La consulenza tecnica di parte costituisce una semplice allegazione difensiva e può essere prodotta anche in appello
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 14469 del 26 maggio 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla natura della consulenza tecnica di parte e al suo valore all’interno del processo civile.
Ne caso di specie, l’attore, soccombente in primo grado, nel proporre appello aveva prodotto una consulenza tecnica di parte, redatta successivamente alla conclusione del giudizio di primo grado che la Corte d’appello aveva dichiarato tardiva ed inammissibile, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., co. 3.
Secondo la Suprema Corte, occorre correggere la motivazione della Corte d'appello dove ha ritenuto tardiva la produzione della consulenza tecnica di parte dell'appellante sul presupposto che fosse un documento prodotto tardivamente. Infatti, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la consulenza tecnica di parte costituisce una semplice allegazione difensiva, priva di autonomo valore probatorio, la cui produzione, regolata dalle norme che disciplinano tali atti e perciò sottratta al divieto di cui all’art. 345 c.p.c., deve ritenersi consentita anche in appello. Dunque, la natura tecnica del documento […] non vale ad alterarne la natura che resta quella di atto difensivo.
La proroga del termine che cade di sabato al primo giorno successivo non festivo si applica solo alle attività processuali
Tribunale di Bari, sentenza 8 giugno 2021, n. 2207
Con la sentenza in esame il Tribunale di Bari si esprime in merito alla proroga dei termini al primo giorno successivo non festivo nel caso in cui il termine cada di sabato.
Il caso di specie aveva ad oggetto un’opposizione a decreto ingiuntivo notificata dall’opponente il lunedì successivo alla scadenza dei 40 giorni dalla notifica dell’ingiunzione, che cadeva il sabato precedente, sul presupposto che alla notifica andava applicata la proroga prevista dall’art. 155, comma 4 c.p.c..
Secondo il giudice barese, la previsione di cui all’art. 155 comma 5 c.p.c., che stabilisce la proroga al giorno successivo non festivo degli atti compiuti fuori udienza nella giornata di sabato, non comprende anche tutte le attività giudiziarie che possono svolgersi il sabato, in quanto il campo di applicazione del citato quinto comma deve riferirsi solo alle attività processuali.
Pertanto, prosegue il Tribunale, devono ritenersi escluse tutte le attività di notifica e tutte le altre attività giudiziarie, che possono svolgersi regolarmente nella giornata di sabato, che ai sensi del successivo comma dello stesso articolo 155 c.p.c. deve considerarsi giornata lavorativa a tutti gli effetti. Gli uffici giudiziari, le cancellerie e gli ufficiali giudiziari assicurano la loro piena disponibilità ad accettare atti depositati nella giornata di sabato, che, pertanto, è giornata utile al compimento di tutte le attività ad eccezione delle attività processuali.
Sulla scorta di queste considerazioni il Tribunale dichiara dunque che deve reputarsi intempestiva l’opposizione a decreto ingiuntivo con scadenza al sabato, se portata alla notifica il primo giorno lavorativo successivo.
Anche nel procedimento di istruzione preventiva l’avvocato ha diritto al compenso per la fase istruttoria
Cassazione civile, sezione II, ordinanza n. 11189 del 28 aprile 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito al diritto al compenso dell’avvocato per la fase istruttoria nel procedimento di istruzione preventiva.
Secondo la Corte se è ben vero che il procedimento di istruzione preventiva risulta ontologicamente diretto all'assunzione di un mezzo istruttorio da potersi utilizzare nell'eventuale successiva causa di merito, tuttavia l'attività di "studio della controversia" e di "introduzione della controversia" non già è finalizzata esclusivamente all'individuazione del mezzo istruttorio da espletare, bensì anche del fatto della vita, cui il mezzo istruttorio da assumere appare correlato.
Dunque esiste autonomia della "fase istruttoria" posto che, come in sede di giudizio di merito in relazione all'espletamento di consulenza tecnica, anche in ipotesi d'espletamento di consulenza tecnica preventiva, il difensore svolge attività diverse da quelle proprie delle due fasi antecedenti […] in quanto sono correlate all'andamento e delle indagini peritali ed alle conclusioni, cui il tecnico perviene, elementi oggettivamente non conoscibili in momento antecedente.
La Suprema Corte rileva, inoltre, che lo stesso D.M. 55/2014 prevede la voce tariffaria "fase istruttoria” in relazione al procedimento di istruzione preventiva; secondo i giudici di legittimità, anche nel vigore della tariffa forense ex D.M. 140/2012 è da riconoscere il diritto al compenso per la fase istruttoria nel procedimento di istruzione preventiva e, a tal fine, assume rilievo l'accertamento se il difensore ebbe ad espletare in concreto una qualche attività difensiva di interazione con l'opera del consulente tecnico ai fini dell'espletamento del suo incarico.
La confessione del conducente non proprietario non fa piena prova nei confronti dell’assicuratore
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 13718 del 19 maggio 2021
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito al valore probatorio delle dichiarazioni confessorie del conducente dell’autovettura nei confronti del proprietario della stessa e della compagnia di assicurazione.
La Suprema Corte rileva che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di risarcimento del danno derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, la confessione proveniente da un soggetto litisconsorte facoltativo, qual è il conducente danneggiante non proprietario del veicolo, rispetto all'assicuratore ed al proprietario dello stesso, è liberamente apprezzabile dal giudice nei riguardi di costoro in applicazione dell'art. 2733, terzo comma, c.c., mentre ha valore di piena prova nei confronti del medesimo confidente, come previsto dall'art. 2733, secondo comma, c.c.
RC auto: la domanda è improcedibile solo se la richiesta di risarcimento non è idonea a consentire la formulazione di un’offerta risarcitoria
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 15445 del 3 giugno 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito al contenuto della richiesta stragiudiziale di risarcimento che il danneggiato è tenuto a formulare alla compagnia di assicurazione ai sensi degli artt. 145 e 148 del Codice delle assicurazioni, a pena di improponibilità della domanda.
La Suprema Corte ribadisce l’orientamento della giurisprudenza di legittimità per cui l'atto di costituzione in mora, anche ove non contenga tutti gli elementi previsti [...], purché le omissioni non pregiudichino per l'interlocutore la possibilità di avere contezza dei termini del contendere, deve ritenersi abbia raggiunto il suo scopo che è quello di consentire una completa discovery dei dati utili alla valutazione della responsabilità.
Secondo la Cassazione, la richiesta stragiudiziale di risarcimento del danno, di cui all'art. 145 cod. ass., in tanto può dirsi inidonea a rendere proponibile la domanda di risarcimento, in quanto sia priva dei requisiti minimi per il conseguimento dello scopo, ovvero abbia contenuti tali da non permettere all'assicurazione di fare il proprio lavoro (accertare le responsabilità, stimare il danno, formulare l'offerta). Se l’omissione non è ostativa alla liquidazione del danno né reca pregiudizio alcuno all'assicuratore, ciò non impedisce la formulazione dell'offerta e non rende improponibile la successiva domanda giudiziale.
Secondo i giudici di legittimità, il combinato disposto degli artt. 145 e 148 cod. ass., [...] va interpretato alla luce del principio della validità degli atti comunque idonei al raggiungimento dello scopo, e per quanto detto è sempre idonea al raggiungimento dello scopo la richiesta stragiudiziale di risarcimento quando sia priva di elementi che, pur espressamente richiesti dalla legge, siano nel caso concreto superflui al fine di accertare le responsabilità e stimare il danno.
In conclusione, avendo la denuncia realizzato l'obiettivo funzionale attribuitole dal legislatore, consistente nella propiziazione di una conciliazione precontenziosa, è improcedibile la domanda solo ove la richiesta risulti, per fatto imputabile a comportamento scorretto del danneggiato, priva degli elementi necessari per pervenire alla formulazione di una offerta risarcitoria da parte dell'assicuratore.
Circolazione di veicoli: la presunzione di pari responsabilità ha natura residuale
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 12884 del 13 maggio 2021
Nella sentenza in oggetto la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla presunzione di eguale concorso di colpa contemplata dall’art. 2054, co. 2 c.c. nell'ambito della responsabilità da circolazione di veicoli.
Nel caso in esame, i giudici di merito avevano escluso che la colpa del conducente dell’auto fosse esclusiva per l'impossibilità di affermare la carenza di colpa della conducente della bicicletta, la quale non poteva comunque esimersi dal fornire la prova dell'essersi uniformata alle norme sulla circolazione e a quelle di comune prudenza e dal dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare l'incidente.
La Suprema Corte ha invece affermato che la presunzione di eguale concorso di colpa stabilita dall'art. 2054, co. 2, c.c. non impone di considerare uguale l'apporto causale colposo di ciascuno dei conducenti dei mezzi coinvolti in uno scontro solo perché non sia stato provato che uno dei due abbia fatto tutto il possibile per evitare il danno, ma consente, invece, che la colpa presunta di uno dei due possa concorrere con quella accertata dall'altro anche con apporto percentuale diverso da quello paritetico. La norma ha, piuttosto, funzione sussidiaria, operando soltanto nel caso in cui le risultanze probatorie non consentano di accertare in modo concreto in quale misura la condotta dei due conducenti abbia cagionato l'evento dannoso e di attribuire le effettive responsabilità del sinistro.
Secondo i giudici di legittimità, l’accertamento della colpa nella condotta, purché potenzialmente idonea a determinare l'evento, di uno dei conducenti nella causazione di uno scontro tra veicoli libera l'altro conducente dalla presunzione – che mantiene un carattere residuale – della sua concorrente responsabilità di cui all'art. 2054, comma 2, c.c. nonché dall'onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Dunque, la prova liberatoria per il superamento di detta presunzione di colpa non deve necessariamente essere fornita in modo diretto – e cioè dimostrando di non aver arrecato apporto causale alla produzione dell'incidente – ma può anche indirettamente risultare tramite l'accertamento del collegamento eziologico esclusivo dell'evento dannoso con il comportamento dell'altro conducente.
In ogni caso, la certezza delle condotte di entrambi i conducenti non esime il giudice dalla ricostruzione effettiva del concreto apporto causale di ognuna nella determinazione dell'evento, rendendo non corretta l'applicazione della presunzione, che deve mantenere un carattere residuale e cioè limitato all'ipotesi della concreta impossibilità della determinazione dell'incidenza causale delle condotte di tutti i conducenti.
Non sempre circolare in prossimità del margine sinistro della corsia è causa di responsabilità
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 16192 del 9 giugno 2021
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al nesso causale che può sussistere tra la violazione della regola cautelare che impone al conducente di circolare in prossimità del margine destro della carreggiata e la collisione con un veicolo che, proveniente dalla direzione opposta, improvvisamente occupi la corsia.
Con riferimento all’art. 143 del Codice della strada, la Suprema Corte ha ribadito che l'infrazione di una norma sulla circolazione stradale, pur potendo importare responsabilità ad altro titolo, non può di per sé dar luogo a responsabilità civile per un evento dannoso che non sia con essa in rapporto di causa ed effetto; infatti, l'individuazione della regola cautelare, anche nel caso di cautela specifica, non può prescindere dalla considerazione che la colpa non rappresenta la violazione di una qualsivoglia regola di prudenza o diligenza, ma solo della regola cautelare il cui scopo è quello di evitare il tipo di evento in concreto verificatosi.
Già la Cassazione penale aveva osservato che l'obbligo di circolare sulla parte destra della carreggiata e in prossimità del margine destro della medesima, anche quando la strada è libera, previsto dall'art. 143 cod. strada, ha la finalità di garantire un'andatura corretta e regolare nell'ambito della propria corsia di marcia per la tutela del veicolo procedente e degli altri che la percorrono, e non di evitare il rischio dell'improvvisa occupazione della corsia da parte di un veicolo proveniente dalla direzione opposta.
Il giudice, dunque, non dovrebbe inferire la misura del contributo del conducente del veicolo nella causazione del sinistro dal solo "posizionamento" del veicolo in prossimità della linea di mezzeria, ma deve accertare se costui, effettivamente, abbia mancato di effettuare (e per quali ragioni) eventuali manovre di emergenza per evitare collisioni con veicoli marcianti nel senso opposto.
In altri termini, non basta la riscontrata violazione degli artt. 141 e 143 cod. strada, potendo esservi delle ipotesi in cui l'inosservanza di una norma cautelare non comporti alcuna colpa ascrivibile all'agente in termini di responsabilità aquiliana, atteso che la qualificabilità del comportamento contrario a una norma cautelare in termini di colpa, rispetto a uno specifico evento, richiede in ogni caso il concreto riscontro di un nesso di causalità tra l'inosservanza della regola cautelare e lo specifico evento dannoso oggetto d'esame.
La nomina di un nipote quale erede universale può far presumere l’assenza di un vincolo affettivo con gli altri nipoti
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 10583 del 22 aprile 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di danno da perdita del rapporto parentale, con particolare riferimento agli elementi indiziari idonei a fondare il convincimento del giudice circa la sussistenza di un vincolo affettivo tra la vittima ed i congiunti.
Nel caso di specie, gli attori avevano chiesto il risarcimento del danno patito sia iure proprio sia iure hereditatis per la perdita della zia, rimasta vittima in un incidente stradale. Dopo l’incidente, era deceduto altresì uno dei nipoti, segnatamente quello che la vittima aveva nominato erede universale. Ai nipoti ancora in vita, i giudici di merito avevano riconosciuto il diritto al risarcimento del danno iure hereditatis - quali eredi legittimi del proprio fratello - ma negato il risarcimento iure proprio, in quanto la nomina di un solo nipote quale erede universale non aveva indotto a ritenere l'esistenza di un legame affettivo con gli altri nipoti tale da radicare il diritto al risarcimento del danno.
Secondo la Suprema Corte, l'istituzione ad erede universale ben può assurgere a circostanza indiziaria atta a rafforzare il convincimento che vi fosse prova della ricorrenza di un legame solo tra [il nipote nominato erede] e la zia vittima dell'incidente e non anche tra quest'ultima e gli altri nipoti non menzionati nel testamento.
Per questo motivo, se i nipoti non hanno provveduto ad allegare circostanze tali da dimostrare, nemmeno a livello presuntivo, l'esistenza di un particolare vincolo affettivo con la vittima, non è possibile riconoscere in capo ad essi il diritto al risarcimento del danno iure proprio per la perdita della zia.
La responsabilità della casa farmaceutica in caso di sperimentazione di medicinali presso la struttura sanitaria
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 10348 del 20 aprile 2021
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla responsabilità della casa farmaceutica per i danni subiti dai pazienti a seguito della somministrazione di medicinali nell’ambito di una sperimentazione clinica condotta presso una struttura sanitaria tramite i propri medici.
La Suprema Corte innanzitutto esclude la possibilità di fondare la responsabilità contrattuale della casa farmaceutica su un contatto sociale qualora il paziente abbia avuto contatti esclusivamente con la struttura sanitaria, in quanto tale opzione presupporrebbe l'accertamento di un rapporto diretto fra due soggetti (il "contatto", per l'appunto) che valga a far sorgere obblighi di condotta assimilabili a quelli derivanti dal contratto e che comporti una successiva valutazione in termini contrattuali dell'eventuale responsabilità conseguente alla prestazione svolta.
Prosegue la Corte enunciando che l'affermazione di una responsabilità (non "da contatto", ma propriamente) contrattuale può [...] conseguire soltanto all'accertamento dell'assunzione, da parte della [casa farmaceutica], di un'obbligazione nei confronti [del paziente] a seguito del suo reclutamento nel programma sperimentale; e ciò sia direttamente che indirettamente e, in questo secondo caso, a condizione che tale reclutamento risulti riferibile (oltreché alla struttura ospedaliera) anche alla casa farmaceutica.
Non è possibile presumere un rapporto di ausiliarietà fra medici sperimentatori e casa farmaceutica per il solo fatto che quest’ultima sia stata promotrice della sperimentazione, dovendosi accertare in concreto […] se vi sia stata partecipazione - anche mediata - della casa farmaceutica al reclutamento e alla gestione dei pazienti sottoposti alla cura sperimentale, tale da consentire di qualificare la struttura ospedaliera e i medici "sperimentatori" come ausiliari della prima.
In conclusione, la casa farmaceutica che abbia promosso, mediante la fornitura di un farmaco, una sperimentazione clinica - eseguita da una struttura sanitaria a mezzo dei propri medici - può essere chiamata a rispondere a titolo contrattuale dei danni sofferti dai soggetti cui sia stato somministrato il farmaco, a causa di un errore dei medici "sperimentatori", soltanto ove risulti, sulla base della concreta conformazione dell'accordo di sperimentazione, che la struttura ospedaliera e i suoi dipendenti abbiano agito quali ausiliari della casa farmaceutica, sì che la stessa debba rispondere del loro inadempimento (o inesatto adempimento) ai sensi dell'art. 1228 c.c.; in difetto, a carico della casa farmaceutica risulta predicabile soltanto una responsabilità extracontrattuale (ai sensi dell'artt. 2050 c.c. o, eventualmente, dell'art. 2043 c.c.), da accertarsi secondo le regole proprie della stessa.
Omessa informazione da parte del medico: il paziente deve dimostrare che, se fosse stato correttamente informato, avrebbe rifiutato l’intervento
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 12593 del 12 maggio 2021
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di danno da omessa informazione da parte del medico nei confronti del paziente.
La Suprema Corte innanzitutto ricorda che la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all'intervento e di subirne le conseguenze invalidanti, nonché un danno da lesione dell'autodeterminazione in sé stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale (ed, in quest'ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute.
Secondo i giudici di legittimità, con specifico riferimento all'ipotesi di intervento eseguito correttamente, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un'adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, se compiutamente informato, avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento.
In conclusione, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., 23 marzo 2018, n. 7248), per il paziente è necessario allegare (e dimostrare) che, se correttamente informato, avrebbe scelto di non sottoporsi all'intervento, e ciò è necessario presupposto per il risarcimento del danno alla salute, indipendentemente dal fatto che la condotta medica sia stata colposa o meno.
Responsabilità da cose in custodia: il condominio risponde dei danni originati dalle parti comuni dell'edificio
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 13595 del 19 maggio 2021
Nell'ordinanza in esame la Corte di Cassazione affronta il tema della responsabilità da cose in custodia del condominio, in un caso di decesso di un minore avvenuto nella piscina condominiale.
La Suprema Corte innanzitutto osserva che custodi sono tutti i soggetti - pubblici o privati - che hanno il possesso o la detenzione della cosa, in ragione della relativa disponibilità ed effettiva possibilità di controllo, cui fanno riscontro corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e diligenza, in base ai quali sono tenuti ad adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto.
Ciò premesso, secondo i giudici di legittimità, la responsabilità da custodia è configurabile pure in capo al Condominio, obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, e pertanto responsabile dei danni originati da parti comuni dell'edificio e dagli accessori e pertinenze, ivi ricompresa (anche) la piscina condominiale.
Infatti, il Condominio, quale centro di imputazioni giuridiche destinatario di disposizioni normative attribuenti al medesimo la titolarità in via autonoma di specifiche posizioni giuridiche [...] è invero senz'altro un autonomo soggetto di diritto, distinto dagli associati. Che si qualifichi o meno persona giuridica, il Condominio ha un proprio patrimonio - costituito dal fondo comune - e una propria capacità sostanziale (negoziale ed extranegoziale) e processuale. In ragione di ciò, ricorrendone le condizioni di legge il Condominio risponde autonomamente (anche) quale custode ex art. 2051 c.c.
Di conseguenza, l'amministratore di Condominio, titolare [...] di un ufficio di diritto privato, esercita poteri direttamente conferitigli sia dalla legge che dal mandato collettivo dei condomini e ha il compito di provvedere non solo alla gestione e al controllo delle cose comuni ma anche alla relativa custodia, col conseguente obbligo di vigilare affinché le stesse non rechino danni a terzi o agli stessi condomini.
Il danneggiato dal reato può richiedere il risarcimento anche se non riveste il ruolo di “persona offesa”
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 14453 del 26 maggio 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla risarcibilità del danno non patrimoniale nei confronti di un soggetto che, pur non rivestendo il ruolo di “persona offesa” dal reato, abbia comunque patito un danno a causa dello stesso.
Nel caso di specie veniva proposta, nei confronti di una guardia medica, domanda di risarcimento del danno morale sofferto da un paziente a causa del rifiuto opposto dalla stessa a fronte della richiesta di una visita domiciliare, nonostante i riferiti sintomi di un malore che, successivamente, al pronto soccorso, risultò essere un infarto al miocardio, risoltosi fortunatamente bene.
La Corte d’appello aveva rigettato la domanda, sostenendo, in primo luogo, che il fatto-reato (nella specie, rifiuto di atti d’ufficio ex art. 328 c.p.) non avesse leso l'integrità psicofisica del paziente e quindi non fosse idoneo a costituire fatto illecito in senso civilistico; in secondo luogo, che il malato non fosse, tecnicamente, “persona offesa” dal reato.
La Suprema Corte disattende tale ricostruzione. Per quanto riguarda il primo argomento, si rileva che la risarcibilità del danno non patrimoniale sussiste in quanto il fatto illecito commesso nei confronti del danneggiato è astrattamente configurabile come reato e lede un interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale.
Per quanto riguarda il secondo argomento, secondo la Cassazione, la persona offesa dal reato dev’essere tenuta distinta dal soggetto danneggiato dallo stesso: la persona offesa è esclusivamente il soggetto titolare del bene giuridico protetto (o dell'interesse tutelato) che, nell’ipotesi di cui all'art. 328 c.p., è esclusivamente il buon andamento della pubblica amministrazione e, segnatamente, il suo regolare funzionamento nella fase di realizzazione dei suoi compiti istituzionali, per cui la persona offesa è esclusivamente la P.A. Il soggetto danneggiato dal reato è, invece, ogni soggetto che dal reato nel caso concreto abbia subito un danno. Ne consegue che l'individuazione della persona offesa non esaurisce l'individuazione di ogni possibile danneggiato civile dal reato, dovendo quest'ultimo essere accertato con riferimento al caso concreto.
In conclusione, il fatto che non sia persona offesa non esclude comunque che colui che è stato danneggiato dal reato possa richiedere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali.
Al medico obiettore che si rifiuta di eseguire l’ecografia successiva all’aborto è ascrivibile il reato di rifiuto di atti d’ufficio
Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 18901 del 13 maggio 2021
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in merito alla possibilità per il medico di appellarsi all’obiezione di coscienza in relazione ad atti del proprio ufficio non strettamente collegati all’interruzione della gravidanza.
Nel caso di specie, la Corte d’appello aveva confermato la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 328 c.p., co. 1 (rifiuto di atti d’ufficio) nei confronti di un ginecologo di un ospedale pubblico, per essersi rifiutato, esercitando il diritto di obiezione di coscienza, di eseguire un’ecografia di controllo preliminare alla dimissione di due pazienti che avevano ultimato la procedura di interruzione volontaria di gravidanza.
La Suprema Corte osserva che l’art. 9 della L. n. 194 del 1978 esonera il medico obiettore dal partecipare alla procedura di interruzione della gravidanza solo in relazione alle attività "specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza" e non anche per quelle di assistenza ovvero per quelle strumentali, come nel caso di specie, non a determinare l'interruzione della gravidanza ma a verificare se l'interruzione vi sia stata ed ad accertare che non vi siano rischi per le condizioni cliniche e di salute della donna. Il medico può solo rifiutarsi di causare l'aborto, chirurgicamente o farmacologicamente, ma non anche di prestare assistenza.
Dunque, il diritto di obiezione non esonera il medico dall'intervenire durante l'intero procedimento di interruzione volontaria della gravidanza, in quanto si tratta di interpretazione che obiettivamente non trova conferma nel dato normativo.
I giudici di legittimità sostengono che la doverosa assistenza successiva alla somministrazione dei farmaci è certamente parte del procedimento di interruzione della gravidanza, ma non è finalizzata alla interruzione di questa e prescinde del tutto dalla presenza di una situazione di pericolo per la vita della paziente. Infatti, nell'aborto indotto per via farmacologica, la fase rispetto alla quale opera l'esonero da obiezione di coscienza è limitata alle sole pratiche di predisposizione e somministrazione dei farmaci abortivi, coincidenti con quelle procedure e attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione, mentre per il resto il medico ha l'obbligo di assicurare le cure.
La sopravvenienza di fattori esterni non esclude la responsabilità colposa del personale sanitario titolare di una posizione di garanzia
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 16132 del 28 aprile 2021
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema dell’incidenza di fattori sopravvenuti e indipendenti dalla volontà del reo, qualora questi sia titolare di una posizione di garanzia.
Nel caso di specie, i giudici di merito avevano condannato un’infermiera ed un’operatrice socio sanitaria, dipendenti di una RSA, per non essersi avvedute delle ingravescenti condizioni di salute di una paziente ospite della struttura e per aver omesso le dovute informazioni al medico o ai responsabili, cagionandole lesioni personali gravi.
Le due imputate avevano proposto ricorso in Cassazione sostenendo che i giudici avrebbero dovuto tener conto della ridotta presenza di personale rispetto al numero eccessivo e fuori regola dei ricoverati e quindi dell’inadeguatezza dell’organico della struttura, nonché del decadimento repentino ed imprevedibile delle condizioni della paziente.
La Suprema Corte ha innanzitutto premesso che, come tutti gli operatori di una struttura sanitaria, quale e` una R.S.A., l'infermiere – e valga anche per l'operatore sanitario – e` ex lege portatore di una posizione di garanzia, espressione dell'obbligo di solidarietà, costituzionalmente imposto dagli artt. 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti/degenti, la cui salute egli deve tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l'integrità, e che tale obbligo di protezione perdura per l'intero tempo del turno di lavoro.
Secondo i giudici di legittimità, una volta acclarata la posizione di garanzia ricoperta dall'autore del fatto, eventuali ulteriori condotte o fattori che si innestino nel meccanismo causale sono di regola irrilevanti. Al riguardo, la Cassazione richiama l’ormai consolidato principio secondo cui, in caso di condotte colpose indipendenti, non può invocare il principio di affidamento l'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità.
Prelievo del sangue al conducente: la prova dell’avviso circa l’assistenza di un difensore non deve necessariamente trarsi dal verbale
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 18349 del 12 maggio 2021
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema delle garanzie difensive che devono essere riconosciute al conducente di un mezzo coinvolto in un sinistro stradale nel momento in cui viene accompagnato in ospedale per essere sottoposto al prelievo di sangue volto ad accertarne lo stato di ebbrezza.
La Suprema Corte ribadisce l’ormai consolidato orientamento per cui sussiste l'obbligo di avvertire l'interessato della facoltà di avvalersi di un difensore sia nel caso di ricovero per cure mediche, purché il prelievo non sia strettamente necessario alle cure ma sia proposto su richiesta della Polizia Giudiziaria esclusivamente per finalità di ricerca della prova, sia nel caso in cui la Polizia Giudiziaria abbia richiesto l'effettuazione di un prelievo ematico presso una struttura sanitaria ai fini dell'accertamento del tasso alcolemico. In simili ipotesi, il personale sanitario finisce per agire come vera e propria longa manus della polizia giudiziaria e, rispetto a tale accertamento, scattano le garanzie difensive sottese all'avviso di cui all'art. 114 del codice di procedura penale.
Inoltre, sempre secondo la Cassazione, la prova dell'avviso di cui all'art. 114 disp. att. c.p.p. non deve essere offerta esclusivamente in base al contenuto del verbale di cui all'art. 357 c.p.p., in cui, secondo quanto stabilito dall'art. 115 disp. att. c.p.p., l'annotazione di tale adempimento non è prescritta. Peraltro, l'obbligo di redazione degli atti indicati dall'art. 357, comma 2, c.p.p., tra i quali rientrano le operazioni e gli accertamenti urgenti, nelle forme previste dall'art. 373 c.p.p., non è previsto a pena di nullità od inutilizzabilità, con la conseguenza che l'unico profilo sul quale può operare la valutazione giudiziale concerne l'attendibilità della testimonianza degli operatori della polizia giudiziaria in merito a quanto dagli stessi direttamente percepito nell'immediatezza dei fatti ma non verbalizzato, anche in relazione alle ragioni della omessa verbalizzazione.
Il pedone che attraversa la strada fuori dalle strisce pedonali è un ostacolo prevedibile
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 20912 del 27 maggio 2021
Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla responsabilità del conducente di un veicolo in caso di investimento di un pedone mentre questi attraversa la strada al di fuori delle strisce pedonali.
La Suprema Corte ricorda che il principio di affidamento, ossia il poter contare sulla correttezza del comportamento di altri, nell’ambito della circolazione stradale riduce i suoi margini in ragione della diffusività del pericolo, che impone un corrispondente ampliamento della responsabilità in relazione alla prevedibilità del comportamento scorretto od irresponsabile di altri agenti.
Tale principio trova un temperamento nell'opposto principio secondo il quale l'utente della strada e` responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della prevedibilità [...] tanto che l'obbligo di moderare adeguatamente la velocita`, in relazione alle caratteristiche del veicolo ed alle condizioni ambientali, va inteso nel senso che il conducente deve essere in grado di padroneggiare il veicolo in ogni situazione.
Per la Cassazione, ciò che va valutato, nella specifica situazione di fatto, e` la ragionevole prevedibilità della condotta della vittima, ma anche la possibilità di porre in essere la manovra di emergenza necessaria ad evitare l'evento, per il caso del concretizzarsi del pericolo temuto, dovuto al comportamento imprudente o negligente altrui, cosi` come alla violazione delle norme di circolazione da parte della vittima o di terzi.
I giudici di legittimità osservano che sia l'art. 141 che l’art. 145 del Codice della strada impongono comportamenti la cui violazione rileva sempre, anche in termini di colpa generica, inerendo alla diligenza ed alla prudenza nella guida di veicoli.
Su questi presupposti, fra gli ostacoli prevedibili ben può esservi ricompreso il pedone che attraversa la strada in un punto privo di strisce pedonali, nelle vicinanze della stazione degli autobus, avuto riguardo del traffico pedonale solitamente presente in quel punto. Inoltre, in una simile situazione, la velocita` deve essere costantemente proporzionata allo spazio corrispondente al campo di visibilità al fine di consentire al conducente l'esecuzione utile della manovra di arresto, considerato il tempo psicotecnico di reazione, che deve essere tenuto in conto dal conducente, per l'ipotesi in cui si profili un ostacolo improvviso.
File allegati
- Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 14469 del 26 maggio 2021.docx.pdf
- Tribunale di Bari, sentenza 8 giugno 2021, n. 2207.pdf
- Cassazione civile, sezione II, ordinanza n. 11189 del 28 aprile 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 13718 del 19 maggio 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 15445 del 3 giugno 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 12884 del 13 maggio 2021.docx.pdf
- Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 16192 del 9 giugno 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 10583 del 22 aprile 2021.docx.pdf
- Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 10348 del 20 aprile 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 12593 del 12 maggio 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 13595 del 19 maggio 2021.pdf
- Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 14453 del 26 maggio 2021.pdf
- Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 18901 del 13 maggio 2021.pdf
- Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 16132 del 28 aprile 2021.pdf
- Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 18349 del 12 maggio 2021.pdf
- Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 20912 del 27 maggio 2021.docx.pdf