Il terzo non può eccepire l’irritualità della chiamata in causa in quanto è carente di interesse
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 9132 del 1° aprile 2021
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla possibilità, da parte del terzo chiamato in via riconvenzionale, di sollevare eccezioni di rito relative alla sua chiamata in causa.
La Suprema Corte osserva innanzitutto che, in base al disposto dell'art. 269, co. 2, c.p.c., il convenuto che intenda chiamare in giudizio un terzo ha l'onere di inserire nella comparsa di risposta sia la formulazione della chiamata, che l'istanza di differimento della prima udienza, sicché incorre nella decadenza prevista dalla medesima disposizione anche quando provveda al primo di tali adempimenti, ma non al secondo [...]. Tuttavia, la decadenza così verificatasi dev'essere eccepita dalla parte attrice e rilevata d'ufficio dal giudice in detta udienza.
Inoltre, il rigore dell'art. 269 c.p.c. - nella parte in cui esso dispone che la chiamata in causa del terzo avvenga mediante citazione a comparire nella prima udienza o in altra udienza all'uopo disposta dal giudice - non può portare alla disapplicazione del precedente art. 268 c.p.c., il quale ammette l'intervento volontario del terzo finché la causa non sia rimessa dall'istruttore al collegio; difatti nulla vieta che il terzo, il quale sia stato chiamato in causa tardivamente, possa validamente accettare il contraddittorio, aderendo allo stato in cui la causa si trova, in tal caso la partecipazione del terzo alla lite, pur essendo stata provocata da una delle parti, deve considerarsi rituale sotto il profilo dell'intervento volontario.
Alla luce di ciò, il terzo, chiamato in causa su istanza di parte, non può eccepirne l'irritualità per mancata osservanza delle prescrizioni stabilite dall'art. 269, co. 2, c.p.c., essendo al riguardo carente di interesse, atteso che il suo interesse a far valere questioni relative al rapporto processuale originario è correlato esclusivamente alla correttezza della decisione in merito o in rito su di esso e non anche alla stessa ritualità della chiamata in giudizio.
I poteri officiosi del giudice in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza n. 11425 del 30 aprile 2021
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, chiarendo in quali casi il giudice è tenuto ad esercitare i propri poteri istruttori d’ufficio.
La Suprema Corte ribadisce l’orientamento per cui l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio in grado d'appello presuppone la ricorrenza di talune fondamentali circostanze: l'insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata; l'opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti; l'indispensabilità dell'iniziativa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa.
Secondo la Cassazione, l'esercizio dei poteri ufficiosi non può sopperire alle carenze probatorie delle parti, così da porre il giudice in funzione sostitutiva degli oneri delle parti medesime e da tradurre i poteri officiosi anzidetti in poteri d'indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale.
Responsabilità dell’avvocato: è sufficiente provare il contratto di mandato
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 8863 del 31 marzo 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema della prova del conferimento dell’incarico nel giudizio di responsabilità professionale dell’avvocato.
La Corte evidenzia come l’azione non sia volta a dimostrare la procura, atto soggetto a prova scritta, ma semplicemente la circostanza, di mero fatto, di aver dato un incarico al difensore e a tal proposito ricordano che mandato e procura sono atti distinti: mentre la procura "ad litem" costituisce un negozio unilaterale con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il mandato sostanziale costituisce un negozio bilaterale (cosiddetto contratto di patrocinio) con il quale il professionista viene incaricato, secondo lo schema negoziale che è proprio del mandato, di svolgere la sua opera professionale in favore della parte.
Secondo la Cassazione, la dimostrazione di un incarico (ossia del contratto d'opera) è sufficiente a far sorgere obbligo del difensore di fornire assistenza, dovendo costui poi provvedere a farsi rilasciare procura ad agire, con la conseguenza che il cliente è sufficiente che dimostri di aver dato incarico ad agire (contratto d'opera).
Ne consegue che, non essendoci bisogno di allegazione di prova scritta ad substantiam, per dimostrare il contratto d’opera non sussistono i limiti di prova testimoniale invece previsti per la procura.
Assicurazione sulla vita: l’indicazione degli “eredi legittimi” quali beneficiari non implica l’applicazione delle norme sulla comunione ereditaria
Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza n. 11421 del 30 aprile 2021
Con la sentenza in esame le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla suddivisione dell’indennizzo tra i beneficiari in caso di stipulazione di un’assicurazione sulla vita.
La Suprema Corte innanzitutto rileva che può dirsi ormai del tutto preponderante l'esegesi che ravvisa nell'atto di designazione del beneficiario dei vantaggi di un'assicurazione sulla vita [...] un negozio inter vivos con effetti post mortem. L'assicurazione a favore di terzo per il caso di morte è riconducibile alla categoria del contratto a favore di terzi ex art. 1411 c.c., con la particolarità che il beneficiario acquista il diritto ai vantaggi dell’assicurazione non per effetto della stipulazione del contratto, ma per effetto della designazione, che può farsi anche dopo il contratto, con apposita dichiarazione o per testamento. In ogni caso, la somma assicurata resta estranea al patrimonio del de cuius che cade in successione.
Le Sezioni Unite affermano che il termine "eredi" viene attribuito dalla designazione allo scopo precipuo di fornire all'assicuratore un criterio univoco di individuazione del creditore della prestazione, e perciò prescinde dall'effettiva vocazione; pertanto, la generica individuazione quali beneficiari degli "eredi” (legittimi e/o testamentari) ne comporta l'identificazione soggettiva con coloro che, al momento della morte dello stipulante, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione ereditaria prescelto dal medesimo contraente, indipendentemente dalla rinunzia o dall'accettazione della vocazione.
Inoltre, ove il contraente assicurato abbia designato specificamente come beneficiari i propri "eredi legittimi", la successiva istituzione di uno o più eredi testamentari non opera quale nuova designazione, né quale revoca del beneficio attribuito con la polizza, a meno che non risulti una inequivoca volontà in tal senso, operando su piani diversi l'intenzione di disporre mortis causa delle proprie sostanze e l'assegnazione a terzi del diritto contrattuale alla prestazione assicurativa.
Secondo la Suprema Corte, la natura inter vivos del credito attribuito per contratto agli "eredi" designati quali beneficiari dei vantaggi dell'assicurazione esclude l'operatività riguardo ad esso delle regole sulla comunione ereditaria, valevoli per i crediti del de cuius, come anche l'automatica ripartizione dell'indennizzo tra i coeredi in ragione delle rispettive quote di spettanza dei beni caduti in successione.
La qualifica di "erede" al momento della morte dello stipulante sovviene, così, al fine di sopperire per relationem, con valenza meramente soggettiva, alla generica determinazione del beneficiario, secondo quanto disposto dell'art. 1920 c.c., comma 2, ma non implica presuntivamente, in caso di pluralità di eredi, l'applicazione tra i concreditori delle regole di ripartizione dei crediti ereditari.
L'indennizzo, dunque, non va ripartito in ragione delle rispettive quote di spettanza dei beni caduti in successione: per questa ragione a ciascuno dei beneficiari dei vantaggi dell'assicurazione spetta, in forza della eadem causa obligandi, una quota uguale dell'indennizzo assicurativo.
In caso di assicurazione sulla vita l'indennità si cumula con il risarcimento e non vale il principio indennitario
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 9380 dell’8 aprile 2021
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione affronta il tema dell’applicazione del principio indennitario nel caso in cui vengano stipulate per lo stesso evento due polizze assicurative, di cui una per la responsabilità civile verso terzi ed una per il rischio morte.
La Suprema Corte innanzitutto ricorda quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 5119/2002, le quali hanno stabilito doversi distinguere, nell'ambito della medesima polizza, l'infortunio produttivo di "menomazione invalidante" della persona, da ricondursi allo schema della polizza assicurativa "contro i danni", da quello, invece, da cui è derivato l'"evento letale", da assoggettare alla disciplina tipica delle "polizze vita".
La Cassazione, nel caso di specie, non ravvisa ragioni per discostarsi dalle conclusioni raggiunte in ordine all'affermazione della irriducibilità della causa del contratto assicurativo per il rischio di 'infortunio mortale' alla funzione indennitaria che accomuna, invece, la causa delle altre polizze contro gli infortuni invalidanti a quella propria dei contratti assicurativi contro i danni.
Di conseguenza, la Suprema Corte ritiene che il decesso per infortunio dell'assicurato (padre), in sé considerato, è soltanto la conditio sine qua non della attribuzione patrimoniale a favore del "beneficiario" (figlio) il quale deve essere considerato, sempre e comunque, soggetto-terzo rispetto ai soggetti tenuti all'adempimento delle obbligazioni contrattuali, e non ha subito e non deve reintegrare alcun pregiudizio "a causa" della condotta dell'assicurato.
Inoltre, il vantaggio economico attribuito al beneficiario dell'assicurazione sulla vita per il caso di infortunio mortale non può essere […] considerato una utilità derivante dall'illecito e dunque non può incidere sulla esatta liquidazione del quantum risarcibile.
Alla luce di ciò, la Cassazione ha ribadito il principio secondo cui nel caso di assicurazione sulla vita, l'indennità si cumula con il risarcimento, perché si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall'assicurato sopportando l'onere dei premi, e l'indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolge una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante (Cass., Sez. Unite, sentenza n. 12564/2018).
In caso di infezione derivante da emotrasfusione è la struttura che deve dimostrare l’assenza di colpa
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 10592 del 22 aprile 2021
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema del risarcimento del danno in caso di infezione contratta presso una struttura sanitaria in conseguenza di una emotrasfusione.
Secondo la Cassazione, l'onere di allegazione dei fatti costitutivi della domanda, quando venga invocata la responsabilità contrattuale si esaurisce nella allegazione dell'esistenza del contratto e di una condotta inadempiente; è invece, per contro, onere della struttura sanitaria allegare e dimostrare, ai sensi dell'articolo 1218 c.c., di avere tenuto una condotta irreprensibile sul piano della diligenza. Dunque, il giudice deve in concreto accertare se la struttura sanitaria convenuta abbia o non abbia provato la "causa non imputabile" di cui all'articolo 1218 c.c., a nulla rilevando che l'attrice non avesse allegato che l'ospedale abbia provveduto alle trasfusioni approvvigionandosi di sangue tramite un proprio centro trasfusionale.
Alla luce di ciò, la Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: nella controversia tra il paziente che assuma di avere contratto un’infezione in conseguenza di una emotrasfusione, e la struttura sanitaria ove quest'ultima venne eseguita, non è onere del primo allegare e provare che l'ospedale abbia tenuto una condotta negligente o imprudente nella acquisizione e nella perfusione del plasma, ma è onere del secondo allegare e dimostrare di avere rispettato le norme giuridiche e le leges artis che presiedono alle suddette attività.
Danno terminale: la breve durata dello stato di lucida agonia non esclude il risarcimento
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 11719 del 5 maggio 2021
Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di risarcimento del danno terminale nei confronti dei congiunti della vittima di un sinistro stradale che sia rimasta in stato di lucida agonia per sette ore prima di decedere.
La Suprema Corte innanzitutto ribadisce il principio di unitarietà del danno non patrimoniale anche in riferimento al danno terminale, nel senso che questo tipo di danno non patrimoniale può essere ricondotto tanto all'aspetto biologico in senso stretto - nel settore psichico - quanto alla correlata sofferenza d'animo, giacché l'unica distinzione evincibile dagli orientamenti giurisprudenziali concerne la qualificazione, ai fini della liquidazione, del danno risarcibile, nel senso che un orientamento, con "mera sintesi descrittiva", lo indica come "danno biologico terminale", mentre un altro come "danno catastrofale", con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni.
Secondo la Cassazione, in caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale deve essere tenuto distinto da quello biologico terminale, in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l'ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall'apprezzabilità dell'intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l'integrità della sofferenza medesima; mentre il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità e intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell'integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo.
Per quanto riguarda la prova, ai fini della ricorrenza di tale voce di danno, che è pur sempre un danno conseguenza, è necessario provvedere alla dimostrazione dell'an, che presuppone la prova della "coerente e lucida percezione dell'ineluttabilità della propria fine" nello spatium temporis tra la lesione e la morte, dovendosi escludere che su di esso incida la breve durata della lucida consapevolezza dell'approssimarsi della propria morte.
Il risarcimento per la perdita della zia è dovuto anche in assenza di convivenza
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 8218 del 24 marzo 2021
Nell’ordinanza in oggetto la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale nei confronti dei nipoti per la perdita della zia, con particolare riferimento al requisito della convivenza ai fini della prova.
La Suprema Corte rileva che, se, da un lato, occorre certamente evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari, dall’altro non può tuttavia condividersi l’assunto che il dato esterno ed oggettivo della convivenza possa costituire elemento idoneo di discrimine e giustificare dunque l’aprioristica esclusione, nel caso di non sussistenza della convivenza, della possibilità di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.
I giudici di legittimità ribadiscono quanto era stato già precedentemente affermato dalla stessa Corte, ossia che il legame parentale tra zio e nipote è di per sé indipendentee dall’effettiva convivenza: la convivenza costituisce, piuttosto, una delle circostanze che possono giustificare “meccanismi presuntivi” utilizzabili al fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno attraverso il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale […] secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benché di più lontana configurazione formale […] si qualifichino per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o esistenziale.
Il supermercato non ha obblighi di custodia rispetto alle auto parcheggiate gratuitamente nella sua area di sosta
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 9883 del 15 aprile 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema della qualificazione del contratto avente ad oggetto il parcheggio gratuito di un’automobile all’interno dell’area di sosta di un ipermercato, al fine di stabilire se quest’ultimo possa ritenersi responsabile dell'incendio, provocato da ignoti, di un’automobile ivi parcheggiata.
La Suprema Corte rileva che, per la sussistenza dell'obbligo di custodia, non è affatto necessario l'affidamento del veicolo ad una persona fisica, poiché la consegna può realizzarsi attraverso l'immissione dello stesso nella predetta area, previo perfezionamento del contratto mediante l'introduzione di monete nell'apposito meccanismo, ben potendo l'obbligo di custodia prescindere dalla presenza di persone addette specificamente a ricevere quella consegna e ad effettuare la connessa sorveglianza, bastando in proposito diverse ed equipollenti modalità, quali l'adozione di sistemi automatizzati per la procedura di ingresso e di uscita dei veicoli dal parcheggio mediante schede magnetizzate.
Tuttavia, benché l’obbligo di custodia non sia escluso a priori, può dirsi ricorrente solo se risulti che l'utente abbia inteso ex professo assicurarsi la conservazione del bene: ad esempio, nel caso di parcheggio oneroso, prevedendo un corrispettivo più elevato. Ove, al contrario, non sia percepibile l'assunzione di responsabilità per la custodia del bene, non troverà applicazione la disciplina in materia di deposito, ma quella della locazione.
Il Comune è responsabile ex art. 2043 c.c. per i danni provocati al fondo confinante dalle acque provenienti dalla strada sovrastante
Cassazione civile, sezione II, ordinanza n. 8772 del 30 marzo 2021
Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia sulla responsabilità del Comune per i danni derivanti dallo scolo delle acque provenienti dalla strada in un fondo confinante che si trovi ad un livello inferiore.
La Suprema Corte ha sconfessato la decisione della Corte d’Appello di applicare l’art. 913 c.c., sul presupposto che la costruzione o ristrutturazione di una strada, che realizzi una esigenza di traffico, non avvantaggia, neanche in modo indiretto, la produttività di un dato fondo più di quanto giovi a tutti gli altri fondi con cui lungo il suo percorso essa confina, e non è, quindi, riconducibile alle superiori esigenze della produzione agraria che, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 913 c.c., possono eccezionalmente giustificare la modificazione del flusso naturale delle acque piovane, con corresponsione di una indennità al proprietario del fondo pregiudicato.
Dunque, in presenza di opere destinate ad assolvere ad esigenze generali, quali la regolazione del traffico, tale norma non è applicabile, ma occorre fare riferimento al generale principio del neminem laedere, con conseguente applicazione del canone generale della responsabilità da fatto illecito, e dunque dell'art. 2043 c.c., sia con riferimento alla costruzione, che alla manutenzione e custodia, delle predette opere. Il divieto del "neminem laedere" implica l'obbligo di adottare, nella costruzione delle strade pubbliche, gli accorgimenti e i ripari necessari per evitare che, dalla strada, le acque che nella medesima si raccolgono o che sulla stessa sono convogliate, legalmente o illegalmente, senza opposizione del Comune proprietario, possano defluire in modo anomalo nei fondi confinanti, così impedendo di arrecare loro un danno ingiusto.
Di conseguenza, il danneggiato non è tenuto a dimostrare, oltre all'esistenza del danno ed alla sua derivazione causale dallo scolo delle acque provenienti dalla superiore strada comunale, anche l'esecuzione, da parte del Comune, di opere atte a modificare lo stato dei luoghi, poiché la responsabilità dell'ente locale non deriva dalla condizione di superiorità della strada, bensì dall'inadempimento - ove in concreto accertato - dell'obbligo generale di manutenzione dei beni pubblici o destinati ad uso pubblico.
Danni da collisione con animali selvatici: il danneggiato deve provare la condotta colposa dell'ente gestore della strada
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 8206 del 24 marzo 2021
Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di responsabilità degli enti gestori della strada, in un caso avente ad oggetto la richiesta di risarcimento da parte di un automobilista per i danni riportati a causa della collisione con un capriolo.
La Cassazione innanzitutto rileva che, in un caso di questo tipo, la responsabilità ex art. 2043 c.c. dell’ente gestore va rigorosamente provata, quanto al rapporto di causalità, da chi deduce di essere stato danneggiato a causa della omessa apposizione di segnali di pericolo o di altri presidi a tutela della sicurezza dei veicoli circolanti su strada.
I giudici di legittimità ricordano che spetta al danneggiato provare la condotta colposa causalmente efficiente dell'ente pubblico. In particolare, il dovere della P.A. di predisporre dispositivi specifici per avvisare dei rischi o scoraggiare l'attraversamento degli animali può trovare fondamento solo in norme particolari poste a tutela di chi si trovi ad attraversare un certo territorio in una situazione di concreto pericolo, da valutare "ex ante", quale è, con riguardo all'utilizzo della rete viaria, l'art. 84, comma 2, reg. es. c.d.s., che impone, a fini generali-preventivi e sulla base di un principio di precauzione, l'installazione di segnali “quando esiste una reale situazione di pericolo sulla strada, non percepibile con tempestività da un conducente che osservi le normali regole di prudenza”.
Di conseguenza, quand'anche il territorio fosse abitualmente popolato da animali selvatici, non possono essere pretese, da parte dell'ente proprietario della strada, la recinzione generalizzata di tutti i perimetri boschivi, l'apposizione di cartelli in ogni tratto di strada o l'illuminazione continua su strada extraurbana, indipendentemente da peculiarità concrete della vicenda esaminata, dovendo piuttosto provarsi che il luogo del sinistro fosse all'epoca abitualmente frequentato da animali selvatici ovvero fosse stato teatro di precedenti incidenti per la presenza di un numero eccessivo di esemplari, tale da costituire un vero e proprio pericolo per quel tratto di strada, anche se il pericolo fosse stato, in ipotesi, adeguatamente segnalato in zona limitrofa.
Colpa omissiva dell’infermiere: nel giudizio controfattuale bisogna valutare tutte le variabili unitariamente
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 11651 del 29 marzo 2021
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema della valutazione del nesso di causalità attraverso il giudizio controfattuale nei casi di colpa omissiva.
Nel caso di specie, all’imputato, quale infermiere di turno del servizio sanitario di urgenza ed emergenza del 118, era stato contestato il reato di omicidio colposo per aver omesso di condurre un’adeguata indagine sui sintomi di un paziente che aveva richiesto telefonicamente l’intervento e, di conseguenza, per aver omesso di attivare tempestivamente l’ambulanza, facendo derivare causalmente la morte del paziente per arresto cardiaco a seguito di infarto.
I giudici di merito avevano ritenuto sussistente il nesso causale tra l’omissione e la morte del paziente, perciò l’imputato aveva proposto ricorso in Cassazione.
La Suprema Corte accoglie il ricorso, rilevando che il giudice territoriale ha poggiato il ragionamento controfattuale all'interno di un doppio binario causale, operando una prima ricostruzione sulla possibile evoluzione della patologia cardiaca occorsa al paziente, e poi esaminando le potenzialità salvifiche, a fronte dell'attacco cardiaco ischemico, di un intervento tempestivo dell'equipaggio sanitario sollecitato dall'operatore del 118 ed ha riconosciuto che, qualora l'intervento del primo soccorso munito di defibrillatore e assistenza di medico al seguito fosse stato più tempestivo, la fase acuta dell'insulto ischemico avrebbe potuto essere trattata con successo.
Secondo la Cassazione, la Corte d’Appello ha errato nel ritenere che, a fronte di una notevole probabilità scientifica, si trattasse di patologia ischemica suscettibile di essere trattata nella sua fase acuta prima che evolvesse in una condizione irreversibile, in quanto con tale inferenza il giudice distrettuale ha omesso di confrontarsi con l'altro corno del problema causale, quello della potenzialità salvifica dell'intervento tempestivo, laddove egli ha affrontato e, nella prospettiva considerata, risolto soltanto uno degli aspetti controversi della serie causale, quello afferente alla ricorrenza di una patologia emendabile. Invero l'altro aspetto controverso del problema, relativo alla rilevanza causale di un tempestivo intervento sanitario con defibrillatore, imponeva una autonoma ponderazione sulla sussistenza di un ulteriore anello della serie causale, la cui esplicitazione in termini di logicità e credibilità razionale avrebbe imposto un rinnovato sforzo motivazionale.
Dunque, il ragionamento controfattuale avrebbe dovuto essere unitario e condotto mediante l'indicazione dei singoli passaggi che giustificavano, in termini di alta probabilità logica, il superamento degli ostacoli, la cui interferenza non poteva che essere sommata al razionale svolgersi della catena causale attivata dalla condotta omissiva dell'imputato, giudizio che al contempo avrebbe dovuto escludere rilievo a eventuali fattori causali alternativi e concorrenti.
La particolare tenuità del fatto nella guida in stato di ebbrezza
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 11655 del 29 marzo 2021
Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in merito all’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p., con riferimento al reato di guida in stato di ebbrezza di cui all’art. 186, lett. c) del Codice della strada.
La Corte ricorda che le Sezioni Unite (Cass., SS.UU., 25 febbraio 2016, n. 13681) hanno stabilito che la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis c.p., in quanto applicabile - in presenza dei presupposti e nel rispetto dei limiti fissati dalla norma - in relazione ad ogni fattispecie criminosa, è configurabile anche in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza, non essendo, in astratto, incompatibile, con il giudizio di particolare tenuità, la presenza di soglie di punibilità all'interno della fattispecie tipica, rapportate ai valori di tassi alcolemici accertati.
I giudici di legittimità osservano che, ai sensi dell’art. 131 bis c.p., il fatto particolarmente tenue va individuato alla stregua di caratteri riconducibili a tre categorie di indicatori: le modalità della condotta, l'esiguità del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza e che il giudizio sulla tenuità del fatto richiede […] una valutazione complessa che ha ad oggetto le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo valutate ai sensi dell'art. 133 c.p., comma 1.
Per quanto riguarda l’abitualità della condotta, le Sezioni Unite sopra richiamate hanno ritenuto fuorviante riferirsi esclusivamente alle categorie tradizionali, come quelle della condanna e della recidiva, ricordando che, mentre alcune indicazioni della nuova normativa sono chiare - il riferimento ad istituti codicistici: delinquente abituale, professionale, per tendenza -, così come non oscuro è il riferimento alla commissione di "più reati della stessa indole", il tenore letterale lascia intendere che l'abitualità si concretizzi in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole (dunque almeno due) diversi da quello oggetto del procedimento nel quale si pone la questione dell'applicabilità dell'art. 131-bis c.p..
Inoltre, i reati possono anche essere successivi a quello in esame, perché si verte in un ambito diverso da quello della disciplina legale della recidiva. La pluralità dei reati può concretarsi non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l'esistenza; come ad esempio nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui.
Il padrone risponde delle lesioni personali cagionate a terzi dal cane che scappa in mezzo alla strada
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 14189 del 15 aprile 2021
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema della configurabilità del reato di lesioni personali colpose a carico del padrone di un cane che, lasciato libero, provochi, anche accidentalmente, danni a terzi.
La Suprema Corte ha confermato la condanna dell’imputato, ricordando innanzitutto che in materia di lesioni colpose […] la posizione di garanzia assunta dal detentore di un cane impone l'obbligo di controllare e di custodire l'animale adottando ogni cautela per evitare e prevenire le possibili aggressioni a terzi anche all'interno dell'abitazione, laddove la pericolosità del genere animale non e` limitata esclusivamente ad animali feroci ma può sussistere anche in relazione ad animali domestici o di compagnia quali il cane, di regola mansueto cosi` da obbligare il proprietario ad adottare tutte le cautele necessarie a prevenire le prevedibili reazioni dell'animale.
Secondo la Cassazione, inoltre, l'insorgere della posizione di garanzia relativa alla custodia di un animale prescinde dalla nozione di appartenenza, di talché risulta irrilevante il dato della registrazione del cane all'anagrafe canina ovvero della apposizione di un micro chip di identificazione, atteso che l'obbligo di custodia sorge ogni qualvolta sussista una relazione anche di semplice detenzione tra l'animale e una data persona, in quanto l'art. 672, c.p. collega il dovere di non lasciare libero l'animale o di custodirlo con le debite cautele al suo possesso, da intendere come detenzione anche solo materiale e di fatto, non essendo necessario un rapporto di proprietà in senso civilistico.
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- Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 11651 del 29 marzo 2021.pdf
- Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 11655 del 29 marzo 2021.pdf
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