrizione stabilito per il reato, e questo sia stato modificato, deve applicarsi il termine di prescrizione del momento di consumazione del reato, valendo il principio di irretroattività della norma e non rilevando, agli effetti civilistici, il principio della norma più favorevole.
In riferimento invece al danno biologico terminale, qui preteso iure hereditatis, il termine di prescrizione è di 5 anni: la responsabilità per il danno biologico da trasfusione di sangue infetto ha natura extracontrattuale, sicché il diritto al risarcimento è soggetto alla prescrizione quinquennale ex art. 2947 c.c., comma 1, non essendo ipotizzabili figure di reato (epidemia colposa o lesioni colpose plurime) tali da innalzare il termine ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 3; ne consegue che in caso di decesso del danneggiato a causa del contagio, la prescrizione rimane quinquennale per il danno subito da quel soggetto in vita, del quale il congiunto chieda il risarcimento "iure hereditatis", trattandosi pur sempre di un danno da lesione colposa, reato a prescrizione quinquennale (alla data del fatto), mentre la prescrizione è decennale per il danno subito dai congiunti della vittima "iure proprio", in quanto, da tale punto di vista, il decesso del congiunto emotrasfuso integra omicidio colposo, reato a prescrizione decennale alla data del fatto
Le voci di danno coperte dall’indennizzo INAIL
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 24474 del 4 novembre 2020
Nell’ordinanza in oggetto la Corte precisa nel dettaglio quale sia l’onere indennitario a cui è tenuto l’Inail in caso di infortunio sul lavoro.
Secondo i giudici di legittimità, l’Inail è tenuto solo alla corresponsione di una rendita a favore dei superstiti dell’infortunato e non è tenuto invece ad indennizzare il danno biologico subito dalla vittima a meno che non ricorrano determinate condizioni.
In sintesi, sono coperte dall’assicurazione obbligatoria:
- le menomazioni comprese tra il 6% ed il 15% con esclusione del danno biologico da inabilità temporanea, atteso che il danno biologico risarcibile è solo quello relativo all’inabilità permanente;
- le menomazioni pari o superiori al 16% che danno luogo ad una rendita ripartita in un una quota determinata in base al grado della menomazione ed una che tiene conto delle conseguenze patrimoniali della lesione;
Inoltre, la Corte precisa che:
- la liquidazione del danno biologico ai fini dell’indennità Inail non può essere effettuata con i medesimi criteri valevoli in sede civilistica posto che le due liquidazioni hanno finalità diverse;
- nell’ambito della categoria del danno non patrimoniale, vi sono alcune voci escluse dalla copertura assicurativa Inail: il danno biologico temporaneo, le lesioni sotto una determinata soglia, il danno biologico in franchigia e il danno morale che è estraneo alla determinazione medico-legale;
- la nozione di danno biologico in sede Inail fa riferimento alla lesione dell’integrità psicofisica e, pertanto, impedisce di considerare compreso in tale nozione il danno da perdita della vita.
Tanto premesso, si può affermare che l’indennità Inail, in considerazione della sua natura assistenziale, non copre esattamente l’intero danno alla salute. Pertanto, il lavoratore ha diritto, ricorrendone i presupposti, ad agire contro il datore di lavoro per il ristoro del danno biologico cosiddetto differenziale, ovvero di quella parte di danno biologico che non sia coperta dalla assicurazione obbligatoria.
Pertanto la responsabilità civile del datore di lavoro, nonostante la copertura assicurativa garantita al lavoratore infortunato dall’Inail, permane (con la conseguente esperibilità dell’azione risarcitoria per il danno differenziale) quando l’infortunio sia stato cagionata dalla violazione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro.
Il danno morale: specificità e insidie di un danno privo di riscontro medico-legale
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 25164 del 10 novembre 2020
Nella sentenza in oggetto la Corte delinea nuovamente i confini del danno morale, sia in relazione al diverso danno biologico, sia in relazione alle difficoltà di provare in giudizio un danno privo di riscontro medico-legale.
Viene ribadito il principio secondo il quale la voce di danno mantiene la sua autonomia e non è conglobabile nel danno biologico, trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale e perciò meritevole di un compenso aggiuntivo aldilà della personalizzazione prevista per gli aspetti dinamici compromessi.
Secondo la Cassazione, quindi, nel procedere alla liquidazione del danno alla salute il giudice di merito deve:
- Accertare l’esistenza, nel singolo caso di specie, di un eventuale concorso del danno dinamico-relazionale e del danno morale;
- In caso di positivo accertamento di entrambi, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano, che prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno, ma pervengono all’indicazione di un valore monetario complessivo;
- In caso di negativo accertamento del danno morale, considerare la sola voce di danno biologico, depurata dell’aumento tabellarmente previsto per il danno morale, liquidando, conseguentemente il solo danno dinamico-relazionale;
- In caso di positivo accertamento dei presupposti per la cosiddetta personalizzazione del danno, procedere all’aumento fino al 30% del valore del solo danno biologico, depurato dalla componente morale.
Per ciò che riguarda il secondo ambito di indagine, ovvero la prova in giudizio del danno morale, occorre verificare, secondo la Corte, se alla complessità della morfologia del danno non patrimoniale, derivante dalla complessità contenutistica dei diritti della persona di volta in volta lesi, corrisponda un altrettanto articolato onere assertorio e probatorio.
Di regola, l’attività assertoria deve consistere nella compiuta descrizione di tutte le sofferenze di cui si chiede la riparazione, ma, considerata la dimensione eminentemente soggettiva del danno morale, alla sua esistenza non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza.
La Corte perciò, sulla premessa che la complessità delle alterazioni deriva dall’ampiezza contenutistica dei diritti della persona, statuisce che sia consentito al giudice di ricorrere ad un ragionamento probatorio di tipo presuntivo. Ancor più se si considera che alla base del parametro standard di valutazione che è alla base del sistema delle tabelle per la liquidazione del danno alla salute, altro non vi è se non un ragionamento presuntivo fondato sulla massima di esperienza per la quale ad un certo tipo di lesione corrispondono, secondo l’id quod plerumque accidit, determinate menomazioni dinamico-relazionali, per così dire, ordinarie.
L’esercizio dell’azione di rivalsa non richiede la previa instaurazione di un giudizio
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 25087 del 9 novembre 2020
Nel caso in oggetto la ricorrente eccepiva l’infondatezza delle pretese avanzate dalla compagnia di assicurazione, sostenendo, innanzitutto, che l’esercizio dell’azione di rivalsa dovesse considerarsi improponibile in assenza della previa instaurazione dell’azione diretta da parte dei danneggiati e, secondariamente, che fosse stato violato l’articolo 1299 c.c., il quale legittima all’esercizio del regresso solo il condebitore solidale che abbia pagato l’intero debito.
La Cassazione respinge l’assimilazione operata dalla ricorrente tra azione di rivalsa e diritto di regresso. Per quanto entrambi siano accomunati da una finalità recuperatoria, in quanto strumenti a disposizione del solvens per rimuovere il depauperamento patrimoniale subito, non sono tuttavia riconducibili allo stesso genus e non seguono le medesime regole operative: l’azione di rivalsa presuppone che l’obbligazione gravante su un soggetto possa essere trasferita ad un terzo tenuto, per legge o per contratto, a rivalere il soccombente di quanto egli sia tenuto a pagare al creditore; questa non è ipotizzabile nel caso di più condebitori tenuti in solido a risarcire il danno, in quanto ciascuno è obbligato nei confronti del danneggiato per l’intero, salva l’azione di regresso di colui che abbia corrisposto l’intero credito nella misura determinata.
L’assicuratore, tenuto a corrispondere il dovuto, ha interesse al pagamento, essendo egli esposto all’azione del creditore, proprio come ogni debitore ha interesse a liberarsi dal vincolo; pertanto, l’esercizio dell’azione di rivalsa non può essere paralizzato dall’asserita incongruità della somma offerta, posto che l’assicurato può formulare tutte le eccezioni possibili in ordine alla sua responsabilità ed alla entità del risarcimento.
La Cassazione quindi respinge il ricorso statuendo che l’azione di rivalsa è ammissibile, in quanto, a fronte di una formale richiesta risarcitoria nei confronti dell’impresa di assicurazioni, quest’ultima non deve attendere l’instaurazione del giudizio, ma può/deve eseguire la propria prestazione, entro il massimale di legge, pure in presenza di eccezioni derivanti dal contratto.
La recidiva stradale di cui all’articolo 186bis del Codice della Strada
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 32209 del 17 novembre 2020
Nella causa in oggetto la Corte è chiamata a pronunciarsi in merito all’applicabilità della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente nel caso di recidiva stradale, di cui all’articolo 186bis del Codice della Strada.
La Corte accoglie la censura del ricorrente secondo il quale tra il fatto reato di guida in stato di ebbrezza e il fatto reato, precedente, di guida in stato di alterazione psicofisica per l’uso di sostanze stupefacenti, non definito con sentenza passata in giudicato, non sussistano i presupposti per la configurazione della recidiva e, di conseguenza, non sia applicabile la misura accessoria della revoca della patente.
La Corte non solo richiama il principio ormai consolidato secondo il quale ai fini della recidiva di cui all’articolo 186bis rileva, rispetto alla data di commissione del nuovo fatto, la data del passaggio in giudicato della sentenza relativa al fatto reato precedente a quello per cui si procede e non la data di commissione dello stesso, ma precisa altresì che la recidiva stradale non è assimilabile alla recidiva quale istituto generale ex articolo 99 c.p. poiché l’articolo 186bis richiede una condanna per lo stesso reato.
Considerata la diversità strutturale tra il reato di guida in stato di ebbrezza e quello di guida in stato di alterazione psicofisica per l’uso di sostanze stupefacenti, la precedente commissione di uno dei due reati non determina recidiva nel biennio o nel triennio rispetto all’altro.
Infine e per completezza, la Corte respinge la tesi del ricorrente secondo la quale l’insussistenza della recidiva sarebbe determinata anche dall’eventuale estinzione del reato precedente, per positivo esito di messa alla prova, e richiama l’articolo 224 del Codice della Strada che esclude l’incidenza dell’estinzione del reato, per causa diversa dalla morte dell’imputato, sul procedimento di applicazione della sanzione amministrativa accessoria di revoca della patente, dato che il presupposto per l’applicazione della sanzione è l’accertamento del reato.
La pronuncia si conclude pertanto con l’enunciazione del principio di diritto secondo il quale in tema di guida in stato di ebbrezza, l’estinzione del reato ex articolo 168ter c.p., comma 2, a seguito dell’esito positivo della prova, presupponendo l’avvenuto accertamento del fatto reato, pur senza che si sia addivenuti ad una pronuncia di penale responsabilità, non impedisce al giudice di valutarlo in un successivo processo quale precedente specifico ai fini del giudizio circa la recidiva nel biennio o circa la recidiva nel triennio.
Il discusso regime di procedibilità ex articolo 590bis del Codice penale
Corte costituzionale, sentenza n. 248 del 4 novembre 2020
Nel presente giudizio di legittimità la Corte è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del decreto legislativo n. 36 del 10 aprile 2018 recante disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati in riferimento, in particolare, all’articolo 590bis c.p. nella parte in cui non ricomprende tra i reati perseguibili a querela il delitto di lesioni gravi e gravissime di cui al primo comma.
Secondo i giudici rimettenti, il delitto di lesioni personali stradali nell’ipotesi base di cui al primo comma dell’articolo 590bis, caratterizzato dalla generica violazione delle norme in materia di circolazione stradale, non si connota per particolare gravità, a differenza delle ipotesi aggravate di cui ai commi successivi, caratterizzate dalla violazione di regole cautelari specifiche o dall’uso di sostanze alcoliche o stupefacenti.
Si tratterebbe quindi di una condotta priva di quel peculiare disvalore che, al contrario, caratterizza i comportamenti di guida più azzardati e pericolosi. Inoltre, si tratterebbe di ipotesi nelle quali sarebbe preponderante l’interesse della persona offesa a conseguire speditamente il risarcimento del danno senza dover subire le lungaggini di un procedimento penale.
Secondo i rimettenti pertanto, la previsione indiscriminata della procedibilità d’ufficio per tutte le ipotesi di lesioni stradali, a prescindere dalla sussistenza delle aggravanti, produce un’irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell’articolo 3 Costituzione: la circolazione stradale appartiene al novero dei settori essenziali dell’odierna “società del rischio”, sicché il diverso grado di rischio connesso alla guida in violazione delle norme e a quello sotto l’effetto di sostanze, dovrebbe ricevere una risposta punitiva differenziata.
Nella pronuncia in commento la Corte Costituzionale, pur negando la sussistenza di elementi sufficienti per connotare in termini di illegittimità costituzionale la scelta di prevedere la procedibilità d’ufficio per tutte le ipotesi di lesioni personali stradali gravi o gravissime, scelta che si iscriveva nel quadro di un complessivo intervento volto ad inasprire il trattamento sanzionatorio per questa tipologia di reati, ritenuti di particolare allarme sociale a fronte dell’elevato numero di vittime di incidenti che ricorre ogni anno, riconosce che le ipotesi di base sono connotate da un minore disvalore rispetto a quelle assai più gravi dei commi successivi, che sono caratterizzate dalla consapevole o, addirittura, temeraria assunzione di rischi irragionevoli.
Pertanto, pur attribuendo alla discrezionalità del legislatore il compito di adottare le soluzioni più opportune, la Corte, alla luce degli indubbi profili critici, suggerisce una complessiva rimeditazione sulla congruità dell’attuale regime di procedibilità per le diverse ipotesi di reato contemplate dall’articolo 590bis del Codice penale.
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- Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 25087 del 9 novembre 2020.pdf
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