Il divieto di retroattività dei criteri di liquidazione del danno differenziale Inail introdotti dalla legge n. 145/2018
Cassazione Civile, sentenza n. 8580 del 27 marzo 2019
La pronuncia ha il pregio di aver affrontato la questione relativa all’applicabilità retroattiva della disciplina introdotta dall’art. 1, comma 1126, della legge n. 145 del 2018, 2018 (Bilancio di previsione dello stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019/2021), che ha modificato il Testo Unico in materia di disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
Questa normativa che ha inciso sui criteri di calcolo del danno c.d. differenziale, modificando le voci da prendere in esame per determinare il quantum adottando un criterio di scomputo per sommatoria o integrale anziché per poste, con conseguente diritto di regresso dell’Istituto per le somme a qualsiasi titolo pagate.
La questione, dopo l’introduzione della Novella, era in effetti piuttosto controversa apprezzandosi orientamenti che propendevano per un’applicazione retroattiva della Legge, ponendo in evidenza il fatto che la normativa non riguarda l’esistenza del diritto al risarcimento del danno, ma piuttosto i criteri di determinazione del quantum, liquidazione che deve avvenire in base alle norme vigenti al momento in cui si effettua la liquidazione.
Altra parte di dottrina poneva, invece, l’accento sul fatto che anche il dato meramente testuale propende per l’applicazione della legge ai soli eventi occorsi dopo l’entrata in vigore della novella e che, diversamente interpretando, ci si porrebbe in contrasto non solo con l’espressa indicazione normativa ma, altresì, con l’art. 11 delle Preleggi del Codice Civile.
La decisione in commento ha ritenuto che, a sostegno della non retroattività della novella, non può validamente richiamarsi la giurisprudenza in materia di criteri generali equitativi di risarcimento del danno, poiché nel caso in esame non è questione di parametro equitativo per cui è ritenuto appropriato il riferimento all’attualità, ma di disposizione di legge rispetto a cui opera il divieto di retroattività. In altri termini, la Corte ha sancito la natura innovativa della norma rispetto alla disciplina vigente, a discapito di una lettura meramente interpretativa della stessa.
Oltretutto, secondo la Suprema Corte, non solo manca qualsiasi statuizione espressa nel senso della retroattività, ma vi sono previsioni che depongono in senso contrario dal momento che la modifica dei criteri di calcolo del danno differenziale è stata adottata a fronte della revisione delle tariffe che opera con decorrenza dall’1 gennaio 2019.
Da ultimo, la tesi della non applicabilità dell’art. 1, comma 1126, ai giudizi pendenti appare la sola coerente con i principi desumibili dalla Carta costituzionale e dalla Carta Edu ritenendo che il potere del legislatore di emanare norme con efficacia retroattiva è stato riconosciuto purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale e che la tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, suscettibile di dar luogo al risarcimento dei danni conseguenza secondo le modalità del danno biologico, integri di certo quei principi costituzionali e quei valori di civiltà giuridica che si pongono quale ostacolo all’efficacia retroattiva delle disposizioni in esame.
La responsabilità della casa farmaceutica ex art. 2050 c.c. e la prova liberatoria
Cassazione Civile, sentenza n. 6587 del 7 marzo 2019
La sentenza si occupa del tema della prova liberatoria nei casi di responsabilità ex art. 2050 c.c.; nello specifico, una casa farmaceutica aveva proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva ritenuto non sufficiente l’avvenuta segnalazione degli effetti collaterali di un farmaco nel relativo foglietto illustrativo, al fine di provare di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno in concreto verificatosi.
La Suprema Corte, investita della questione, ha accolto il ricorso proposto stabilendo che ai fini dello scrutinio in ordine alla sussistenza della prova liberatoria di cui all’art. 2050 c.c. (e cioè la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno), è necessario valutare, da un lato, la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e protocolli previsti dalla legge prima della produzione e della commercializzazione del farmaco (questione nella fattispecie, non controversa); dall’altro l’adeguatezza della segnalazione dell’effetto indesiderato, essendo altresì necessario che l’impresa farmaceutica svolga una costante opera di monitoraggio e adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche, allo stato di avanzamento della ricerca, al fine di eliminare o almeno ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi e di rendere edotti nella maniera più completa ed esaustiva possibile i potenziali consumatori.
Dunque, non è possibile ritenere che, a fronte di un effetto indesiderato, la casa farmaceutica debba optare tra l’assunzione dei rischi – e, quindi, una responsabilità di tipo oggettivo – e la rinuncia alla produzione e commercializzazione del prodotto, essendo sufficiente a fornire la prova liberatoria una puntuale e corretta informazione degli effetti indesiderati.
Tagliando assicurativo falso: il danneggiato non è obbligato a citare l’assicuratore apparente.
Cassazione Civile, ordinanza n. 6300 del 5 marzo 2019
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, seguendo la risalente giurisprudenza di legittimità, ha proposto un’interpretazione dell’art. 127 codice delle assicurazioni private (Certificato di assicurazione e contrassegno) e 1901 c.c. (mancato pagamento del premio) nel senso di concedere al danneggiato in un incidente stradale la possibilità di decidere se promuovere la causa di risarcimento nei confronti dell’assicurazione apparente, ovvero adire direttamente il Fondo di garanzia per le vittime della strada.
Secondo la Corte, infatti, non sussiste per il danneggiato la necessità di citare autonomamente l’assicurazione apparentemente titolare del contrassegno assicurativo allorché la prova della falsità o comunque della non attribuibilità del tagliando assicurativo all’assicurazione citata emerga dagli atti del giudizio promosso nei confronti del Fondo Vittime della Strada per essere stata dal danneggiato spontaneamente e preventivamente accertata, rendendo superflua l’instaurazione di un autonomo giudizio nei confronti dell’apparente compagnia, la quale si limiterebbe ad invocare il fatto notorio della falsità del contrassegno.
La caduta dalla scalinata del duomo è responsabilità della diocesi
Cassazione Civile, ordinanza n. 5841 del 28 febbraio 2019
L’ordinanza in esame si occupa della responsabilità ex art. 2051 c.c. per i danni causati dalla rottura di un gradino non segnalata sulla scalinata di accesso al Duomo; il ricorrente, nel caso di specie, aveva convenuto sia la Diocesi sia il Comune, chiedendo il risarcimento del danno subito a seguito della caduta causata dall’insidia.
La Suprema Corte ha innanzitutto chiarito che, ai sensi dell’art. 2051 c.c., il danneggiato avrebbe dovuto dimostrare la sussistenza di un rapporto di fatto tra il convenuto e la res, in quanto tale relazione rappresenta il presupposto per poterla controllare, eliminando le situazioni di pericolo. Dunque, solo dopo la dimostrazione di tale potere di controllo – carente nel caso esaminato – sarebbe stato possibile occuparsi del nesso di causalità tra il fatto e l’evento lesivo.
A seguito di tale specificazione, la Cassazione ha stabilito che la responsabilità da omessa custodia di un bene destinato all’attività di culto, anche se per consuetudine asservito a un uso pubblico, grava sul proprietario del bene e non sull’ente territoriale su cui insiste il bene, a meno che non sia dimostrata una detenzione o un potere di fatto dell’ente territoriale sulla cosa.
Dunque, l’eventuale sussistenza di un uso pubblico della scalinata della Chiesa, non può costituire fondamento della responsabilità dell’ente territoriale per omessa custodia.
La polizza assicurativa deve essere interpretata secondo buona fede e secondo le intenzioni dei contraenti
Cassazione Civile, sentenza n. 4738 del 19 febbraio 2019
La sentenza in esame si occupa del delicato tema dell’interpretazione del contratto di assicurazione secondo le intenzioni dei contraenti e secondo buona fede, ai sensi degli artt. 1362 e s.s. del codice civile.
La questione trae origine dalla domanda di risarcimento del danno da nascita indesiderata proposta da una donna nei confronti del proprio medico di base per aver prescritto un farmaco inidoneo alla contraccezione. Il professionista chiamò in garanzia la sua compagnia di assicurazione, tuttavia, sia il Tribunale sia la Corte d’appello rigettarono la domanda di manleva adducendo, oltretutto, l’impossibilità, in assenza di allegazioni dell’assicurato, di interpretare il contratto secondo buona fede ex artt. 1362 e s.s. c.c.
Il medico, dunque, propose ricorso sostenendo che spettasse al giudice di merito l’interpretazione del contratto assicurativo secondo i canoni di ermeneutica previsti dal Codice Civile e dunque ex art. 1362 c.c.
La Suprema Corte, non condividendo le argomentazioni proposte dai giudici di merito, accolse il ricorso specificando che se il contenuto di un contratto di per sé è fattuale, ciò non toglie, invece, che il suo accertamento debba essere espletato seguendo norme dettate appositamente dal legislatore, e non in modo generalista/atecnico: l’applicazione delle norme ermeneutiche di cui agli artt. 1362 ss. c.c. è un’operazione di diritto, che peraltro non è affidata ad una potestà dispositiva delle parti coinvolte, id est non dipende da specifiche argomentazioni della persona interessata. Questa deve portare il fatto all’esame del giudice – qui l’accordo negoziale tra le parti – e poi jura novit curia.
In definitiva, prosegue la Corte, nulla toglie che l'interpretazione del contratto debba essere effettuata secondo la legge: e la prima delle norme ermeneutiche (articolo 1362, primo comma, c.c.) prevede proprio il superamento della lettera se questa si distacca dalla comune intenzione delle parti, che si deve comunque ricercare ("indagare").
L’efficacia bilaterale sincronica della notifica della sentenza eseguita ex art. 285 c.p.c.
Cassazione Civile, Sezioni Unite, sentenza n. 6278 del 4 marzo 2019
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la decisione in commento sono state chiamate a risolvere la questione relativa a quale sia, per chi notifica la sentenza ai sensi dell’art. 326 c.p.c., il termine di impugnazione: se, cioè, dalla data di consegna della sentenza all’ufficiale giudiziario ovvero se dalla data di perfezionamento della notifica nei confronti del destinatario.
Le Sezioni Unite, dopo aver ricordato la differenza ontologica che intercorre tra il termine lungo per impugnare e quello breve, ha precisato che la decorrenza del termine breve non sia correlata alla conoscenza legale della sentenza, già esistente per il mero fatto della sua pubblicazione, né alla conoscenza effettiva della stessa, quale può essere derivata dalla comunicazione della sentenza da parte della cancelleria o dalla richiesta di copia effettuata dalla parte o dalla notificazione della sentenza ai fini esecutivi nei modi stabiliti dall’art. 479 c.p.c.
In altri termini, secondo la visione della Suprema Corte, la decorrenza del termine breve di impugnazione trova la sua ragion d’essere non nell’acquisizione della conoscenza della sentenza ma nel sollecito indirizzato da una parte all’altra per una più rapida decisione in ordine all’eventuale esercizio del potere di impugnare dal che derivandone che non può farsi discendere dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario la conoscenza della sentenza, già legalmente nota alle parti.
Su queste basi, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: in tema di notificazione della sentenza ai sensi dell'art. 326 c.p.c., il termine breve di impugnazione di cui al precedente art. 325 decorre, anche per il notificante, dalla data in cui la notifica viene eseguita nei confronti del destinatario, in quanto gli effetti del procedimento notificatorio, quale la decorrenza del termine predetto, vanno unitariamente ricollegati al suo perfezionamento e, proprio perché interni al rapporto processuale, sono necessariamente comuni ai soggetti che ne sono parti.
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