Il ricorso in Cassazione deve essere coerente nei contenuti e chiaro nella forma
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 6546 del 10 marzo 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte chiarisce come debba presentarsi, dal punto di vista formale, un ricorso in cassazione affinché i giudici possano esaminarlo e pronunciarsi.
In particolare, il ricorso in cassazione è un atto nel quale si richiede al ricorrente di articolare un ragionamento sillogistico così articolato:
- quale sia stata la decisione di merito;
- quale avrebbe dovuto essere la decisione di merito;
- quale regola o principio sia stato violato, per effetto dello scarto tra decisione pronunciata e decisione attesa.
La Corte può conoscere solo degli errori correttamente censurati e non può di norma rilevarne d’ufficio, né può pretendersi che essa intuisca quale tipo di censura abbia inteso proporre il ricorrente, quando questi esponga le sue doglianze con tecnica scrittoria oscura.
Precisamente, un ricorso per cassazione può dirsi che assolva correttamente l’onere imposto dall’art. 366, n. 3 e 6, c.p.c., quando esponga in ordine cronologico ed in modo chiaro i fatti di causa: infatti, coerenza di contenuti e chiarezza di forma costituiscono l’imprescindibile presupposto perché un ricorso possa essere esaminato e deciso.
La libera valutazione della prova testimoniale
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 5560 del 1° marzo 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte si pronuncia in tema di valutazione delle prove ad opera del giudice di merito, in particolare in relazione alle deposizioni testimoniali.
In ossequio al principio di libera valutazione delle prove, di cui all’articolo 116 c.p.c., il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti: il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati.
La valutazione delle risultanze istruttorie si fonda su apprezzamenti di fatto riservati al giudice, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti.
In particolare, in caso di prova testimoniale, tanto la valutazione delle deposizioni testimoniali, quanto il giudizio sull’attendibilità dei testi, sulla credibilità e rilevanza probatoria delle loro affermazioni sono rimessi al libero convincimento del giudice di merito: sono infatti a lui riservate l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento. Pertanto, è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre.
In definitiva, sia la valutazione delle deposizioni testimoniali, sia il giudizio sull’attendibilità dei testi, sulla credibilità e sulla rilevanza probatoria delle loro affermazioni sono rimessi al libero convincimento del giudice del merito, la cui valutazione, ove motivata in modo non apparente né contraddittorio, non è censurabile in cassazione.
Assicurazioni: la provvisionale ex art. 147 C.d.A. perde effetto in caso di rigetto della domanda
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 7389 del 16 marzo 2021
Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione affronta il tema dell’efficacia dell’ordinanza con cui il giudice assegna al danneggiato la provvisionale di cui all'art. 147 C.d.A..
Nel caso di specie, il danneggiato aveva ottenuto in primo grado il versamento di una somma a titolo di provvisionale ex art. 147 C.d.A. da parte dell’assicuratore, sul presupposto del suo stato di bisogno e del fumus boni iuris; tuttavia, all’esito del giudizio, la sua domanda era stata rigettata. La compagnia di assicurazione aveva perciò chiesto, in un separato giudizio, la condanna del danneggiato alla restituzione della somma versata, ottenendo l’accoglimento della domanda sia in primo che in secondo grado.
Secondo la Suprema Corte, anche a voler negare natura cautelare dell'ordinanza che ha riconosciuto la provvisionale (secondo l'opzione interpretativa che appare più corretta, una volta che la L. n. 102/2006 ha escluso la necessità che il danneggiato versi in stato di bisogno), e quindi considerandola come un provvedimento anticipatorio, la ratio decidendi adottata dalla Corte d’appello è corretta, in quanto il provvedimento con cui si assegna la provvisionale ex art. 147 C.d.A. è destinato a essere caducato con la sentenza che definisce il grado di giudizio.
La stessa Corte, ancorché in via indiretta, aveva già avuto modo di pronunciarsi sulla natura e sul regime di stabilità di suddetto provvedimento, affermando la sua revocabilità con la decisione del merito e la sua natura provvisoria, essendo questo destinato ad essere assorbito dalla sentenza che chiude il giudizio di primo grado.
Alla luce di ciò, secondo la Cassazione, l'ordinanza con cui il giudice di prime cure abbia assegnato la provvisionale di cui all'art. 147 C.d.A. […] produce effetti anticipatori della condanna richiesta dall'attore ed è destinata ad essere assorbita dalla sentenza che definisce il giudizio di primo grado, divenendo pertanto priva di effetti in caso di rigetto della domanda, così da consentire alla parte che abbia pagato di agire per la restituzione della somma, senza necessità di attendere il passaggio in giudicato della sentenza. Aggiunge la Corte che la restituzione delle somme corrisposte in virtù della provvisoria esecuzione di un'ordinanza immediatamente esecutiva, concessa dal giudice di prime cure a titolo di provvisionale […] può essere chiesta per la prima volta in appello o con la comparsa di risposta contenente impugnazione incidentale avverso detta sentenza, atteso che tale istanza, oltre ad essere conforme al principio di economia dei giudizi, non altera i termini della controversia e non costituisce, perciò, domanda nuova. Chiaramente, la possibilità di richiedere la restituzione nell'ambito del giudizio di appello non osta alla possibilità di agire separatamente.
La responsabilità del medico e della struttura sanitaria è solidale e va ripartita in misura paritaria
Tribunale di Messina, sentenza n. 152 del 28 gennaio 2021
Nella sentenza in commento il Tribunale di Messina affronta i temi della corresponsabilità tra medico e struttura sanitaria e dell’azione di rivalsa che l’azienda può esercitare nei confronti del professionista.
Il Tribunale di Messina rileva innanzitutto che, se la struttura si avvale della collaborazione di medici, si trova a dover rispondere dei pregiudizi da costoro eventualmente cagionati ai sensi dell’art. 1228 c.c., e la sua responsabilità trova radice non già in una colpa in eligendo degli ausiliari o in vigilando circa il loro operato, bensì nel rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nell’adempimento dell’obbligazione (Cass. n. 28987/2019; Cass. n. 6243/2015).
Per quanto concerne la domanda di manleva proposta dall’azienda ospedaliera nei confronti del medico, il Tribunale ricorda che è possibile esperire l’azione di regresso nello stesso giudizio in cui si controverte sull’an e sul quantum dell’obbligazione principale (Cass. n. 19584/2013; Cass. n. 13087/2010), ed osserva che l’obbligazione di rivalsa della struttura sanitaria nei confronti del medico, in quanto assimilabile all’obbligazione di regresso, presuppone un vincolo di solidarietà dell’una e dell’altro nei confronti del paziente.
Il giudizio di rivalsa va dunque ricondotto nel paradigma normativo degli artt. 1298 e 2055 c.c., a mente dei quali il condebitore in solido che adempia all’intera obbligazione vanta il diritto di rivalersi, con lo strumento del regresso, sugli altri corresponsabili secondo la misura della rispettiva responsabilità (Cass. n. 28987/2019). Da ciò ne consegue che non è possibile per la struttura sanitaria vantare un diritto di rivalsa integrale nei confronti del medico, in quanto, diversamente opinando, l’assunzione del rischio d’impresa per la struttura si sostanzierebbe, di fatto, nel solo rischio d’insolvenza del medico citato dalla stessa.
Pur chiarendo che, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 24 del 2017, l’azione di rivalsa rientra nella potestas iudicandi della Corte dei Conti, il Giudice messinese afferma che, prima di tale legge (ossia quando si erano verificati i fatti di causa), la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva del medico, oltre ad avere natura solidale nei rapporti esterni tra creditore danneggiato e soggetti danneggianti, nel rapporto interno tra la struttura sanitaria ed il medico deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, co. 2, e 2055, co. 3, c.c., salvo che la struttura dimostri una eccezionale, inescusabilmente grave e del tutto imprevedibile, devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell’obbligazione.
Il Tribunale di Messina passa poi a considerare la sorte dell'azione di rivalsa nel caso in cui il medico abbia provveduto, nelle more del giudizio, ad una soluzione transattiva della controversia per quanto concerne la propria quota di debito stabilendo come non possa trovare applicazione il disposto dell’art. 1304, co. 1, c.c.. La norma, infatti, si riferisce unicamente alla transazione che abbia ad oggetto l’intero debito e non la sola quota del debitore con il quale è stata stipulata poiché è la comunanza dell’oggetto della transazione che comporta, in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetti solo tra le parti, la possibilità per il condebitore solidale di avvalersene, pur non avendo partecipato alla sua stipulazione.
Bisogna, dunque, distinguere due diverse ipotesi: qualora il condebitore che ha transatto abbia versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all'importo pagato mentre, ove il pagamento sia stato inferiore, il debito residuo degli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto.
Errato intervento chirurgico: è possibile risolvere il contratto per inadempimento anche quando il risultato terapeutico è stato raggiunto
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 8220 del 24 marzo 2021
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di risoluzione del contratto di opera professionale in un caso di errato intervento chirurgico a fronte del quale la Corte d’Appello aveva accolto la domanda di risarcimento del danno ma rigettato quella di risoluzione del contratto sul presupposto che l'inadempimento non fosse di tale gravità da giustificarla, dal momento che l’operazione aveva comunque raggiunto alcuni effetti terapeutici.
La Suprema Corte innanzitutto ricorda che, ai sensi dell'art. 1455 c.c., l'importanza dell'inadempimento di una delle parti del contratto, ai fini della risoluzione, va valutata "avuto riguardo all'interesse dell'altra", che è parametro non necessariamente correlato al dato quantitativo delle prestazioni (o della parte di esse) rimaste inadempiute, ma a quello qualitativo della rispondenza delle prestazioni così come eseguite (e a fortiori di quelle ineseguite) all'effettivo e principale interesse, sottostante al contratto, della parte che ne aveva diritto.
Come la stessa Corte ha già in passato evidenziato, la valutazione circa la non scarsa importanza, che giustifica la risoluzione per inadempimento, viene operata alla stregua di un duplice criterio: in primo luogo, attraverso la verifica che l'inadempimento abbia inciso in misura apprezzabile nell'economia complessiva del rapporto (in astratto, per la sua entità e, in concreto, in relazione al pregiudizio effettivamente causato all'altro contraente), sì da dar luogo ad uno squilibrio sensibile del sinallagma contrattuale (parametro oggettivo); in secondo luogo, bisogna considerare gli eventuali elementi di carattere soggettivo, consistenti nel comportamento di entrambe le parti (come un atteggiamento incolpevole o una tempestiva riparazione, ad opera dell'una, un reciproco inadempimento o una protratta tolleranza dell'altra), che possano, in relazione alla particolarità del caso, attenuare il giudizio di gravità, nonostante la rilevanza della prestazione mancata o ritardata (parametro soggettivo).
In tale prospettiva, in un caso quale quello di specie di intervento al seno, di per sé evidentemente mirato ad un risultato di natura principalmente estetica, non può giustificarsi una aprioristica sottovalutazione dell'insuccesso dell'intervento in concreto accertata proprio rispetto a tale perseguito obiettivo.
Alla luce di ciò, la Suprema Corte cassa con rinvio la sentenza, per mancanza di motivazione.
La lesione del diritto all’autodeterminazione terapeutica: le conseguenze dannose devono essere allegate dal paziente
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 8163 del 23 marzo 2021
Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione torna ad affrontare il tema della lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente in caso di mancata acquisizione del consenso informato.
La Suprema Corte ha innanzitutto richiamato il consolidato orientamento in base al quale, in tema di responsabilità professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un'adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è del tutto consolidata nel senso di configurare il diritto all’autodeterminazione quale diritto autonomo e distinto rispetto al diritto alla salute e nell’individuarne il fondamento negli artt. 2, 13 e 32 Cost.; allo stesso tempo, però, richiede un giudizio controfattuale su quale sarebbe stata la scelta del paziente ove correttamente informato, atteso che, se egli avesse prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento, la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute determinata dalla successiva errata esecuzione della prestazione professionale, mentre, se egli avesse negato il consenso, il danno biologico scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile "ab origine" alla violazione dell'obbligo informativo, e concorrerebbe, unitamente all'errore relativo alla prestazione sanitaria, alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno-conseguenza.
Le conseguenze dannose derivanti dalla lesione del diritto all’autodeterminazione devono essere, dunque, allegate dal paziente, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito da una sua scelta soggettiva (criterio della vicinanza della prova), ed essendo il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico un’eventualità non rientrante nell'id quod plerumque accidit.
Al riguardo la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile in re ipsa, ossia derivante esclusivamente dall'omessa informazione.
Spetta al paziente provare il nesso di causa tra l'intervento erroneo dei sanitari e l'insorgenza di un’ulteriore successiva malattia
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 7908 del 19 marzo 2021
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi in tema di nesso di causalità nei giudizi di responsabilità sanitaria.
La Suprema Corte richiama la giurisprudenza secondo cui, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto tale onere, spetta alla struttura dimostrare l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza.
I giudici di legittimità ricordano poi anche l'indirizzo delle Sezioni Unite (Cass. Civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577), secondo cui, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.
Una volta risarcito il danno da perdita parentale non è possibile riconoscere anche il danno esistenziale
Cassazione Civile, sezione III, ordinanza n. 8622 del 26 marzo 2021
Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla risarcibilità del danno da perdita del rapporto parentale e del danno esistenziale nei confronti dei congiunti di un ragazzo deceduto in un incidente stradale.
La Suprema Corte innanzitutto ricorda i principi dalla stessa già affermati, secondo cui, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, in assenza di lesione alla salute, ogni "vulnus" arrecato ad altro valore costituzionalmente tutelato va valutato ed accertato, all'esito di compiuta istruttoria, in assenza di qualsiasi automatismo, sotto il duplice aspetto risarcibile sia della sofferenza morale che della privazione, ovvero diminuzione o modificazione delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate dal danneggiato, cui va attribuita una somma che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito sotto entrambi i profili, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche.
La Cassazione rileva che il danno conseguente alla morte di un congiunto (o "danno parentale") consiste, di per sé, nella perdita della relazione col familiare e si sostanzia - al tempo stesso e congiuntamente - nella sofferenza interiore e nell'alterazione del precedente assetto esistenziale del congiunto superstite; entrambi gli aspetti, che sono intimamente connessi, benché suscettibili, nelle singole ipotesi, di una valutazione separata, sono considerati dalle tabelle in uso per la liquidazione del danno parentale, cosicché il riconoscimento di un importo per danno esistenziale ulteriore rispetto a quello liquidato per il danno da alterazione del precedente assetto relazionale della vita si risolverebbe in un'inammissibile duplicazione risarcitoria.
Per queste ragioni la Corte ribadisce che deve escludersi che al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito di un terzo possano essere liquidati sia il danno da perdita del rapporto parentale che il danno esistenziale, poiché il primo già comprende lo sconvolgimento dell'esistenza, che ne costituisce una componente intrinseca; ciò in virtù del principio di unitarietà e onnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale.
Danno da perdita parentale: la mancanza di un vincolo affettivo tra padre e figlio esclude il risarcimento
Tribunale di Udine, ordinanza del 29 marzo 2021
Nell'ordinanza in commento il Tribunale di Udine si pronuncia in tema di risarcimento del danno da perdita parentale, con particolare riferimento all’onere probatorio posto in capo ai congiunti superstiti con riferimento al vincolo affettivo che li legava al de cuius.
Il Tribunale rileva innanzitutto che il danno da perdita del congiunto va inteso come quel pregiudizio che rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e dal danno biologico […] e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rilevato da fondamentali e radicali cambiamenti di vita.
Ne consegue che il danno da perdita parentale può essere riconosciuto in capo a tutti quei soggetti che possono far valere un vincolo giuridicamente rilevante con la vittima (presupposto di diritto) e che erano ad essa legati da vincoli affettivi intensi e tangibili (presupposto di fatto). Benché questi presupposti siano entrambi necessari, non sono però da soli sufficienti per riconoscere il risarcimento del danno non patrimoniale, con la conseguenza che non è sufficiente allegare di essere parenti della vittima, ma bisogna altresì provare l’esistenza dell’affetto perduto. È, infatti, onere dell'attore allegare e provare la propria sofferenza interiore ed i radicali mutamenti dello stile di vita: tale onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche.
Anche per quanto riguarda la liquidazione, deve tenersi conto dell'intensità del relativo vincolo e di ogni ulteriore circostanza, quale la consistenza del nucleo familiare, le abitudini di vita, la situazione di convivenza, sino ad escludere la configurabilità del danno non patrimoniale da morte se [...] non vi sia mai stato un rapporto affettivo e sociale, né rapporti di frequentazione e conoscenza. Secondo il giudice udinese, se in linea astratta può farsi ricorso alle presunzioni semplici per ritenere integrato tale ultimo presupposto, cionondimeno al responsabile resta sempre consentito dedurre e provare che tra la vittima e il superstite non esisteva alcun vincolo affettivo o non esisteva un vincolo dell’intensità allegata dall’attore.
La liquidazione del danno da perdita parentale secondo le Tabelle di Milano
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 10579 del 21 aprile 2021
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito all’idoneità delle tabelle di Milano, così come strutturate, a liquidare il danno da perdita del rapporto parentale.
La Suprema Corte osserva che in giurisprudenza è ormai consolidato l'orientamento secondo cui l'omessa o erronea applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano può essere fatta valere, in sede di legittimità, come violazione dell'art. 1226 c.c., costituendo le stesse parametro di conformità della valutazione equitativa alla disposizione di legge. In questa chiave le tabelle milanesi hanno acquistato una sorta di efficacia para-normativa, in base alla quale, ai fini del rispetto del precetto dell'art. 1226, il giudice ha la possibilità di discostarsi dai valori tabellari a condizione che le specificità del caso concreto lo richiedano ed in sentenza sia fornita motivazione di tale scostamento.
La Cassazione rileva che la funzione di garanzia dell'uniformità delle decisioni svolta dalla tabella elaborata dall'ufficio giudiziario è affidata al sistema del punto variabile, per il grado di prevedibilità che tale tecnica offre pur con limitate possibilità di deroga, derivanti dalla eccezionalità del caso di specie e consentite dalla circostanza che […] si tratta non di una norma di diritto positivo, ma del diritto vivente riconosciuto da questa Corte.
Secondo i giudici di legittimità, quando il sistema del punto variabile non è seguito la tabella non garantisce la funzione per la quale è stata concepita, che è quella dell'uniformità e prevedibilità delle decisioni a garanzia del principio di eguaglianza.
Al fine di garantire uniformità e prevedibilità, i requisiti che una tabella per la liquidazione del danno dovrebbe contenere sono i seguenti:
1) adozione del criterio "a punto variabile";
2) estrazione del valore medio del punto dai precedenti;
3) modularità;
4) elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, da indicare come indefettibili, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza) e dei relativi punteggi.
Tuttavia, la Cassazione rileva che, sotto questo aspetto, la tabella meneghina, con riferimento al danno da perdita parentale, non segue la tecnica del punto, ma si limita ad individuare un tetto minimo ed un tetto massimo, fra i quali ricorre peraltro una assai significativa differenza.
Secondo la Corte, ove la liquidazione del danno parentale sia stata effettuata non seguendo una tabella basata sul sistema a punti, l'onere di motivazione del giudice di merito, che non abbia fatto applicazione di una siffatta tabella, sorge nel caso in cui si sia pervenuti ad una quantificazione del risarcimento che, alla luce delle circostanze del caso concreto, risulti inferiore o sproporzionata rispetto a quella cui si sarebbe pervenuti utilizzando la tabella a punti.
Alla luce di tali premesse, la Corte enuncia il seguente principio di diritto: Al fine di garantire non solo un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l'adozione del criterio a punto, l'estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l'elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l'indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull'importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l'eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella.
Responsabilità da cose in custodia: il caso fortuito va inteso in senso oggettivo
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 8216 del 24 marzo 2021
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi in tema di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c., richiamando i seguenti principi già precedentemente affermati nelle Ordinanze dell’1 febbraio 2018, nn. 2480, 2481, 2482 e 2483:
- l’art. 2051 c.c. individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l'evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima;
- Le eventuali omissioni, violazioni di obblighi di legge, di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rilevano solo in caso di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, e quindi il rapporto causale tra quella e l'evento dannoso;
- il caso fortuito, che può consistere in un fatto naturale o del terzo, o nella stessa condotta del danneggiato, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; inoltre, le eventuali modifiche improvvise della struttura della cosa in custodia divengono, col trascorrere del tempo dall'accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere;
- la condotta del danneggiato si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell'art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost.;
- ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.
La Corte aggiunge poi che non è possibile parlare di prevedibilità dell’evento da parte del custode in quanto la responsabilità ex art. 2051 c.c. prescinde da qualsiasi connotato di colpa, collocandosi interamente sul piano oggettivo del rapporto causale tra cosa in custodia e danno.
In tale prospettiva, è possibile ammettere che, sebbene il caso fortuito possa essere integrato dal fatto colposo dello stesso danneggiato, è tuttavia necessario che risulti anche escluso - con onere probatorio a carico del custode - qualunque collegamento fra il modo di essere della cosa e l'evento dannoso, sì da individuarne la causa esclusiva nella condotta del danneggiato e da far recedere la condizione della cosa in custodia a mera occasione o "teatro" della vicenda produttiva di danno; a tal fine però non è la prevedibilità, da parte del custode, dell'uso anomalo della cosa che può assumere rilievo, bensì la circostanza che l'evento dannoso si sia verificato all'interno di una situazione di macroscopica insidiosità della cosa.
Circolazione stradale: per l’accertamento della colpa esclusiva è sufficiente che vi sia la prova del nesso causale tra l'evento dannoso e il comportamento del conducente
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 6941 del 11 marzo 2021
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema della responsabilità derivante dalla circolazione di veicoli ed in particolare dei criteri di accertamento della colpa in capo ai conducenti.
L'art. 2054, co. 2, c.c. stabilisce che nel caso di scontro tra veicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli.
La Suprema Corte rileva che tale presunzione di pari responsabilità, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, ha carattere sussidiario, operando, pertanto, vuoi quando non sia possibile stabilire il grado di colpa dei due conducenti, vuoi qualora non siano accertabili le cause e le modalità del sinistro.
La suddetta presunzione costituisce un principio "informatore" della materia dei danni da circolazione stradale; difatti la norma in esame, senza dettare regole in punto di incidenza del rischio della mancata prova di una circostanza rimasta incerta nel giudizio, stabilisce una presunzione che costituisce applicazione dei criteri generalissimi in materia di concorso di cause, criteri ai quali risulta conformata tutta la disciplina della responsabilità da fatto illecito (art. 41 c.p.).
Alla luce di ciò, la Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto: in caso di scontro tra veicoli, l'accertamento della colpa esclusiva di uno dei conducenti e della regolare condotta di guida dell'altro, idonea a liberare quest'ultimo dalla presunzione di concorrente responsabilità fissata in via sussidiaria dall'art. 2054, co. 2, c.c., nonché dall'onere di provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, può essere effettuato acquisendo tale prova liberatoria non necessariamente in modo diretto, ovvero attraverso la dimostrazione della conformità del suo contegno di guida alle regole della circolazione stradale o di comune prudenza, ma anche indirettamente, ovvero tramite il riscontro del collegamento eziologico esclusivo o assorbente dell'evento dannoso col comportamento dell'altro conducente.
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