10.2018

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Newsletter Ottobre 2018

 

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L’inammissibilità dell’appello

Cassazione Civile, Ordinanza 13535/2018

 

Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione prende in considerazione il tema dell’inammissibilità dell’appello, disciplinato dall’art. 342 c.p.c. di cui propone una interpretazione conforme ai principi generali dell’ordinamento.

Nella fattispecie, parte ricorrente, con un unico motivo di ricorso, deduce che il Giudice di seconde cure avrebbe erroneamente ritenuto l’appello inammissibile ai sensi dell’art. 342 c.p.c..

La Suprema Corte accoglie il ricorso sulla scorta dei principi generali cui è sotteso il nostro ordinamento.

Innanzitutto, chiarisce che il nostro processo civile risulta caratterizzato da un assetto teleologico delle forme, di cui vi è traccia nell’art 156, III comma, c.p.c. che, nonostante sia posto a disciplina delle ipotesi di nullità, risulta essere espressione di un principio generale sotteso all’ordinamento processuale, e dal quale discenderebbe che, anche quando si debba giudicare dell’ammissibilità d’una impugnazione, il giudicante deve badare non al rispetto di clausolari astratti o formule di stile, ma alla sostanza ed al contenuto effettivo dell’atto.

Il Giudice di legittimità, successivamente, precisa che le norme processuali, se ambigue, vanno interpretate in modo da favorire una decisione sul merito, piuttosto che esiti abortivi del processo, in quanto le regole processuali rappresentano solo lo strumento per garantire la giustizia della decisione, non il fine stesso del processo.

Infine, sulla considerazione che il diritto processuale deve essere interpretato alla luce delle regole sovranazionali imposte dal diritto comunitario - tra cui il principio imposto dalla CEDU circa l’effettività della tutela giurisdizionale - la Suprema Corte, ricordando le parole della Corte di Strasburgo, afferma che gli Stati membri nell’interpretazione della legge processuale, “devono evitare gli eccessi di formalismo, segnatamente in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi, consentendo per quanto possibile, la concreta esplicazione di quel diritto di accesso ad un tribunale previsto e garantito dall’art. 6 della CEDU del 1950”.

In conclusione, alla luce di dei principi esposti, la Corte stabilisce che l’art. 342 c.p.c. nella sua formulazione attuale:

-) non esiga dall’appellante alcun “progetto alternativo di sentenza”;

-) non esiga dall’appellante alcun vacuo formalismo fine a se stesso;

-) non esiga dall’appellante alcuna trascrizione integrale o parziale della sentenza appellata o di parti di essa.

 

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La Nullità della c.t.u.

Cassazione Civile 21984/2018

 

Con l’ordinanza in oggetto la Corte prende in considerazione il tema della nullità della c.t.u. per il mancato rispetto dei termini dettati dall’art. 195 c.p.c..

Il ricorrente lamenta che non sarebbe stata rilevata la nullità, tempestivamente eccepita, della Consulenza, dovuta al mancato inoltro, da parte del c.t.u., della bozza della consulenza alle parti prima del deposito dell’elaborato definitivo.

La Suprema Corte rileva che l’art 195 c.p.c. ha introdotto una sorta di sub procedimento nella fase conclusiva della consulenza tecnica d’ufficio, regolando, attraverso scansioni temporali rimesse alla concreta determinazione del giudice, i compiti del c.t.u. e le facoltà difensive delle parti nel momento del deposito della relazione scritta.

L’obiettivo perseguito dalla norma è quello di garantire un contraddittorio tecnico e, dunque, il diritto di difesa anche in fase di elaborazione della Consulenza, in modo tale da anticipare al momento delle indagini peritali la dialettica tra lo specialista nominato e i tecnici delle parti e, conseguentemente, accelerare i tempi del processo.

In concerto con tali obiettivi risulta logica conseguenza che l’omesso invio da parte del consulente tecnico della bozza di relazione alla parte, in quanto posta a presidio del diritto di difesa, integra un’ipotesi di nullità della consulenza, a carattere relativo e quindi assoggettata al rigoroso limite preclusivo di cui all’art. 157 c.p.c., sicché (…) tale nullità resta sanata se non eccepita nella prima istanza o difesa successiva al deposito.

L’ordinanza in esame, infine, ha il pregio di indicare come tale specifica nullità della c.t.u. per mancato invio della bozza alle parti, sia suscettibile anche di sanatoria per rinnovazione, potendo il contraddittorio sui risultati dell’indagine essere recuperato dal giudice e ripristinato successivamente al deposito della relazione, in modo da potere comunque, all’esito, esercitare con piena cognizione di causa i poteri attribuiti ai sensi dell’art. 196 c.p.c., cioè a dire valutare la necessità o l’opportunità di assumere chiarimenti dal c.t.u., disporre accertamenti supplitivi o addirittura la rinnovazione delle indagini o la sostituzione del consulente.

La Corte, dunque, sottolinea la necessità, a pena di decadenza, che le parti eccepiscano la nullità della c.t.u. tempestivamente, entro il primo atto utile successivo al deposito, affinché il giudice provveda nella maniera più adeguata.

 

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Il consenso informato

Cassazione Civile n. 9180/2018

 

Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione prende in considerazione il tema della risarcibilità, in via autonoma ed indipendente, della lesione del diritto al consenso informato.

La vicenda trae origine dalla domanda di risarcimento dei danni proposta dai genitori per la morte del figlio, avente ad oggetto sia il risarcimento dei danni da perdita del rapporto parentale, sia quello del danno da lesione del consenso informato.

La Suprema Corte sottolinea che la responsabilità in tema di consenso informato si configura in maniera del tutto autonoma rispetto alla responsabilità per errore od omissione diagnostica, e che il consenso si configura come imprescindibile qualora l’intervento non sia indifferibile ovvero necessario, in quanto la mera opportunità non risulta sufficiente al fine di eluderlo.

La Corte rileva che il diritto ad esprimere un consenso informato è diverso dal diritto alla salute e rileva in quanto tale.

Dunque, il medico dovrà rispondere sicuramente in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da una adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili (…) se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento.

Oltretutto, però, dovrà rispondere per la lesione del consenso anche quando siano configurabili conseguenze pregiudizievoli derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se considerato, del tutto a prescindere dalla lesione incolpevole della salute del paziente.

La Suprema Corte, dunque, specifica che il paziente ha una legittima pretesa di conoscere con la necessaria e ragionevole precisione le stesse conseguenze dell’intervento medico, onde prepararsi ad affrontarle con maggiore e migliore consapevolezza, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (…).

Infine, la pronuncia in esame ha il pregio di specificare chiaramente le condizioni di risarcibilità del danno da lesione del consenso distinguendo due ipotesi.

Se a seguito dell’intervento effettuato senza il necessario consenso derivino conseguenze lesive imprevedibili, il danno, per essere risarcibile, deve varcare la soglia della gravità dell’offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze delle Sezioni unite nn. 26972-26975 del 2008, con le quali è stato condivisibilmente affermato che il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.

Diversamente, se la lesione avveratasi a seguito dell’intervento – necessario ed eseguito secondo  legem artis – rientrava tra le conseguenze prevedibili, ma il consenso non era stato acquisito, è necessario allegare, sulla base di elementi soltanto presuntivi (…)che egli avrebbe rifiutato quel determinato intervento se fosse stato adeguatamente informato (…), ovvero che, debitamente informato, avrebbe vissuto il periodo successivo all’intervento con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze.

Infatti, conclude la Corte, se il paziente avesse comunque e consapevolmente acconsentito all’intervento, dichiarandosi disposto a subirlo qual che ne fossero gli esiti e le conseguenze, anche all’esito di una incompleta informazione nei termini poc’anzi indicati sarebbe palese l’insussistenza di nesso di causalità materiale tra la condotta del medico e il danno lamentato, perché quella incolpevole lesione egli avrebbe, in ogni caso, consapevolmente subito, all’esito di un intervento eseguito secondo le leges artis da parte del sanitario.

 

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la duplice forma del danno non patrimoniale

Cassazione Civile 901/2018

 

Con la pronuncia in esame, la Corte propone una rilettura delle note sentenze San Martino circa l’unitarietà e onnicomprensività del danno biologico (rectius non patrimoniale).

La vicenda trae origine da una richiesta di risarcimento dei danni patiti a seguito di un intervento di laparatomia addominale, effettuato in assenza del necessario consenso informato e tra le censure proposte in sede di legittimità, la Suprema Corte ha accolto, in particolare quella relativa alla erronea individuazione, qualificazione e quantificazione delle voci di danno risarcibili, che ha dato l’opportunità di formulare delle considerazioni in merito alla natura del danno non patrimoniale.

La Corte esordisce specificando che la natura “unitaria” di quest’ultimo, come espressamente predicata dalle sezioni unite di questa Corte con le sentenze del 2008, deve essere intesa, secondo il relativo insegnamento, come unitarietà rispetto alla lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione economica (Cass ss.uu. 26972/2008).

Il Giudice di legittimità intende la natura unitaria nel senso che non v’è alcuna diversità nell’accertamento della liquidazione del danno causato dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto diverso da quello alla salute sia esso rappresentato dalla lesione della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della riservatezza del rapporto parentale.

Quanto, invece, all’onnicomprensività sta invece a significare che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti cd. bagattellari (in tali termini, del tutto condivisibilmente, Cass. 4379/2016).

L’accertamento e la liquidazione del danno non patrimoniale costituiscono, pertanto, questioni concrete e non astratte, e dunque devono tenere conto del reale danno alla persona, valutando la sofferenza umana nel complesso patita dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto.

Dunque, trova una sua motivazione il permanere della categoria descrittiva del danno esistenziale, da intendersi come danno che si dipana nella sfera dinamico-relazionale del soggetto a seguito di una lesione della salute ma anche, secondo la Corte, a seguito di lesione di altri diritti costituzionalmente protetti. Si tratterebbe dunque di un danno che è conseguenza omogenea della lesione – di qualsiasi lesione – di un diritto a copertura costituzionale, sia esso il diritto alla salute, sia esso altro diritto (rectius, interesse o valore) tutelato dalla Carta fondamentale.

La Suprema Corte ritiene indispensabile avanzare un’interpretazione ermeneutica delle Sentenze San Martino che dopo aver identificato l’indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (…) consenta poi al giudice del merito una rigorosa analisi ed una conseguente rigorosa valutazione sul piano della prova, tanto dell’aspetto interiore del danno (…) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana.

Risulterebbe, dunque, evidente la duplice essenza del danno alla persona nelle forme della sofferenza interiore e della significativa alterazione della vita quotidiana, che rappresenterebbero danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, provati caso per caso.

Secondo quanto rilevato dalla Suprema Corte, verrebbe sconfessata la tesi predicativa di una pretesa unitarietà onnicomprensiva risarcitoria del danno non patrimoniale, in quanto rimane ferma la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto.

Quanto detto risulterebbe anche dalla lettura dell’art. 139 del Codice delle Assicurazioni, per cui l’aumento personalizzato del danno biologico nell’ambito delle lesioni micro-permanenti, è circoscritto agli aspetti dinamico relazionali della vita del soggetto in relazione alle allegazioni e alle prove specificamente addotte, del tutto a prescindere dalla considerazione (e dalla risarcibilità) del danno morale e senza che ciò costituisca alcuna duplicazione risarcitoria. Infatti, prosegue la Corte, ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla Carta costituzionale si caratterizza, pertanto, per la sua doppia dimensione del danno relazionale/proiezione esterna dell’essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza.

Dunque la Corte, giunge ad individuare, attraverso una logica ermeneutica di tipo induttivo, una duplice dimensione del danno non patrimoniale (inteso, peraltro, non solo come danno alla salute, bensì come qualsiasi danno conseguente alla lesione di un diritto costituzionale), nelle forme del danno relazionale e del danno morale, che ben potranno e dovranno essere considerati e risarciti autonomamente se allegati e provati, non costituendo la loro liquidazione separata alcuna duplicazione risarcitoria.

 

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La personalizzazione del danno non patrimoniale

Cassazione Civile n. 7513/2018

 

La vicenda trae origine dalla domanda di risarcimento proposta dall’attore nei confronti dell’Assicuratore, per i danni subiti a seguito di un incidente stradale avvenuto in orario lavorativo. La pronuncia in esame ha il pregio di analizzare il danno biologico e le sue componenti, ed individuare quando siamo di fronte ad una personalizzazione consentita e quando invece siamo di fronte ad una illegittima duplicazione risarcitoria.

La Suprema Corte, innanzitutto, puntualizza l’esigenza di un necessario rigore linguistico, perciò procede preliminarmente nello stabilire cosa debba intendersi per danno dinamico-relazionale, evidenziando che questa espressione – avendo tenuto in considerazione il tenore legislativo – si traduce sostanzialmente in una perifrasi del concetto di “danno biologico” e dunque in una ordinaria compromissione delle attività quotidiane.

Le Tabelle di invalidità permanente sono volte a sintetizzare tutte le conseguenze ordinarie che scaturiscono da una determinata menomazione, che vengono liquidate sul presupposto della mera dimostrazione dell’esistenza dell’invalidità. Solo qualora, a causa della specificità del caso, vengano compromesse attività particolari – dando prova concreta dell’effettivo e maggior pregiudizio sofferto– si potrà procedere ad un aumento del risarcimento di base.

La Corte riassume i principi esposti schematicamente, individuando dieci punti:

1) l’ordinamento prevede e disciplina soltanto due categorie di danni: quello patrimoniale e quello non patrimoniale.

2) Il danno non patrimoniale (come quello patrimoniale) costituisce una categoria giuridicamente (anche se non fenomeno logicamente) unitaria.

3) “Categoria unitaria” vuol dire che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole e ad i medesimi criteri risarcitori (artt. 1223,1226,2056,2059 c.c.).

4) Nella liquidazione del danno non patrimoniale il giudice deve, da un lato, prendere in esame tutte le conseguenze dannose dell’illecito; e dall’altro evitare di attribuire nomi diversi a pregiudizi identici.

5) In sede istruttoria, il giudice deve procedere ad un articolato e approfondito accertamento, in concreto e non in astratto, della effettiva sussistenza dei pregiudizi affermati (o negati) dalle parti, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, opportunamente accertando in special modo se, come e quanto sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito; utilizzando anche, ma senza rifugiarvisi aprioristicamente, il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, e senza procedere ad alcun automatismo risarcitorio.

6) In presenza d’un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l’attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale).

7) In presenza d’un danno permanente dalla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento

8) In presenza d’un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d’una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)

9) Ove sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l’esistenza d’uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (…)

10) Il danno non patrimoniale non derivante da una lesione della salute, ma conseguente alla lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, va liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso. Nell’uno come nell’altro caso, senza automatismi risarcitori e dopo accurata ed approfondita istruttoria.

La Corte, infine, conclude sottolineando che la valutazione riguardante i pregiudizi subiti, e se questi rientrino o meno nelle normali conseguenze dell’invalidità, è sicuramente un apprezzamento di cui è investito il Giudice di merito.

 
 

Mod. ICONT – Data Agg. 17/12/2021

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