Claims made: quando la clausola è eccessivamente svantaggiosa per l’assicurato
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 8894 del 13 maggio 2020
Nell’ordinanza in oggetto la Corte si pronuncia sull’ammissibilità di una clausola claims made che preveda la copertura assicurativa dei sinistri dipendenti dalle condotte tenute in un determinato periodo, a condizione non solo che vi sia stata la richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato entro quel periodo ma anche che l’assicurato, ricevuta la richiesta di risarcimento, provveda alla denuncia del sinistro entro 12 mesi dalla cessazione del contratto.
Premesso che l’inserimento nel contratto di assicurazione di una clausola siffatta mantiene inalterato il tipo negoziale, ampliandone semmai il contenuto o comportandone un adattamento all’interesse delle parti, la Corte ritiene che non sia necessaria una valutazione di meritevolezza funzionale del negozio concluso, come in caso di contratto atipico, bensì che sia sufficiente verificare se la determinazione del contenuto contrattuale sia avvenuta nei limiti di legge, ovvero ai sensi dell’art. 1322, I comma, c.c..
Secondo la prospettazione della Corte, la clausola in esame fa dipendere la prestazione dell’assicurazione non solo dall’evento dedotto in contratto, ma altresì da un ulteriore evento incerto, quale è la richiesta di risarcimento del terzo danneggiato: se quest’ultima non è tempestiva, non potrà esserlo neanche quella dell’assicurato.
Poiché tale clausola pone una decadenza a carico dell’assicurato non dipendente da una sua condotta, essa contrasta con disposizioni imperative di legge, non solo con l’articolo 1341 c.c., che vieta, se non sottoscritte, le clausole vessatorie, e che tra queste annovera espressamente quelle che impongono decadenze, ma altresì con l’articolo 2965 c.c. che commina la nullità dei patti che stabiliscono decadenze che rendono eccessivamente difficile ad una delle parti l’esercizio di un diritto.
In conclusione, la tempestività della richiesta di manleva, dipendente dalla tempestività della richiesta risarcitoria da parte del terzo, pone l’assicurato in una condizione di ingiustificato svantaggio nei confronti dell’assicuratore, prevedendo una decadenza che il contraente non può evitare, con conseguente violazione di legge della clausola in oggetto.
Decadenza dalla garanzia per reticenza dell’assicurato
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 8895 del 13 maggio 2020
Nella pronuncia in commento la Corte affronta la questione relativa alla tacitazione da parte dell’assicurato di una circostanza rilevante, la cui conoscenza sia ritenuta decisiva per la stipulazione di un contratto di assicurazione.
Posto che l’onere di denuncia delle circostanze rilevanti sorge solo che l’assicurazione manifesti interesse a conoscere gli stati rilevanti che possano condizionarne il suo impegno contrattuale, la Suprema Corte sostiene che tale interesse possa essere validamente e sufficientemente manifestato anche solo attraverso la sottoposizione all’assicurato di un generico questionario.
Si stabilisce, infatti, che la predisposizione di un questionario da parte dell’assicuratore, benché non abbia la funzione di tipizzare le possibili cause di annullamento del contratto di assicurazione per dichiarazioni inesatte o reticenti, evidenzia tuttavia l’intenzione dell’assicuratore di annettere particolare importanza a determinati requisiti e richiama l’attenzione del contraente a fornire risposte complete e veritiere sui quesiti medesimi e, quindi, deve essere valutata dal giudice in sede di indagine sul carattere determinante, per la formazione del consenso, dell’inesattezza o della reticenza, così che è sufficiente che l’assicuratore chieda all’assicurato di denunciare ogni possibile situazione che possa aumentare il rischio o concretizzarlo del tutto.
Spese di resistenza in giudizio nell’ipotesi di richiesta risarcitoria oltre il massimale
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 8896 del 13 maggio 202
Nell’ordinanza in commento la Corte si pronuncia sulla rimborsabilità delle spese di lite da parte dell’assicurazione nel caso in cui gli assicurati siano chiamati a resistere in giudizio in seguito ad una richiesta risarcitoria eccedente il massimale e rispetto alla quale l’assicurazione ha riconosciuto il diritto alla manleva.
La Corte afferma che le spese effettuate per resistere in giudizio sono spese che l’assicuratore si impegna (nel contratto) o comunque è tenuto nei limiti di cui all’articolo 1917 c.c., solo che il suo assicurato abbia avuto la necessità, perché evocato in giudizio, di affrontare una lite, a prescindere dalla circostanza che l’assicuratore lo abbia sostenuto, ossia abbia o meno aderito alle ragioni dell'assicurato.
Pertanto, le spese di resistenza presuppongono che l’assicurato sia stato costretto a iniziare o a difendersi in una lite, che ha causa in situazioni rientranti nella garanzia assicurativa. Non ha alcuna rilevanza che la presenza in giudizio dell’assicurato non sia stata causata da una posizione difensiva dell’assicurazione, quanto piuttosto da una richiesta del danneggiato; le spese legali per affrontare il processo prescindono da questa circostanza processuale mutevole e sono dovute oggettivamente quale rimborso per il fatto stesso di aver dovuto affrontare un processo causato dal fatto assicurato.
Né, in proposito e sempre secondo la Corte, vale obiettare che la difesa svolta sulla parte eccedente il massimale non è coperta da assicurazione, al pari della eccedenza stessa, in quanto è evidente che gli assicurati si sono costituiti in giudizio per difendersi su tutto.
Tamponamento: prova liberatoria sul conducente del veicolo che segue
Tribunale di Catania, sezione V, sentenza n. 1409 del 24 aprile 2020
Nella pronuncia in commento il Tribunale di Catania, in forza del principio secondo cui in caso di collisione tra veicoli, poiché la legge fa carico al conducente del veicolo che segue di essere in grado di garantire in ogni caso l’arresto tempestivo del mezzo evitando collisioni con il veicolo che precede, ha stabilito che il fatto stesso della collisione fa sorgere una presunzione di inosservanza della distanza di sicurezza da parte del conducente del veicolo che segue.
Tale principio determina l’inapplicabilità della presunzione di pari colpa di cui all’articolo 2054, II comma, c.c. e determina l’insorgenza a carico del conducente del veicolo che segue dell’onere di fornire la prova liberatoria, ovvero che il mancato arresto del veicolo e la conseguente collisione siano stati determinati da cause in tutto o in parte a lui non imputabili.
Imprudenza del pedone e diligenza del conducente
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 5627 del 28 febbraio 2020
Nella pronuncia in commento la Corte affronta la tematica dell'accertamento della responsabilità del conducente di un veicolo che investe un pedone, prendendo in esame sia la regola della responsabilità esclusiva del conducente, prevista dall’articolo 2054, I comma, c.c., sia i principi sulla responsabilità concorsuale, di cui all’art. 1227 c.c., per aver il pedone contribuito ad esporsi alla situazione di pericolo.
La Corte, in linea con l’orientamento dominante, pone a carico del conducente una responsabilità presunta, ribadendo che l’articolo 2054 c.c. pone una regola nella quale la prevenzione è prevalentemente a carico del conducente, il quale deve dimostrare di aver fatto il possibile per evitare il danno e tale prova liberatoria può essere fornita certamente allegando l’imprudenza del pedone, ma solo se questa si presenti come condotta imprevedibile.
In sostanza, il danno non è imputabile (del tutto o in parte) al conducente non semplicemente quando abbia concorso a cagionarlo (in tutto o in parte) il pedone, ma quando la condotta di quest’ultimo, pur se colpevole, non era in alcun modo prevedibile al punto da impedire al conducente di evitare l’investimento.
L’onere di prevenzione è dunque affidato prevalentemente al conducente, il quale è esente da responsabilità solo davanti a comportamenti del pedone non solo colposi, ma del tutto imprevedibili ed inevitabili.
Limiti alla vincolatività del giudicato penale in sede civile
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 8477 del 5 maggio 2020
Nell’ordinanza in commento la Corte si pronuncia in merito al vincolo derivante dal giudicato penale, relativo all’accertamento di un reato di danno, nel successivo e separato giudizio relativo alla responsabilità civile.
Secondo la Corte la sentenza del giudice penale che, accertando l’esistenza del reato, abbia altresì pronunciato condanna definitiva dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine alla declaratoria iuris di generica condanna al risarcimento e alle restituzioni, ferma restando la necessità dell’accertamento, in sede civile, della esistenza e della entità delle conseguenze pregiudizievoli derivate dal fatto individuato come potenzialmente dannoso e dal nesso di derivazione causale tra questo e i pregiudizi lamentati dai danneggiati.
In particolare, per ciò che riguarda i reati di danno, l’esistenza del danno è implicita nell’accertamento del “fatto-reato” ma il riferimento, sulla base delle regole del diritto civile, è al danno-evento, avvinto al fatto da un nesso di causalità materiale, non al danno-conseguenza, per il quale l’indagine da compiere è quella del nesso di causalità giuridica tra l’evento di danno e le sue conseguenze pregiudizievoli.
Quindi, in relazione all’accertamento del danno-conseguenza, sotto il profilo dell’esistenza del nesso di causalità (oltre che il profilo dell’esistenza e quantificazione del danno) resta quindi ferma, all’esito del giudicato penale, la competenza del giudice civile.
Ammissibilità delle presunzioni per la prova del danno subito dai congiunti
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 7748 dell’8 aprile 2020
Nella pronuncia in commento la Corte supera il principio secondo il quale è consentito riconoscere un danno non patrimoniale ai congiunti del danneggiato solo in presenza di un totale sconvolgimento delle abitudini di vita del nucleo familiare su cui si sono riverberate le conseguenze dell’evento traumatico subito dal familiare.
Al contrario, la Corte ritiene che dalle lesioni inferte a taluno possono derivare per i congiunti sia una sofferenza d’animo (danno morale) sia un danno biologico (quale una malattia), senza che ciò produca necessariamente uno sconvolgimento delle abitudini di vita.
Qualificando il danno subito dai congiunti come danno diretto, non riflesso, ossia come conseguenza diretta della lesione inferta al parente prossimo, la quale ultima rileva come fatto plurioffensivo, che ha vittime diverse ma egualmente dirette, la Corte afferma che non vi sia motivo di prevedere che i pregiudizi subiti dai familiari siano sottoposti ad una prova più rigorosa di quelli subiti dalla vittima e, dunque, stabilisce che anch’essi possano essere dimostrati per mezzo di presunzioni.
Tabelle di Milano: mancata applicazione legittima solo se adeguatamente motivata
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 8508 del 6 maggio 2020
Nell’ordinanza in oggetto la Corte torna nuovamente a pronunciarsi in merito alla determinazione del danno non patrimoniale.
Viene innanzitutto ribadito che, per tale tipologia di danno, il ristoro pecuniario non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosi pertanto la necessità di una valutazione equitativa, diretta a determinare la compensazione socialmente adeguata del pregiudizio, quella che l’ambiente sociale accetta come compensazione equa. Tale valutazione deve avvenire mediante un prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, salva l’esigenza di garantire in ogni caso una tendenziale uniformità nella qualificazione della lesione e del relativo danno.
Si tratta pertanto di individuare il punto di equilibrio tra una valutazione che non sia eccessivamente rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudice, al fine di evitare disparità di trattamento, ed un’applicazione esageratamente rigorosa di criteri predeterminati in astratto, che si tradurrebbe in una preventiva tariffazione della persona.
Secondo la Corte fondamentale è che, qualunque sia il sistema di quantificazione prescelto, esso si prospetti idoneo a consentire di pervenire ad una valutazione informata ad equità e che il giudice dia adeguatamente conto in motivazione del processo logico al riguardo seguito, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo adottato, al fine di consentire il controllo di relativa logicità, coerenza e congruità.
A tale scopo viene ribadita la appropriatezza delle Tabelle di Milano, recanti i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto di equità valutativa, quale strumento utilizzabile per evitare o quanto meno ridurre ingiustificate disparità di trattamento, e si richiede al giudice di dare adeguata motivazione nel caso di discostamento da tali parametri o di mancata loro considerazione.
La Corte ha poi precisato che ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, trattandosi di debito di valore, vanno dal giudice utilizzati i parametri vigenti al momento della emissione della propria decisione, sicché allorquando le Tabelle cambino nelle more tra l’introduzione del giudizio e la sua decisione, il giudice (anche d’appello) ha l’obbligo di utilizzare i parametri vigenti al momento della pronuncia.
Criterio della proporzione in caso di decesso in corso di causa
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 8532 del 6 maggio 2020
Nella pronuncia in commento la Corte si esprime in merito al criterio da utilizzare per la liquidazione del danno nel caso di morte del danneggiato in corso di causa, poiché l’intervenuto decesso della parte comporta che la valutazione probabilistica connessa all’ipotetica durata della vita del soggetto danneggiato vada sostituita con quella del concreto danno effettivamente prodottosi.
Di conseguenza l’ammontare del danno biologico che gli eredi richiedono iure successionis deve essere calcolato non con riferimento alla durata probabile della vita della vittima, ma alla sua durata effettiva; il danno tabellarmente determinato deve essere ridotto avuto riguardo al tempo di effettiva sopravvivenza del danneggiato.
Il giudice di merito dovrà, dunque, adottare il cosiddetto criterio della proporzione secondo il quale il risarcimento che si sarebbe liquidato a persona vivente sta al numero di anni che questi aveva ancora da vivere secondo le statistiche di mortalità, come il risarcimento da liquidare a persona già defunta sta al numero di anni da questa effettivamente vissuti tra l’infortunio e la morte.
Frazionabilità del credito risarcitorio: la pluralità di azioni giudiziarie non è giustificata
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 8530 del 6 maggio 2020
Nella pronuncia in oggetto la Corte affronta il tema del frazionamento del credito risarcitorio mediante l’instaurazione di una pluralità di azioni giudiziarie.
La Corte, in primo luogo, ribadisce il principio secondo cui le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale, le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata.
Si esclude, però, la frazionabilità del credito risarcitorio giustificato dalla parte per esigenze di maggiore speditezza, ritenendo che la sola maggiore speditezza di trattazione non può giustificare l’aggravio complessivo di oneri, non solo patrimoniali, dovuto alla moltiplicazione delle iniziative giudiziarie. Tanto più che il credito risarcitorio, sia pure nelle sue distinte componenti patrimoniale e non, rimane pur sempre unitario, avendo ad oggetto il ristoro o il risarcimento del danneggiato dall’insieme o coacervo dei danni-conseguenza e quindi del complessivo pregiudizio a lui derivante dal fatto illecito altrui, inteso a sua volta come unitario danno-evento idoneo a cagionare la sequenza differenziata dei primi.
In definitiva, il danneggiato a fronte di un unico fatto illecito lesivo non può frazionare la tutela giudiziaria, agendo separatamente innanzi a giudici diversi e neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento, poiché ciò integra una condotta che aggrava senza motivo la posizione del debitore ed una non necessaria proliferazione di azioni giudiziarie.
Patto di gestione della lite e rimborso delle spese di resistenza
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 4202 del 19 febbraio 2020
Nell’ordinanza in commento la Corte si pronuncia sulla tematica del rimborso delle spese di resistenza in giudizio a favore dell’assicurato nel caso in cui questi non si sia avvalso della difesa legale offerta dalla compagnia assicurativa, in presenza di un patto di gestione in via esclusiva della lite.
Secondo la Corte, in presenza di tale patto, la clausola che prevede che la società non riconosce spese incontrate dall’assicurato per legali o tecnici che non siano da essa designati non si pone in contrasto con la previsione di cui all’articolo 1917, III comma, c.c., che pone a carico dell’assicuratore le spese di resistenza in giudizio sostenute dall’assicurato poichè mediante l’assunzione esclusiva della gestione della lite si realizza comunque lo scopo della norma che è quello di tenere indenne l’assicurato.
In presenza di un patto di gestione della lite, quindi, la clausola che prevede il diniego di rimborso da parte dell’assicuratore ove l’assicurato decida di non avvalersi della difesa offerta direttamente dalla compagnia, è giustificata e legittima quale ragionevole corollario di quel patto volto a tutelare il sinallagma contrattuale.
Lesioni durante la ricreazione: la responsabilità dell’istituzione scolastica
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 8811 del 12 maggio 2020
Nell’ordinanza in oggetto la Corte propone un’approfondita disamina della responsabilità dell’istituto scolastico nel caso di lesioni subite da un alunno durante l’orario curricolare.
Secondo la Corte, l’ammissione dell’allievo a scuola determina l’instaurazione di un vincolo negoziale dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità degli allievi nel tempo in cui questi fruiscono della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni e quindi di predisporre gli accorgimenti necessari affinché non venga arrecato danno ai minori.
Pertanto, la scuola risponde del fatto illecito commesso dagli allievi minori sottoposti alla sua vigilanza e di tale responsabilità speciale ex articolo 2048, comma terzo, c.c. si libera soltanto se prova di non aver potuto impedire il fatto (responsabilità aggravata). Incombe, quindi, sull’allievo la prova dell’illecito commesso da altro allievo, quale fatto costitutivo della pretesa, mentre è a carico della scuola la prova del fatto impeditivo, e cioè dell’inevitabilità dell’evento nonostante la predisposizione, in relazione al caso concreto, di tutte le cautele idonee ad evitare danni.
Inoltre, come nel caso in oggetto, allorquando nell’espletamento della propria attività si avvalga dell’opera di terzi (anche) l’amministrazione scolastica assume il rischio connaturato alla relativa utilizzazione nell’attuazione della propria obbligazione e, pertanto, risponde direttamente di tutte le ingerenze dannose, dolose o colpose, che a costoro, sulla base di un nesso di occasionalità necessaria, siano state rese possibili in virtù della posizione conferita nell’adempimento dell’obbligazione medesima rispetto al danneggiato e che integrano il rischio specifico assunto dal debitore. E, si aggiunge, la responsabilità del preponente non viene in tal caso meno neanche qualora i preposti non siano alle sue dipendenze, essendo sufficiente che il fatto illecito sia commesso da un soggetto legato da un rapporto di preposizione con il responsabile, ipotesi che ricorre, non solo in caso di lavoro subordinato, ma anche quando per volontà di un soggetto un altro esplichi un’attività per suo conto.
Rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in caso di rovesciamento dell’esito assolutorio
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 15080 del 14 maggio 2020
Nel caso in oggetto i ricorrenti lamentano la violazione dell’articolo 603 c.p.p. per essere stata omessa la rinnovazione integrale dell’istruttoria dibattimentale a fronte di un’impugnazione avverso una sentenza assolutoria.
La Corte innanzitutto ribadisce il principio secondo cui il giudice di appello che afferma la responsabilità dell’imputato prosciolto in primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.
Infatti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello deve essere sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria che deve quindi rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile e neppure lasciare aperto lo spazio ad un residuo dubbio sull’affermazione di colpevolezza. In altri termini, per riformare un’assoluzione non basta una diversa valutazione di pari plausibilità, ma occorre una forza persuasiva superiore.
Ciò premesso, la Corte statuisce che il giudice di appello non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato senza aver proceduto, anche d’ufficio, a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni su fatti del processo ritenute decisive.
Inoltre, secondo la Corte, è parimenti errata ed inosservante del codice di rito la rinnovazione del contributo dichiarativo dei periti d’ufficio in mancanza del contributo delle difese tecniche degli imputati; la rinnovazione è necessaria in caso di overturning accusatorio poiché si tratta di un principio volto ad impedire che il giudice, che operi la reformatio in pejus, introduca una diversa lettura delle conclusioni del perito e/o del consulente di parte in assenza di un nuovo momento processuale di confronto ed analisi, momento che si ritiene indispensabile nel rovesciamento dell’esito assolutorio.
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