Va sospeso il giudizio civile di risarcimento se i convenuti sono anche imputati nel giudizio penale
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 15248 del 1° giugno 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla sospensione del processo civile ai sensi dell’art. 75 c.p.p., qualora la causa sia stata promossa nei confronti delle medesime parti coinvolte in un parallelo processo penale.
La Suprema Corte parte dal presupposto che, ove il fatto reato contestato in sede penale sia lo stesso dal quale trae origine e fondamento la domanda risarcitoria avanzata nel processo civile, la decisione emessa in sede penale possa avere un effetto vincolante in sede civile (art. 654 c.p.p.).
Pertanto, secondo la Corte la sospensione necessaria del processo civile può essere disposta quando sussistono due decisivi elementi costituiti dal possibile effetto della pronuncia penale nel giudizio civile e dalla identità delle parti convenute in sede civile con imputati e responsabili civili nel processo penale.
La competenza in materia di danni da esondazione di acque pubbliche è del Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 18197 del 24 giugno 2021
Con l’ordinanza in esame la Corte di cassazione si pronuncia in un giudizio di regolamento di competenza, chiarendo in presenza di quali presupposti la controversia appartenga alla cognizione del Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche ed in quali casi spetti invece al giudice ordinario, nel caso in cui dei terreni vengano allagati a causa della tracimazione delle acque di un torrente determinata dal cattivo stato di manutenzione del suo alveo.
La Suprema Corte si allinea all’indirizzo delle Sezioni Unite secondo cui, ai sensi del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 140, lett. e), la ripartizione della competenza fra il giudice ordinario e il Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche, nelle controversie aventi per oggetto il risarcimento dei danni derivanti da atti posti in essere dalla P.A., deve essere effettuata nel senso di attribuire alla competenza dei tribunali regionali delle acque le domande in relazione alle quali l'esistenza dei danni sia ricondotta all'esecuzione, alla manutenzione e al funzionamento dell'opera idraulica, mentre debbono essere riservate alla cognizione del giudice in sede ordinaria le controversie aventi per oggetto pretese che si ricollegano solo indirettamente e occasionalmente alle vicende relative al governo delle acque.
Infatti, la competenza del giudice specializzato si giustifica in presenza di comportamenti, commissivi o omissivi, che implichino apprezzamenti circa la deliberazione, la progettazione e l'attuazione di opere idrauliche o comunque scelte della P.A. dirette alla tutela di interessi generali correlati al regime delle acque pubbliche.
Di conseguenza, allorché venga dedotto che un'opera idraulica non sia stata tenuta in efficienza, o sia stata mal costruita, questa deduzione implica la valutazione di apprezzamenti o di scelte della P.A. in relazione alla suindicata tutela degli interessi generali collegati al regime delle acque pubbliche, sicché la domanda di risarcimento dei danni fondata sulla mancata deliberazione e attuazione delle necessarie opere di manutenzione deve essere devoluta alla cognizione del tribunale regionale delle acque pubbliche competente per territorio.
Danno da omessa informazione al paziente: il giudice nella liquidazione può ricorrere al criterio equitativo anche in assenza di domanda di parte
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 18283 del 25 giugno 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema danno da omessa informazione da parte del medico, con particolare riguardo alla sua prova ed ai criteri di liquidazione.
La Suprema Corte afferma che il medico ha l’onere di fornire un'informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze [...], con riferimento in particolare al tipo di terapia da effettuarsi e alle relative possibili complicanze [...] ai fini della libera e consapevole autodeterminazione del medesimo in ordine alla relativa accettazione, con assunzione anche di tale rischio ovvero [...] di consapevolmente optare, una volta reso edotto delle alternative prospettabili in ragione del completo quadro della vicenda, anche per non proseguire il percorso terapeutico suggerito.
La Suprema Corte ribadisce che la prova del danno non patrimoniale, anche derivante da violazione del consenso informato, può essere dal danneggiato fornita con ogni mezzo e pertanto anche per presunzioni.
Osserva, inoltre, che il ristoro del danno non patrimoniale, diversamente da quello del danno patrimoniale, non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione imponendosene pertanto sempre la valutazione equitativa. Di tale ristoro spetta al giudice del merito accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul patrimonio e sul valore persona si siano verificate, e provvedendo al relativo integrale ristoro, con prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto e dando adeguatamente conto in motivazione dell'operata valutazione […].
In tema di liquidazione, secondo i giudici di legittimità, allorquando risulti dimostrata l'esistenza di un danno risarcibile certo (e non meramente eventuale o ipotetico) e vi sia impossibilità o estrema difficoltà di prova nel relativo preciso ammontare, la liquidazione equitativa dei danni è dall'art. 1226 c.c. rimessa al prudente criterio valutativo del giudice di merito non soltanto quando la determinazione del relativo ammontare sia impossibile ma anche quando la stessa, in relazione alle peculiarità del caso concreto, si presenti particolarmente difficoltosa, ben potendo il giudice fare ricorso al criterio della liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., ove ne sussistano le condizioni, anche senza domanda di parte, trattandosi di criterio rimesso al suo prudente apprezzamento, e tale facoltà può essere esercitata d'ufficio pure dal giudice di appello.
Danno da perdita del rapporto parentale: lo stato di invalidità pregresso della vittima non rileva
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 18284 del 25 giugno 2021
Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione affronta il tema del risarcimento del danno nei confronti dei congiunti della vittima nel caso in cui questa, all’epoca dell'evento dannoso, versasse già in uno stato di invalidità.
La Suprema Corte osserva che, in caso di stato di invalidità pregresso, dotato di efficacia concausale nella determinazione dell'unica e complessiva situazione patologica riscontrata, allo stesso non può attribuirsi rilievo sul piano degli elementi costitutivi dell'illecito, e in particolare della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l'evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del danneggiante.
Ad una delimitazione del quantum del risarcimento è possibile pervenire unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto.
Secondo la Corte, lo stato di invalidità pregresso non può rilevare ove si tratti di danni risarcibili iure proprio ai congiunti, potendo condurre ad una riduzione del quantum dei pregiudizi risarcibili iure successionis, sempre che il danneggiante fornisca la prova che la conseguenza dannosa dell'evento (nella specie, la morte) sia stata cagionata anche dal pregresso stato di invalidità, sicché ove il danneggiato già in condizioni invalidanti di per sé idonee a condurlo alla morte deceda in conseguenza di eventuali condotte (commissive od omissive) di terzi, la risarcibilità iure proprio del danno (patrimoniale e) non patrimoniale riconosciuto ai congiunti può subire un ridimensionamento solamente in ragione della diversa considerazione del verosimile arco temporale in cui i congiunti avrebbero potuto ancora godere (sia sul piano affettivo che economico) del rapporto con il soggetto anzitempo deceduto.
La pregressa invalidità, inoltre, non può influire in termini di riduzione del danno morale in quanto le gravi affezioni o preoccupanti patologie di un congiunto intensificano, e non fanno certamente diminuire, il legame emozionale dei parenti, come può anche presuntivamente desumersi anche dalla quantità e qualità di cure prodigate all'infermo.
Danno da perdita parentale: è necessario individuare un regime transitorio che ne disciplini la liquidazione
Tribunale di Milano, sentenza n. 5947 del 7 luglio 2021
Con la sentenza in commento il Tribunale di Milano torna ad affrontare il tema dell’idoneità delle tabelle milanesi rispetto alla liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, soprattutto alla luce della recente sentenza n. 10579 del 21 aprile 2021 della Corte di cassazione.
Il Giudice rileva che, nella citata sentenza, vengono individuati due principali limiti al sistema tabellare milanese in materia di danno da perdita del rapporto parentale: da un lato, esso si limita ad individuare un tetto minimo ed un tetto massimo, fra i quali ricorre peraltro una significativa differenza; dall’altro, non si fa ricorso al criterio del punto variabile, il quale consentirebbe di tradurre la clausola generale dell’equità in una fattispecie, con ciò circoscrivendo l’esercizio della discrezionalità del giudice in sede di liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale e assicurando, conseguentemente, l’uniformità sul territorio nazionale.
Si ricorda che la Suprema Corte auspica la predisposizione di una tabella per la liquidazione del danno parentale basata sul sistema a punti, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione. La tabella dovrebbe contenere i seguenti requisiti: 1) adozione del criterio "a punto variabile"; 2) estrazione del valore medio del punto dai precedenti; 3) modularità; 4) elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, da indicare come indefettibili, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza) e dei relativi punteggi.
Secondo il Tribunale di Milano, in attesa della predisposizione di una tabella coerente con le indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione, è necessario individuare il regime transitorio che disciplini le modalità di quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale, così da affrontare l'impatto di un simile mutamento evolutivo della giurisprudenza di legittimità sulle controversie in corso.
A tal fine, il Giudice ritiene di poter comunque effettuare la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale all'interno della cornice edittale individuata dalle Tabelle milanesi, in quanto ciò consentirebbe in ogni caso di ridurre, in modo relativamente significativo, il margine di generalità e, conseguentemente, di discrezionalità che diversamente sarebbe rimesso al giudice procedente.
Il Tribunale evidenzia, infatti, che i valori minimi e massimi indicati nella Tabella milanese, nella sua attuale formulazione, sono frutto della combinazione di parametri che includono quelli indicati dalla pronuncia della Corte di Cassazione (la sopravvivenza o meno di altri congiunti del nucleo familiare primario, la convivenza o meno di questi ultimi, la qualità ed intensità della relazione affettiva familiare residua, la qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale con la persona perduta, l’età della vittima primaria e secondaria). Conseguentemente, i valori minimi e massimi ivi indicati sono quelli che discendono dall’applicazione delle circostanze concrete tipizzabili individuate dalla Corte di Cassazione e segnalate come criteri per la predisposizione di un nuovo sistema tabellare.
All’interno di questa cornice, infine, secondo il Tribunale di Milano dovrà procedersi nella fattispecie concreta all’individuazione del quantum risarcitorio dovuto in conformità ai citati parametri, della cui applicazione e comparazione dovrà darsi adeguatamente ed analiticamente conto nella motivazione della decisione del giudice di merito, così da consentire un sindacato sull’esercizio della discrezionalità rimessa al giudice in sede di liquidazione del danno.
Incidente stradale avvenuto all’estero: per il risarcimento si applica la legge del luogo dove è avvenuto il fatto
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 18286 del 25 giugno 2021
Nella sentenza in esame la Corte di cassazione è chiamata a chiarire quale sia la legge applicabile nel caso in cui dei cittadini italiani abbiano riportato dei danni perché coinvolti in un incidente stradale all’estero.
La Suprema Corte afferma il principio secondo cui la domanda di risarcimento del danno scaturente da fatto illecito avvenuto all’estero, commesso nei confronti di cittadino italiano da parte di un cittadino di altro Stato è soggetta alla legge del luogo ove è avvenuto il fatto senza che, ove la legge straniera porti a negare il risarcimento del danno non patrimoniale, ovvero a determinarlo in misura inferiore a quanto previsto dalla legge italiana, possa ritenersi violato il diritto dell’Unione Europea o quello costituzionale.
Azione recuperatoria proposta dal Fondo di Garanzia delle Vittime della Strada: la questione sulla sua natura è rimessa alle Sezioni Unite
Cassazione civile, sezione III, ordinanza interlocutoria n. 18802 del 2 luglio 2021
Con l’ordinanza interlocutoria in esame la Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione circa la natura dell’azione recuperatoria proposta dal Fondo di Garanzia delle Vittime della Strada nei confronti del danneggiante non assicurato ai sensi dell’art. 292 del Codice delle Assicurazioni.
Nel caso di specie, i giudici di merito avevano ritenuto che il diritto recuperatorio del Fondo di Garanzia delle Vittime della Strada trovasse fondamento nella legge quale azione di regresso sulla base dei due presupposti: la mancanza di copertura assicurativa e l'avvenuto pagamento nei confronti del danneggiato. Secondo i ricorrenti, invece, si trattava di azione di surrogazione legale nei diritti del danneggiato e, proprio per questo, oltre ai summenzionati presupposti sarebbe stato necessario anche un accertamento della dinamica del sinistro.
La Suprema Corte, premessa la differenza tra azione di regresso e azione surrogatoria (quella di regresso costituisce un diritto autonomo, mentre nell'ipotesi di surrogatoria la pretesa riguarda il medesimo diritto del danneggiato) da, in primo luogo, atto dei diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità rispetto alla qualificazione giuridica della "sostituzione" di cui all'art. 292 cod. ass. per poi rilevare come l’orientamento maggioritario tenda a considerare l’azione di regresso fondata su di un'azione autonoma e specifica prevista dalla legge, con la conseguenza che l'illecito costituisce il "presupposto" e non il fatto costitutivo, della fattispecie normativa del regresso ex lege.
Un orientamento minoritario, invece, la riconduce alla surrogazione legale, in particolare quella di cui all’art. 1203, n. 5 c.c., attribuendo all'impresa designata il medesimo diritto vantato dal danneggiato.
Infine la Corte riferisce di un ulteriore orientamento secondo il quale l'azione di regresso costituisce un’azione speciale, non assimilabile né allo schema dell'azione di regresso tra coobbligati solidali, né allo schema della surrogazione pura nel diritto del danneggiato. Secondo questa tesi, una volta indennizzata la vittima, se vi siano più responsabili (cioè se il conducente è persona diversa dal proprietario del mezzo danneggiante), all’azione esperita dal Fondo non si applicano gli artt. 1299 e 2055 c.c..
Preso atto del contrasto tra differenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità riguardo alla natura giuridica dell'azione di regresso, la Corte richiede, ex art. 374 c.p.c., co. 2, la rimessione della questione alle Sezioni Unite.
Il terzo trasportato ha azione diretta nei confronti dell’assicurazione anche quando non sono coinvolti altri veicoli
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 17963 del 23 giugno 2021
Nella sentenza in commento la Corte di cassazione si pronuncia in merito all’azione che spetta al terzo trasportato in caso di lesioni subite in un sinistro stradale nel quale non sono coinvolti altri veicoli a fronte del contrasto evidenziato dai giudici di merito circa l’applicabilità dell’art. 141 o dell’art. 144 del d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209.
La Corte rileva che l’art. 141 cod. ass. attribuisce al danneggiato un'azione diretta nei confronti di un obbligato ex lege, non già solo a prescindere da un rapporto contrattuale con il danneggiato che non sussiste (come negli altri casi di azione diretta), ma anche dalla responsabilità del proprio assicurato, da intendere nel senso che l'assicuratore del vettore è tenuto al risarcimento del danno in modo indipendente dall'accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro, fermo però il limite del caso fortuito.
Questa norma si limita a rafforzare la posizione del trasportato, considerato soggetto debole, legittimandolo ad agire direttamente anche nei confronti della compagnia assicuratrice del veicolo, senza peraltro togliergli la possibilità di fare valere i diritti derivanti dal rapporto obbligatorio nato dalla responsabilità civile dell'autore del fatto dannoso.
Si tratta di una tutela rafforzata che si affianca all’ordinaria azione diretta prevista dall’art. 144 cod. ass. - esperibile da qualsiasi danneggiato nei confronti dell’assicurazione del responsabile del danno - e che è con essa cumulabile.
Ciò premesso, secondo la S.C., l’azione spettante al trasportato per il danno cagionato dalla circolazione del veicolo in mancanza di altri veicoli coinvolti nel sinistro è quella generale prevista dall’art. 144 nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile. […] ne consegue la necessaria necessità di chiamare nel giudizio anche il responsabile del danno, ovvero il proprietario del veicolo.
Conseguentemente, la Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: nel caso di sinistro in cui sia coinvolto solo il veicolo in cui sia trasportato il danneggiato, questi, deducendo la fattispecie di cui all’art. 2054, comma 1, cod. civ. ha azione diretta per il risarcimento del danno nei confronti dell’impresa di assicurazione del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro quale impresa di assicurazione del responsabile civile ai sensi dell’art. 144 d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209.
La revoca dell’assegno di invalidità per sopravvenuto miglioramento delle condizioni del danneggiato rileva anche nei confronti dell’I.N.P.S. che agisce in surroga
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 17966 del 23 giugno 2021
Con la sentenza in commento la Corte di cassazione si pronuncia in merito alla surroga da parte dell’I.N.P.S. nei diritti del danneggiato che ha ottenuto l’assegno di invalidità, con particolare riferimento al caso in cui l’assegno venga revocato a causa del sopravvenuto miglioramento delle condizioni del danneggiato.
Nel caso di specie, l’I.N.P.S. aveva promosso nei confronti del responsabile civile e della sua compagnia di assicurazione azione di rivalsa per il recupero del valore capitale della rendita liquidata al danneggiato a seguito di un sinistro stradale e mentre il Tribunale aveva condannato i convenuti alla minore somma corrispondente ai ratei effettivamente corrisposti da parte dell’I.N.P.S. fino al momento della revoca dell’assegno (dovuta al miglioramento delle condizioni del danneggiato), riducendo ulteriormente l’importo in ragione della stima del presunto danno patrimoniale effettivamente subito dall'infortunato, la Corte d’appello aveva riformato la sentenza, ritenendo che l'appellante avesse diritto a percepire il pagamento dell'intero valore capitalizzato.
La Corte di cassazione osserva che in conformità al principio che non consente in alcun caso (sia da parte del danneggiato, che dell'ente che agisca in surroga) una locupletazione indebita, non è possibile riferire la surroga all'erogazione di somme in realtà non dovute poiché ciò comporterebbe, a carico del debitore, un sacrificio economico cui lo stesso non deve essere esposto, non potendosi pretendere che egli corrisponda al terzo surrogato somme maggiori di quelle che avrebbe dovuto pagare al creditore originario.
Alla luce di ciò, la Corte, aderendo alla decisione del Tribunale, enuncia il seguente principio di diritto: nell'ipotesi in cui il giudice debba valutare il contenuto della surroga riferita ad un danno de futuro, deve essere affermata la rilevanza, anche giuridica, dell'eventuale sopravvenienza di una modifica delle condizioni del danneggiato, che evidenzi il venir meno dello stato invalidante o una sua riduzione, tale da incidere sul danno per come liquidato. Tale principio va applicato anche all'assicuratore sociale che abbia riconosciuto l'indennizzo nella forma della rendita e si surroghi ai sensi dell'art. 14 (II comma, Legge n. 222 del 1984).
Infortuni sul lavoro: l'onere della prova grava sul datore di lavoro, che deve dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno
Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza n. 17576 del 18 giugno 2021
Con la sentenza in commento la Corte di cassazione affronta il tema della responsabilità del datore di lavoro, con particolare riferimento all’onere della prova in caso di infortunio del lavoratore per mancata adozione delle misure antinfortunistiche.
La Suprema Corte osserva che la responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro, in concreto, svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori.
Secondo i giudici di legittimità, poi, nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa pericolosa, la responsabilità del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell'art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non può essere, tuttavia, circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psico-fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto [...] della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio.
Tale interpretazione estensiva si giustifica alla stregua dell'ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute, sia per il principio di correttezza e buona fede nell'attuazione del rapporto obbligatorio [...] cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, sia, infine, pur se nell'ambito della generica responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., in tema di neminem laedere.
Alla luce di queste premesse, i giudici di legittimità affermano che l'onere della prova grava sul datore di lavoro, che deve dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno (prova liberatoria), attraverso l'adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche, cui non possono sottrarsi - nel caso in cui il dipendente di una società appaltatrice di lavori da eseguire in un'area di lavoro del committente riporti un infortunio - entrambe le società interessate.
Gli obblighi gravanti in capo ai proprietari o concessionari delle strade si estendono anche alla banchina nonché alle pertinenze e agli elementi accessori della carreggiata
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 19610 del 9 luglio 2021
Con la sentenza in commento la Corte di cassazione è chiamata a pronunciarsi in merito al risarcimento del danno da cose in custodia nel caso in cui il conducente di un’autovettura finisca fuori strada a causa del manto autostradale usurato e bagnato, urtando contro la roccia a margine della carreggiata.
La Suprema Corte innanzitutto osserva che è configurabile la responsabilità per cosa in custodia disciplinata dall'art. 2051 c.c. a carico dei proprietari o concessionari delle strade (e delle autostrade), stante la relativa disponibilità e l'effettiva possibilità di controllo della situazione della circolazione e delle carreggiate, riconducibile ad un rapporto di custodia.
Al fine di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, tali soggetti sono tenuti a provvedere:
a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi;
b) al controllo tecnico dell'efficienza delle strade e relative pertinenze;
c) all'apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta.
Secondo la Corte, l'obbligo di prevenire e, se del caso, segnalare qualsiasi situazione di pericolo o di insidia concerne non solo la sede stradale ma anche la zona non asfaltata sussistente ai limiti della medesima, posta a livello tra i margini della carreggiata e i limiti della sede stradale ("banchina"), tenuto conto che la stessa fa parte della struttura della strada, e che la relativa utilizzabilità, anche per sole manovre saltuarie di breve durata, comporta esigenze di sicurezza e prevenzione analoghe a quelle che valgono per la carreggiata, in quanto, in assenza di specifica segnalazione contraria, anch'essa, benché non pavimentata, per la sua apparenza esteriore suscita negli utenti affidamento di consistenza e sicura transitabilità.
La custodia, dunque, non è limitata alla sola carreggiata, ma si estende anche alla banchina nonché, ancora più ampiamente, agli elementi accessori e pertinenze, anche inerti, come, ad esempio, le cunette, le scarpate laterali e le eventuali barriere laterali di sicurezza con funzione di contenimento e protezione della sede stradale.
L'accertamento del nesso causale va compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun titolare della posizione di garanzia
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 24439 del 22 giugno 2021
Nella la sentenza in commento la Corte di cassazione affronta il tema della causalità omissiva nel caso di attività medica di équipe, quando più soggetti titolari di posizioni di garanzia si succedono nel tempo.
La Suprema Corte osserva che nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose ascritte all'esercente la professione sanitaria, il ragionamento controfattuale deve essere sviluppato dal giudice di merito in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente od altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare l'evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale.
In tema di colpa nell'attività medico-chirurgica, il meccanismo controfattuale, necessario per stabilire l'effettivo rilievo condizionante della condotta umana (nella specie: l'effetto salvifico delle cure omesse) deve fondare su affidabili informazioni scientifiche nonché sulle contingenze significative del caso concreto, dovendosi comprendere:
a) qual è solitamente l'andamento della patologia in concreto accertata;
b) qual è normalmente l'efficacia delle terapie;
c) quali sono i fattori che solitamente influenzano il successo degli sforzi terapeutici.
Per quanto riguarda la successione di posizioni di garanzia, la Cassazione afferma che, quando l'obbligo di impedire l'evento connesso ad una situazione di pericolo grava su più persone obbligate ad intervenire in tempi diversi, l'accertamento del nesso causale rispetto all'evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun titolare della posizione di garanzia, stabilendo cosa sarebbe accaduto nel caso in cui la condotta dovuta da ciascuno dei garanti fosse stata tenuta, anche verificando se la situazione di pericolo non si fosse modificata per effetto del tempo trascorso o di un comportamento dei successivi garanti.
L'attenuante prevista per l’omicidio stradale non si applica al reato di morte come conseguenza di altro delitto
Cassazione penale, sezione V, sentenza n. 22768 del 9 giugno 2021
Nella sentenza in commento la Corte di cassazione si pronuncia in merito alla possibilità di ritenere applicabile l’attenuante prevista per il reato di omicidio stradale di cui all'art. 589-bis, co. 7, c.p., qualora l'evento non sia esclusiva conseguenza dell'azione o dell'omissione del colpevole, al reato di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto ex art. 586 c.p..
Nel caso di specie, l’imputato, condannato per i reati di cui agli artt. 9 e 189, commi 1 e 7, C.d.S. e 586 c.p., per aver gareggiato in velocità con un altro veicolo, cagionato la morte dell'altro conducente e omesso di prestare i soccorsi, ha proposto ricorso in cassazione lamentando che la causa della morte fosse stata la perdita di controllo della vettura da parte della vittima che si trovava, peraltro, in condizioni di grave intossicazione alcolica e che, pertanto, avrebbe dovuto riconoscersi l'attenuante speciale di cui all'art. 589-bis, comma 7, c.p., in ossequio al principio di eguaglianza.
La Suprema Corte osserva che proprio la natura speciale di detta attenuante ne giustifica la non applicabilità al diverso delitto di cui all'art. 586 c.p., per il quale l’imputato aveva riportato condanna. Infatti, la previsione di cui all'art. 586 c.p., non prevede, per ogni categoria di omicidio e lesioni colpose, l'automatica applicazione degli artt. 589 e 590, ma solo che, qualora l'evento effettivamente cagionato sia sussumibile in tali disposizioni, le relative pene siano aumentate. Quando, invece, i fatti sono sussumibili nella fattispecie speciale di cui all'art. 589-bis c.p., l'aumento di pena previsto dall'art. 586 non si applica, perché esso trova applicazione solo in relazione ai reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p.
Le disposizioni di cui all'art. 589-bis c.p., dunque, sono speciali rispetto alle fattispecie richiamate dall'art. 586 c.p., in quanto le condotte di cui agli artt. 589 e 590 c.p., sono poste in essere dall'agente con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale. Ebbene, proprio di tale particolarità non si può non tener conto nell’applicazione dell'art. 586 c.p.
Si tratta di una particolare applicazione dell'aberratio delicti di cui all'art. 83 c.p., sicché quando si è in presenza di condotte speciali tenute dall'agente trovano applicazione le disposizioni di cui agli artt. 589-bis e 590-bis c.p., in luogo degli aumenti di cui all'art. 586 c.p.
Per la Corte non è, dunque, ravvisabile alcuna violazione del principio di eguaglianza, ma anzi discende dalla totale autonomia della previsione speciale di cui all'art. 589-bis c.p., rispetto a quella di cui all'art. 586 c.p., la mancata applicazione dell'invocata attenuante di cui all'art. 589-bis c.p., co. 7.
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- Tribunale di Milano, sentenza n. 5947 del 7 luglio 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 18286 del 25 giugno 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione III, ordinanza interlocutoria n. 18802 del 2 luglio 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 17963 del 23 giugno 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 17966 del 23 giugno 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza n. 17576 del 18 giugno 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 19610 del 9 luglio 2021.pdf
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