Newsletter Gennaio 2024
L’inammissibilità del ricorso ex art. 696 bis c.p.c. laddove instaurato per il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale.
Tribunale di Treviso, ordinanza del 19 ottobre 2023
Con l’ordinanza in commento, il Tribunale di Treviso è tornato a ribadire che il riconoscimento del diritto iure proprio al risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale non può prescindere da un accertamento in fatto riservato al giudice di merito, non suscettibile di quantificazione in base a meri automatismi tabellari e sicuramente non demandabile ad un collegio peritale, nemmeno in ottica conciliativa, postulando valutazioni discrezionali e giuridiche di esclusiva competenza del giudice.
Sulla scorta di tale considerazione, pertanto, il Tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso promosso dai congiunti del de cuius, pur con la precisazione che tale provvedimento di inammissibilità non comporta in alcun modo una compressione del diritto di azione della parte, potendo la condizione di procedibilità di cui all’art. 8 L 24/2014 essere soddisfatta anche mediante l’esperimento del tentativo di mediazione ex DLGS 28/2010.
L’ordinanza in questione si inserisce in un orientamento che sta andando, via via, stabilizzandosi presso il Foro trevigiano; orientamento secondo cui l’eventuale diritto risarcitorio del danno riflesso dei congiunti non può discendere tout court da un’asserita declaratoria di responsabilità dei soggetti convenuti ma presuppone un’articolata e specifica istruttoria di merito certamente non esperibile nella sede dell’accertamento tecnico preventivo.
Il principio era già stato affermato dal medesimo Tribunale che, in altra occasione, precisò come la quantificazione del danno da lesione del rapporto parentale eventualmente subito dai ricorrenti non possa che essere rimandata all’equo apprezzamento del giudice di merito, trattandosi di danno morale non suscettibile di accertamento tecnico (Tribunale di Treviso, ordinanza 28 giugno 2023).E ancora, l’accesso a tale strumento processuale (n.d.r. alla consulenza preventiva a fini conciliativi) incontra comunque un limite oggettivo nella necessità che la responsabilità della controparte e le conseguenze dannose dell’illecito siano accertabili e valutabili sulla base degli elementi disponibili e senza l’espletamento di attività istruttorie ulteriori rispetto alla c.t.u. (Tribunale di Treviso, ordinanza 13 aprile 2022).
Pertanto, non essendo delegabile al collegio peritale, nemmeno in ottica conciliativa, il compimento di valutazioni discrezionali e squisitamente giuridiche che competono esclusivamente al giudice della cognizione, il ricorso – pur promosso in ottica conciliativa – nel quale i ricorrenti agiscono per il risarcimento del danno patito iure proprio per la perdita del congiunto dovrà dichiararsi inammissibile stante l’assenza dei presupposti di cui all’art. 696 bis c.p.c.
Ai sensi dell’art. 152 del Codice delle Assicurazioni private, la legittimazione processuale passiva della mandataria per la liquidazione dei sinistri è eventuale, ossia condizionata alla mancata evocazione in giudizio dell'assicuratore straniero.
Cassazione civile, Sez. III, sentenza del 20 ottobre 2023, n. 29221
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla possibilità per il danneggiato da un sinistro avvenuto all’estero di convenire in giudizio, nell’azione di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 152 del Codice delle Assicurazioni private, sia l'impresa assicuratrice straniera sia il mandatario per la liquidazione dei sinistri.
La Corte, in primo luogo, ha ricordato che sulla questione della legittimazione passiva della mandataria italiana di una impresa assicuratrice straniera, era stato precedentemente affermato che: "il "mandatario per la liquidazione del sinistri" di cui al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 152 è un mandatario con rappresentanza "ex lege" dell'assicuratore del responsabile, sicché - nel rispetto delle regole sulla giurisdizione e sulla competenza - può agire o essere convenuto in giudizio in nome e per conto del mandante, al fine di ottenere una sentenza eseguibile da o nei confronti di costui" (Cass. 10124/ 2015);
Inoltre il riconoscimento della legittimazione del mandatario è compatibile col diritto dell'Unione Europea, perché l'art. 4, comma 4, della direttiva n. 2000/26/CE del 16 maggio 2000 - pur non imponendo agli Stati membri di prevedere che il mandatario designato possa essere convenuto dinanzi al giudice nazionale in luogo dell'impresa di assicurazione che rappresenta (CGUE, sentenza del 15 dicembre 2016, causa n. C-558/15) – deve essere interpretato conformemente agli obiettivi perseguiti dal legislatore comunitario e, cioè, al rafforzamento della tutela della vittima di sinistri stradali avvenuti al di fuori dello Stato di residenza" (Cass. n. 29352/2019).
I Giudici di legittimità hanno ricordato che la disciplina concernente il "risarcimento del danno derivato da sinistri avvenuti all'estero" (contenuta negli artt. 151-155 Cod. Ass.), prevede la figura del "mandatario per la liquidazione dei sinistri" (art. 152) come soggetto che, operando nel territorio di residenza dei danneggiati e rivolgendosi ad essi nella loro lingua, "acquisisce tutte le informazioni necessarie ai fini della liquidazione dei sinistri e adotta tutte le misure necessarie per gestire la liquidazione stessa"; la norma mira evidentemente ad agevolare il danneggiato, consentendogli di rapportarsi (con maggiore facilità) ad un soggetto avente sede in Italia.
Tuttavia, occorre ricordare che l'intervento del mandatario non è indefettibile, in quanto la norma dell'art. 153 Cod. ass., nel prevedere che i danneggiati residenti nel territorio della Repubblica "hanno diritto di richiedere il risarcimento del danno oltre che al responsabile del sinistro anche all'impresa di assicurazione con la quale è assicurato il veicolo che ha causato il sinistro ovvero anche al suo mandatario designato nel territorio della Repubblica", configura la possibilità di rivolgere la pretesa risarcitoria (e, quindi, anche di agire in via giudiziaria) al soggetto operante in territorio italiano come modalità alternativa, in tal senso deponendo sia la lettera che la finalità della norma.
Infatti, secondo la Corte, laddove il legislatore utilizza la congiunzione disgiuntiva "ovvero", lo fa nel significato proprio di "oppure", nel senso che la richiesta o l'azione possano essere rivolte all'uno o all'altro, ma non ad entrambi congiuntamente (non dovendo trarre in errore il fatto che la norma aggiunga la congiunzione "anche", dato che questa si riferisce alla possibilità di agire cumulativamente nei confronti del responsabile del sinistro); ne consegue che la norma deve essere letta nel senso che il danneggiato può agire, oltre che contro il responsabile, anche nei confronti della sua impresa di assicurazione del veicolo danneggiante oppure -in via alternativa- anche nei confronti del mandatario italiano della compagnia straniera.
Dunque, per la Suprema Corte, una lettura di questo tipo sarebbe conforme alla finalità "agevolatrice" insita nella previsione della figura del mandatario che, mentre giustifica l'azione diretta nei confronti di detto mandatario, non potrebbe comportare anche la possibilità di convenire congiuntamente in giudizio il rappresentante (mandatario) e la rappresentata (ossia la compagnia assicuratrice del responsabile), che costituirebbe un eccesso di tutela una volta che, con l'evocazione in giudizio dell'impresa assicuratrice straniera, il danneggiato ha manifestato la scelta di non fruire della possibilità alternativa riconosciutagli dal legislatore.
Sulla scorta di tali principi generali, la Corte ha stabilito che la legittimazione processuale passiva della mandataria è eventuale, ossia condizionata alla mancata evocazione in giudizio dell'assicuratore straniero.
La liquidazione del danno da perdita anticipata della vita e da perdita di chance di sopravvivenza.
Cassazione civile, Sez. III, sentenza del 19 settembre 2023, n. 26851
Con la sentenza in commento, la Terza sezione civile della Corte di Cassazione ha fatto chiarezza sia in tema di danno da perdita anticipata della vita (c.d. premorienza) occorsa nelle more del giudizio sia in merito alla differenza tra tale voce di danno e quello da perdita di chance di sopravvivenza.
In primo luogo, la Suprema Corte ha sottolineato come le conseguenze dannose della c.d. premorienza occorsa nelle more del giudizio vanno distinte a seconda che la morte sia indipendente o dipendente dall'errore medico.
Nel primo caso, se il decesso è avvenuto prima della conclusione del giudizio, l'ammontare del risarcimento spettante agli eredi del defunto "iure successionis" va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non a quella statisticamente probabile, sicché tale danno va liquidato in base al criterio della proporzionalità; in ipotesi di morte dipendente anche dall'errore medico (ma non solo), la Suprema Corte ha ritenuto, invece, di dare continuità al principio per cui qualora la produzione di un evento dannoso risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, l'autore del fatto illecito risponde in toto, in base ai criteri di equivalenza della causalità materiale, dell'evento di danno eziologicamente riconducibile alla sua condotta, a nulla rilevando l'eventuale efficienza concausale anche dei suddetti eventi naturali, i quali, invece, possono rilevare, sul piano della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c., ai fini della liquidazione, in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti.
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto di dare continuità al principio, conforme all’applicazione del dettato normativo di cui all’art. 41, comma 1, c.p., secondo il quale se la condotta dell'agente viene ritenuta idonea alla determinazione anche solo parziale dell'evento di danno lamentato, e si fosse prospettata una questione circa l'incidenza di una causa naturale, le due possibili alternative, sul piano della causalità materiale, risulteranno quelle per cui:
- l'accertamento processuale della rilevanza esclusiva del fattore naturale escluda tout court il nesso di causa tra condotta ed evento: in tal caso la domanda sarà rigettata;
- la causa naturale rivesta efficacia eziologica non esclusiva, ma soltanto concorrente rispetto all'evento: in assenza di prova, da parte del danneggiante/debitore, dell'esistenza di altra e diversa causa a lui non imputabile, la responsabilità dell'evento gli sarà ascritta per intero, e la domanda sarà accolta nell'an debeatur.
I Giudici hanno, poi, evidenziato come il danno da perdita anticipata della vita vada distinto da quello da perdita di "chance" di sopravvivenza, posto che, se la morte è intervenuta, l'incertezza eventistica, che ne costituisce il fondamento logico prima ancora che giuridico (Cass. n. 5641 del 2018, cit.), è stata, di regola, smentita da quell'evento: sulla scorta di tali profili, la Corte ha rilevato come, di regola, rappresenti un'inammissibile duplicazione risarcitoria tra voci di danno, non risultando logicamente compatibili, in via generale, la congiunta attribuzione di un risarcimento da perdita anticipata della vita e da perdita di chance di sopravvivenza.
I Giudici di legittimità hanno, dunque, chiarito che, mentre l’accertamento del danno da premorienza viene effettuato secondo il criterio del "più probabile che non", proprio della responsabilità civile, e avrà ad oggetto un pregiudizio, non risarcibile per la vittima, ma solo per i suoi congiunti conseguente all'omissione colposa dell'agente e consolidatosi nel tempo in capo alla vittima quale minor vissuto costituito dalla perdita anticipata della vita, con riguardo, invece, al danno da perdita di chance di sopravvivenza, l’evento di danno riconosciuto è la "possibilità perduta" (e non la perdita anticipata della vita), dovendosi accertare, quindi, il nesso di causa tra condotta dei sanitari e la perdita di chance.
Secondo i Giudici per il riconoscimento del danno da perdita di chance dovrà risultare causalmente certo che, alla condotta colpevole, sia conseguita la perdita della possibilità di un risultato migliore - non potendosi discorrere di una "probabilità della possibilità" (dove il primo termine identifica la relazione causale e il secondo l'evento di danno), pena, in altra chiave esplicativa, l'incorrere, mutatis mutandis, nel divieto di praesumptio de praesumpto.
La Suprema Corte ha, poi, rilevato che tanto per il danno da perdita anticipata della vita, quanto quello da perdita della "chance" di una possibile, ulteriore sopravvivenza dovranno distintamente accertarsi non solo in base ai principi di causalità generale e di regolarità statistica, bensì anche, in specie quanto alla "seconda" perdita, in ragione del nesso di causalità specifica (cfr. Cass., 29/09/2015, n. 19213, pag. 23), ovvero tenuto conto, nel singolo caso, di tutti i dati medico-anamnestici - in tesi irripetibilmente peculiari del soggetto - alla luce dei quali predicarsi poi, quanto alla chance, l'esistenza di un'incerta - ma seria concreta e apprezzabile - possibilità di vivere per un lasso temporale ancora più lungo.
Sulla scorta di tali principi generali, la Corte, da ultimo, ha rappresentato tre diversi scenari esemplificativi, individuando per ognuno di essi le ipotesi di danno liquidabili alle vittime primarie e secondarie, ovvero:
1) nell'ipotesi di un paziente che, al momento dell'introduzione della lite, sia già deceduto, sono, di regola, alternativamente concepibili e risarcibili jure hereditario, se allegati e provati, i danni conseguenti: a) alla condotta del medico che abbia causato la perdita anticipata della vita del paziente (determinata nell'an e nel quantum), come danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita effettivamente vissuta), considerato nella sua oggettività, e come danno morale da lucida consapevolezza della anticipazione della propria morte, eventualmente predicabile soltanto a far data dall'altrettanto eventuale acquisizione di tale consapevolezza in vita; b) alla condotta del medico che abbia causato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (non determinata né nell'an né nel quantum), come danno da perdita di chances di sopravvivenza. In nessun caso sarà risarcibile iure hereditario, e tanto meno cumulabile con i pregiudizi di cui sopra, un danno da "perdita anticipata della vita" con riferimento al periodo di vita non vissuta dal paziente.
2) La vittima è ancora vivente al momento della liquidazione del danno I danni liquidabili non divergono, morfologicamente, da quelle indicate sub 1) se non per il fatto che non saranno gli eredi, ma il paziente stesso, ancora in vita, ad invocarne il risarcimento, salvo il diverso profilo del danno morale: a) se vi è incertezza sulle conseguenze quoad vitam dell'errore medico, il paziente può pretendere il risarcimento del danno da perdita delle chance di sopravvivenza, ricorrendone i consueti presupposti (serietà, apprezzabilità, concretezza, riferibilità eziologica certa della perdita di quella "chance" alla condotta in rilievo); b) se invece è accertato, secondo i comuni criteri eziologici, che l'errore medico anticiperà la morte del paziente, sarà risarcibile il danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita) e il danno morale da futura morte anticipata, in questo caso sicuramente predicabile (essendo il paziente ancora in vita) a far data dalla acquisizione della relativa consapevolezza.
3) La vittima, vivente al momento dell'introduzione del giudizio, è deceduta al momento della liquidazione del a) se è certo che l'errore medico abbia causato la morte anticipata del paziente, si ricadrà nell'ipotesi di cui sopra, sub 1.a): il paziente può avere patito (e trasmesso agli eredi) un danno biologico (differenziale), e un danno morale da lucida consapevolezza della morte imminente, ma non un danno da "perdita anticipata della vita", risarcibile soltanto, nel perimetro sopra chiarito, iure proprio agli eredi, che potranno altresì proporre la relativa domanda in corso di causa, per ragioni di economia di giudizi (in argomento, v. anche Cass., Sez. U., 12/12/2014, n. 26242, e Cass., Sez. U., 15/06/2015, n. 12310); b) se è incerto che l'errore medico abbia causato la morte del paziente, il paziente può avere patito, in relazione al tempo di vita vissuto (e trasmesso agli eredi), un danno da perdita delle chance di sopravvivenza, ma non un danno da "perdita anticipata della vita".
Responsabilità dell’avvocato: la natura della responsabilità, il perimetro dell’accertamento del Giudice ed il riparto dell’onere probatorio tra le parti.
Tribunale di Udine, 8 gennaio 2024, n. 30
Nella sentenza in esame, il Tribunale di Udine si è pronunciato in tema di responsabilità professionale dell’avvocato, chiarendone la natura, il perimetro dell’accertamento dovuto da parte del Giudice ed il riparto dell’onere probatorio incombente sulle parti in giudizio.
In primo luogo, il Tribunale, richiamando i precedenti di legittimità in materia (Cass. civ., sez. II, 22 marzo 2017, n. 7309; Cass. civ., sez. III, 10 giugno 2016, n. 11906; Trib. Milano, sez. V, 8 febbraio 2019, n.1307), plasmati su una responsabilità per colpa commisurata alla natura della prestazione dell’avvocato, ha chiarito che la responsabilità professionale dell’avvocato configura un’obbligazione di mezzi e non di risultato e presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell’articolo 1176 co. 2 c.c., da commisurare alla natura dell’attività esercitata, salva l’applicazione dell’art. 2236 c.c. nel caso di prestazioni implicanti la risoluzione di problematiche tecniche di particolare difficoltà.
Sulla scorta di tali pacifici orientamenti giurisprudenziale, il Giudice di merito ha, dunque, rilevato come, ai fini del giudizio di responsabilità, rilevi non il conseguimento o meno del risultato utile per il cliente, ma le modalità concrete con le quali il professionista avvocato ha svolto la propria attività, avuto riguardo, da un lato, al dovere primario di tutelare le ragioni del cliente e, dall’altro, al rispetto del parametro di diligenza a cui questi è tenuto.
Secondo il Tribunale, dunque, il Giudice nel determinare se la scelta di una determinata strategia processuale sia foriera di responsabilità, deve analizzare l’inadeguatezza rispetto al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente attraverso una valutazione “ex ante”, in relazione alla natura e alle caratteristiche della controversia e all’interesse del cliente ad affrontarla con i relativi oneri, dovendosi in ogni caso valutare anche il comportamento successivo tenuto dal professionista nel corso della lite, ritenendo, invece, che resti comunque esclusa la responsabilità del professionista in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità - in astratto o con riferimento al caso concreto - tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente.
Il Tribunale ha, poi, precisato che non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente, anche il danno derivante da eventuali sue omissioni intanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito, dovendo, secondo il Giudice sempre e comunque sussistere un nesso di causalità tra l’azione od omissione del legale e il pregiudizio patito dal suo assistito, da accertarsi secondo un criterio di tipo probabilistico, cioè mediante un’indagine intorno alle chances di successo che avrebbe avuto la condotta diversa richiesta al professionista.
Con riguardo, infine, al riparto dell’onere probatorio il Giudice di merito ha chiarito che al cliente competono (a) la prova dell’incarico conferito al professionista; (b) l’allegazione dell’inosservanza degli obblighi che originano dalla relazione contrattuale; (c) la prova del pregiudizio sofferto; (d) la prova, in termini necessariamente probabilistici, dell’esistenza di un nesso di causalità tra l’inosservanza degli obblighi contrattuali e il danno; viceversa sul professionista incombe, invece, la prova di avere esattamente adempiuto le obbligazioni derivanti dall’incarico professionale.
Il c.d. exordium praescriptionis nel caso di danni subiti nella fase di vita prenatale derivati dall’assunzione da parte della gestante di farmaci ad effetti teratogeni.
Cassazione civile, Sez. III, sentenza del 24 gennaio 2024, n. 2375
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di c.d. exordium praescriptionis del diritto al risarcimento del danno subito nella fase di vita prenatale a causa dell’assunzione di farmaci ad effetti teratogeni da parte della gestante (nel caso di specie, il Talidomide).
La Suprema Corte ritiene che per tale fattispecie di richieste di risarcimento danni, come nel caso di danni da emotrasfusione di sangue infetto, la giurisprudenza di legittimità ritenga che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorra dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche da apprezzarsi in riferimento al sanitario o alla struttura sanitaria cui si è rivolto il paziente, ferma restando la necessità di accertare l’attività informativa data all’interessato atta a consentire il collegamento con la causa della patologia o se lo stesso sia stato quanto meno posto in condizione di assumere tali conoscenze.
Dall’equiparazione tra le due fattispecie, sempre secondo la Corte, non può che derivare che il c.d. exordium praescriptionis coincida con la presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell’indennizzo spettando alla controparte dimostrare, anche attraverso il ricorso a prova presuntiva, che già prima di quella data il danneggiato conosceva o poteva conoscere, con l’ordinaria diligenza, l’esistenza della malattia e la sua riconducibilità causale all’assunzione del farmaco.
La Corte si è poi soffermata sul ricorso al principio della prova presuntiva affermando che una simile prova presuntiva, proprio perché destinata a contraddire un fatto storico obiettivo, ovvero la presentazione della domanda di indennizzo, “si deve fondare su fatti certi”, ovvero, “si deve dedurre da questi sulla base di massime d’esperienza o dell’“id quod plerumque accidit”, non potendo tale presunzione consistere in una congettura, o meglio in una “mera supposizione”.
In conclusione, la Corte di Cassazione ha, dunque, affermato il seguente principio di diritto: il termine di prescrizione del credito risarcitorio relativo ai danni, subiti nella fase di vita prenatale a causa dell’assunzione di farmaci ad effetti teratogeni da parte della gestante, decorre, di regola, dalla presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell’indennizzo di cui all’art. 1 della legge 29 ottobre 2005, n. 229, salvo prova, di cui è onerato il convenuto, da fornirsi anche in via presuntiva, che la consapevolezza in capo al danneggiato del nesso causale tra l’assunzione del farmaco e la propria condizionedi disabilitò e/o menomazione non sia maturata in epoca anteriore”.
Omessa notificazione presso il domicilio dichiarato del decreto che dispone il giudizio – Notificazione eseguita presso il difensore – Nullità assoluta ed insanabile della citazione – Effetti.
Cassazione penale, Sez. II, sentenza del 23 giugno 2023, n. 31783
L’omessa notificazione presso il domicilio dichiarato del decreto che dispone il giudizio e l’irrituale notificazione eseguita, in assenza delle condizioni richieste, ex art. 161 comma 4 c.p.p. presso il difensore integrano una nullità assoluta ed insanabile della vocatio in iudicium.
La Corte di cassazione ha stabilito che è viziata da nullità assoluta la notificazione eseguita presso il difensore ai sensi dell’art. 161 comma 4 c.p.p., qualora non sia preceduta dalla previa verifica dell’insufficienza o dell’inidoneità della dichiarazione di elezione di domicilio dell’imputato, trattandosi di vizio che integra l’omessa citazione di quest’ultimo e che incide sulla formazione del contraddittorio.
Nel caso di specie, la Corte ha disposto l’annullamento sia della sentenza di primo grado sia della sentenza d’appello sulla scorta della considerazione che le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare e del decreto che dispone il giudizio erano state effettuate direttamente presso il difensore e non presso il domicilio dichiarato, senza che ne fosse previamente verificata l’idoneità alla ricezione delle notifiche.
Ai fini della determinazione del termine di prescrizione del reato non rileva l’aumento di pena per la recidiva che integri una circostanza aggravante ad effetto speciale se viene contestata dopo la decorrenza del termine di prescrizione del reato originariamente contestato.
Cassazione penale, Sezioni unite, sentenza del 28 settembre 2023, n. 49935
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno stabilito il principio secondo il quale ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena per la recidiva che integri una circostanza aggravante ad effetto speciale, non rileva se la stessa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato come originariamente contestato.
Ciò, facendo leva sulla previsione dell’art. 129 c.p.p., che impone al Giudice l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva del reato; ove, infatti, tale obbligo sia tempestivamente adempiuto, ciò fa venire meno la facoltà in capo al Pubblico Ministero di formulare la contestazione suppletiva, mancando lo stesso segmento processuale nel quale esercitare la facoltà.
La sentenza ha precisato che il contrasto era sorto in relazione alla natura – dichiarativa ovvero costitutiva – della contestazione della recidiva: a fronte di un orientamento (si veda, Cass., sez. V, 2 luglio 2019, Cassarino) che attribuiva natura ricognitiva e non costitutiva alla contestazione della recidiva, considerato che ogni circostanza è preesistente rispetto alla contestazione e ontologicamente indipendente da essa, altro indirizzo giurisprudenziale (si veda, Cass., sez. V, 10 settembre 2019) enfatizzava la natura costitutiva della contestazione dell'aggravante, giungendo ad affermare che la natura costitutiva della contestazione della recidiva non consente di tener conto, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione, dell'aumento di pena derivante dalla recidiva medesima ove questa non sia stata contestata prima dello spirare del tempo necessario a prescrivere il reato nella forma non aggravata.
La Corte di cassazione, ha chiarito che, in effetti, la contestazione per la recidiva come per le circostanze aggravanti in generale, ha natura ricognitiva, dimostrativa, cioè, della scelta, da parte della pubblica accusa, di attribuire rilevanza ad una condizione soggettiva preesistente dell'imputato ovvero ad una connotazione specifica del fatto-reato, cui corrisponde una facoltà di scelta da parte del giudice, di ritenere o meno rilevante, dal punto di vista delle conseguenze in termini di determinazione della pena, la contestazione stessa, nonché, specularmente, le facoltà previste per l'imputato in funzione dell'esercizio della propria difesa.
Tuttavia, confermata la facoltà del Pubblico Ministero di procedere alla contestazione suppletiva della recidiva, le Sezioni Unite hanno ritenuto che ove la causa estintiva del reato non aggravato dalla recidiva sia maturata prima della contestazione suppletiva, il giudice, vista la prioritaria applicazione dell’art. 129 c.p.p. rispetto ad altri eventuali provvedimenti decisionali adottabili – ad eccezione di quanto previsto dall’art. 129 comma 2 c.p.p. - ha il dovere di riconoscere l’intervenuta estinzione del reato. Conseguentemente viene, di fatto, mancare il segmento processuale nell’ambito del quale il Pubblico Ministero possa esplicare la facoltà di procedere alla contestazione suppletiva.
Benefici di legge - Concessione della sola sospensione condizionale e mancata concessione della non menzione - Obbligo di motivazione.
Cassazione Penale, Sez. III, sentenza del 23 novembre 2023, n. 50774
Nella pronuncia oggetto di disamina la Corte di cassazione ribadisce, sul solco di un precedente orientamento, che la sentenza con cui tra i benefici invocati dalla difesa venga concesso solo quello della sospensione condizionale della pena e non anche quello della non menzione della condanna, deve indicare le ragioni per le quali gli elementi valutati in senso favorevole per la concessione dell'uno non siano meritevoli di fondare la concessione dell'altro oppure indicare altri elementi di segno contrario alla concessione del beneficio negato.
La Corte, dunque, stabilita l’irrevocabilità della sentenza di condanna in punto di responsabilità, ha annullato con rinvio limitatamente al punto relativo alla mancata concessione in favore dell’imputato del beneficio della non menzione.
Applicabilità delle pene sostitutive delle pene detentive brevi nel giudizio di appello e disciplina dell’art. 20 bis c.p. come introdotto dalla Riforma Cartabia.
Cassazione Penale, Sez. VI, sentenza del 30 ottobre 2023, n. 49319
Ai sensi della disciplina transitoria contenuta nell'art. 95 del d.lgs. n 150/2022, affinché il giudice d'appello sia tenuto a pronunciarsi in merito all'applicabilità o meno delle nuove sanzioni sostitutive di cui all'art. 20-bis c.p., è necessaria una richiesta in tal senso dell'imputato. Tale richiesta deve essere formulata non necessariamente con l'atto di appello o con i motivi nuovi ex art. 585 comma 4 c.p.p., ma anche - al più tardi - nel corso dell'udienza di discussione d'appello.
Il principio ricavato dall'art. 597 comma 5 c.p.p., secondo il quale il giudice non può applicare d'ufficio le sanzioni sostitutive in assenza di una specifica richiesta sul punto formulata con l'atto d'appello, infatti, va coordinato con la disciplina transitoria che prevede espressamente l'applicabilità delle nuove pene sostitutive, in quanto più favorevoli, ai giudizi d'appello in corso all'entrata in vigore del D. Lgs. n. 150/2022, senza porre limitazioni attinenti alla fase, introduttiva o decisoria, del giudizio stesso.
In definitiva e dunque, la richiesta dell'imputato di applicazione di una sanzione sostitutiva di pena detentiva breve può essere formulata con l'atto d'appello, con i motivi nuovi, ovvero nel corso della discussione del giudizio d'appello.
Ciò, anche in relazione alla ratio della Legge, di favorire la più ampia applicazione delle pene sostitutive.
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