02.2014

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Assicurazione - Clausola claims made – Efficacia.

Cass. civ., sez. III, 17 febbraio 2014, n. 3622 – Pres. Russo – Rel. Lanzillo.

La S.C. censura la pronuncia della Corte d’Appello di Roma nella parte in cui ha negato l’efficacia di una clausola claims made contenuta in una polizza di responsabilità professionale. In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto inefficace la clausola sulla base del presupposto che l'alea è elemento essenziale del contratto di assicurazione, la cui mancanza determina la nullità del contratto medesimo.  Si consideri che nel caso di specie l’inefficacia era stata fatta valere contro l’assicurato, tenuto conto che l'illecito addebitato all'assicurato risaliva agli anni 1990 e 1991, cioè ad una data anteriore a quella da cui decorreva l'efficacia della polizza di assicurazione. Conseguentemente, la S.C. afferma la piena efficacia della clausola claims made, con riferimento al caso oggetto di esame, cioè al caso di copertura assicurativa estesa ai comportamenti anteriori alla stipulazione del contratto.  In via di mero obiter dictum, i giudici di legittimità, invece, astrattamente rilevano che potrebbero porsi problemi di validità della clausola - venendo a mancare, in danno dell'assicurato, il rapporto di corrispettività fra il pagamento del premio e il diritto all'indennizzo – allorchè la clausola claims made sia invocata contro l’assicurato, per escludere la copertura assicurativa, pur essendosi il sinistro realizzato nel pieno vigore del contratto di assicurazione, allorchè la domanda risarcitoria sia stata per la prima volta proposta dopo lo scioglimento del contratto.

 

Il danno da perdita di chance e la sua trasmissibilità

Tribunale di Cremona, ordinanza 24 ottobre 2013, n. 542

Il Tribunale di Cremona con l’ordinanza n. 542 del 24 ottobre 2013, ribadita la natura del danno da perdita di chance (quale concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, intesa come entità patrimoniale a Sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, onde la sua perdita configura un danno concreto ed attuale), ha precisato che il diritto al risarcimento della lesione della chance sorge nel patrimonio dell’interessato al momento in cui viene posta in essere la condotta lesiva della stessa e nell’ipotesi di morte del titolare della chance, tale diritto risarcitorio si trasmette agli eredi e non ai prossimi congiunti.

Pertanto i prossimi congiunti, secondo il Tribunale, sarebbero legittimati ad agire per il risarcimento iure proprio derivante dalla lesione di un proprio interesse, ad esempio il rapporto parentale, in caso di morte, essendo però tale risarcimento condizionato alla dimostrazione del nesso di causa tra malpractice e morte.

Invece, nei casi in cui la prova del nesso di causa manchi, ma la malpractice abbia diminuito le chances di sopravvivenza, non vi è alcun interesse dei prossimi congiunti che viene leso, ma solo quello del de cuius, sicché il diritto al risarcimento dovrà essere azionato dagli eredi.

Infine, il Tribunale, sulla scia della Cassazione che per la prima volta ha affermato la sussistenza del danno da perdita di chance (Cass. n. 4400/2004), ha ricordato che perché si configuri tale tipo di danno, è necessario verificare che esista effettivamente una chance, non essendo a tal fine sufficiente che esista una qualche remota possibilità di conseguire un certo risultato…altrimenti la chance esisterebbe sempre come possibilità.

Nel caso di specie, in ogni caso, la Ctu ha concluso ritenendo che “ che, anche in caso di tempestivi interventi, le possibilità di sopravvivenza …. sarebbero state minime”, con la conseguenza “che non può nemmeno parlarsi di chance”.

 

Contratto di assicurazione di tutela giudiziaria – libertà di scelta dell’avvocato

Corte di Giustizia CE, sez. VIII, Pres. C. G. Fernlund, 7 novembre 2013

Sussiste libertà di scelta dell’avvocato per chi stipula un contratto di assicurazione di tutela giudiziaria, senza che la compagnia di assicurazione possa limitare la libertà di scelta ai soli casi in cui la stessa assicurazione ritenga necessario avvalersi di un consulente giuridico esterno.

E’ quanto stabilito dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 7 novembre 2013, la quale, chiamata ad esprimersi in merito ai criteri di interpretazione dell’art. 4, paragrafo 1 lettera a) della Direttiva 87/344 CEE del Consiglio, del 22 giugno 1987, recante le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative relative all’assicurazione tutela giudiziaria, ha affermato il principio secondo cui è caratterizzato da un’intrinseca contraddittorietà il contratto di assicurazione di tutela giudiziaria, nel quale è previsto che l’assistenza giuridica sia in via di principio fornita dai collaboratori della compagnia assicurativa, disponendo altresì che i costi per l’assistenza giuridica di un avvocato liberamente scelto dall’assicurato potranno essere ricoperti unicamente se l’assicuratore ritiene che il caso debba essere gestito da un consulente esterno.

Secondo la Corte, la Direttiva 87/344 non intende limitare la scelta dell’avvocato ai soli casi in cui l’assicuratore decida che è necessario avvalersi di un consulente esterno; in caso contrario, l’assicurato non sarebbe adeguatamente tutelato.

Conseguentemente sono da respingere le interpretazioni restrittive che conducono ad un abbassamento della tutela dell’assicurato. E’ vero che questo potrebbe determinare un incremento degli importi relativi ai premi assicurativi, ma le compagnie di assicurazione hanno la possibilità di stabilire la limitazione delle spese sostenute, purchè tale libertà non venga svuotata della sua sostanza; circostanza che accadrebbe se la limitazione della presa a carico di tali spese rendesse de facto impossibile una scelta ragionevole, da parte dell’assicurato, del suo rappresentante.

 

Danno biologico e danno esistenziale

Cass. civ., 14 gennaio 2014, n. 531

Con la sentenza n. 531 del 14 gennaio 2014, la Corte di Cassazione torna ad esprimersi sulle nozioni di danno biologico e di danno esistenziale, ribadendo che  le espressioni “danno biologico” e “danno esistenziale” non esprimono distinte categorie di danno, tantomeno l’uno può ritenersi una sottocategoria dell’altro, trattandosi, piuttosto, di locuzioni meramente descrittive dell’unica categoria di danno, che è quella di danno non patrimoniale, da identificarsi nel danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.  

Pertanto, nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di primo grado che riconosceva il risarcimento del danno morale ed esistenziale derivato ai genitori di un operaio in conseguenza dell’evento dannoso causativo dell’invalidità totale del figlio, chiarendo che non vi è alcuna incongruenza logico-giuridica nel fatto che i Giudici di merito abbiano riconosciuto il risarcimento del danno esistenziale e non già di quello biologico.  Infatti, la Corte rammenta che con le note sentenze di S. Martino, le Sezioni Unite, nel procedere alla sistemazione della figura del danno non patrimoniale hanno affermato il principio secondo cui in tema di danno alla persona, il riconoscimento di carattere “omnicomprensivo” del risarcimento del danno non patrimoniale non può andare a scapito della “integrità” del risarcimento medesimo.

Ciò implica che il danno biologico (lesione alla salute), quello morale (sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti detto «esistenziale», consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane) non costituiscono una conseguenza indefettibile in tema di lesione dei diritti della persona, occorrendo valutare, caso per caso, se il danno non patrimoniale, nella fattispecie concreta, presenti o meno tutti i siffatti aspetti, anche al fine di evitare una duplicazione delle poste risarcitorie.  Ne consegue che la mancanza di danno biologico (come è stato ritenuto, nel caso di specie, in capo ai genitori del danneggiato) non esclude la configurabilità in astratto di un danno morale (sofferenza interiore) e di un danno esistenziale (dinamico-relazionale), quale conseguenza autonoma della lesione medicalmente accertabile, che si colloca e si dipana nella sfera dinamico-relazionale del soggetto.

 

Accertamento tecnico preventivo (art. 696 c.p.c.) - Consulenza tecnica preventiva (art. 696 bis c.p.c.)

Circolare del Tribunale di Bologna del 17 dicembre 2013

Una recente circolare del Presidente del Tribunale di Bologna – in relazione all’orientamento assunto dall’Osservatorio della giustizia civile di Bologna - sembrerebbe porsi nell’ottica di restituire la speditezza che dovrebbe connotare tale strumento volto ad un componimento bonario della vertenza introducendo alcuni importanti filtri, e confermando, comunque, con riguardo alla sua ammissibilità in materia di responsabilità medica, la cautela nell’uso dello stesso in considerazione della delicatezza della materia e delle problematiche in concreto presentate.

Più nel dettaglio, la recente comunicazione ha affermato che, laddove il ricorrente si limiti a formulare in via alternativa una domanda ai sensi degli articoli 696 e/o 696 bis c.p.c., il presidente di sezione assegnatario chiederà, prima della fissazione dell’udienza, l’integrazione del ricorso onerando parte ricorrente di individuare, entro il termine di 20 giorni, per quale dei due procedimenti opta in via principale e per quali motivi. Nella medesima ottica di un’analoga maggiore specificazione, viene poi affermato che, laddove il ricorrente si limiti ad enunciare gli stessi in modo generico, spetterà sempre al Presidente di Sezione assegnatario chiedere una più specifica individuazione dei vizi lamentati.

Infine, si osserva ora come l’autorizzazione alla chiamata nel giudizio di soggetti terzi dovrà limitarsi alle Compagnie di Assicurazione dei soggetti individuati come parti resistenti, essendo tale richiesta delegata unicamente a parte ricorrente, sia in ragione dei motivi di speditezza che connotano il procedimento sia perché è la parte ricorrente a sostenerne il costo.

 

Responsabilità medica - Art. 3 della Legge n. 189/2012

Cass. Pen. IV sez. n. 5028/2014.

La sentenza in commento contiene alcune precisazioni con riguardo all’elaborazione delle Linee Guida, parametro di valutazione della condotta professionale del medico contenuto nel testo dell’art. 3 della legge n. 189 del 2012, evidenziando, in particolare, due aspetti degni di nota:

1) La finalità contenuta nella nuova ipotesi normativa derivante dall’esigenza di soddisfare il duplice obiettivo di escludere la responsabilità penale dell’operatore sanitario per colpa lieve e di parametrare lo standard cautelare su strumenti valutativi più affidabili, identificati nelle linee guida e nelle migliori pratiche accreditate dalla comunità scientifica, sembrerebbe doversi interpretare in senso innovativo per quanto concerne l’ambito penale, ma nel prosieguo della tradizione con riferimento al campo civile.

Infatti, da un lato l’operatore sanitario risponde penalmente solo per colpa grave, rimanendo peraltro ferma la disciplina generale della responsabilità risarcitoria aquiliana (altro aspetto, per verità, oggetto di contestazione tra gli interpreti del diritto per l’indubbia rilevanza che l’inciso legislativo potrebbe portare in punto responsabilità ed onere probatorio), dall’altro, analogamente al principio contenuto nell’art. 2236 c.c., viene sottolineato come la valutazione della colpa medica debba essere compiuta con speciale cautela nei casi in cui si richiedano interventi particolarmente delicati e complessi che coinvolgano l’aspetto più squisitamente scientifico dell’arte medica, rimanendone esclusi i casi in cui sia contestato, come nel caso in esame, un comportamento negligente.

In buona sostanza, la norma andrebbe interpretata nel senso di escludere la predetta limitazione di responsabilità nei casi in cui la colpa lieve sia correlata non già ad una condotta imperita, ma negligente ovvero imprudente e ciò in quanto (sempre secondo l’interpretazione fornita dalla Corte di legittimità) il giudizio relativo agli ordinari criteri di accertamento della colpa è un giudizio complesso, richiedendosi di comprendere se la gestione di quello specifico rischio sia governata da linee guida qualificate, se il professionista si sia ad esse attenuto, se infine nonostante tale complessivo ossequio ai suggerimenti accreditati, vi sia stato alcun errore e, nell’affermativa, se esso sia rimarchevole o meno.

2) Sempre nell’ottica di guidare nell’interpretazione delle Linee Guida - definite “come raccomandazioni di comportamento clinico prodotte attraverso un processo sistematico allo scopo di assistere medici e pazienti nel decidere quali siano le modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche” - la Corte osserva come senza dubbio le stesse abbiano il pregio di conferire alla fattispecie colposa un livello di maggiore determinatezza, indicando in sostanza la regola cautelare suggerita nel caso concreto ed in presenza di determinate emergenze, “non potendo però le stesse assumere il ruolo di scudo della cosiddetta medicina difensiva, nel senso che il sanitario può essere indotto ad attenervisi comunque nella prospettiva di garantirsi l’impunità”.

Dunque, e concludendo sul punto, la Corte sembrerebbe sostenere che “l’adeguamento del sanitario alle linee guida può non essere sufficiente, come conferma il tenore letterale dell’art. 3 l. n. 189/2012, ad escludere la colpa e, per altro verso, che il giudizio di responsabilità colposa fondato sul paradigma normativo dell’art. 43 cod. pen. esige che vengano presi in considerazione elementi ulteriori, segnatamente i profili della causalità della colpa per negligenza ed imprudenza, rispetto alla mera violazione di regole cautelari”.

In altri termini, con tale decisione sembrerebbe volersi porre una sorta di argine preventivo all’uso distorto del giudizio in ordine alla conformità alle Linee Guida da parte della classe medica, ricordando a tali categorie di soggetti come non si possa semplicemente dimostrare di essersi attenuti ai protocolli o alle direttive impartite in materia o dimesse dalla Comunità Scientifica essendoci altri ed ulteriori parametri di valutazione da tenere in debita considerazione e valutare attentamente, solo così assicurandosi il rispetto del generale principio contenuto nell’art. 43 c.p.

 

 
 

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