Newsletter Agosto 2023
L'acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto allo stipulante opera iure hereditatis.
Cassazione Civile, Sez. III, ordinanza del 27 aprile 2023, n. 11101
Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla modalità di trasmissione agli eredi del beneficiario premorto del diritto alla prestazione assicurativa chiarendo se l'acquisto del diritto alla prestazione da parte degli eredi debba operare iure hereditatis ovvero, come peraltro ritenuto nella sentenza impugnata in sede di legittimità, iure proprio e, quindi, in proporzione alle rispettive quote ereditarie.
I giudici di legittimità, sul punto, hanno ritenuto di dare continuità ai principi di diritto introdotti con la sentenza n. 111421 del 30 aprile 2021 delle Sezioni Unite, nella quale venne osservato che l'attribuzione del diritto iure proprio al beneficiario per effetto della designazione giustifica (...) l'applicabilità all'assicurazione sulla vita per il caso morte del comma 2 dell'art. 1412 c.c. e, dunque, in tal caso, l'acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto rispetto allo stipulante opera, peraltro, iure hereditatis, e non iure proprio, e quindi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, trattandosi di successione nel diritto contrattuale all'indennizzo entrato a far parte del patrimonio del designato prima della sua morte, nella medesima misura che sarebbe spettata al beneficiario premorto, secondo la logica degli acquisti a titolo derivativo.
Secondo la Corte, infatti, la regola che implica l'identificazione degli "eredi" designati con coloro che abbiano tale qualità al momento della morte del contraente coopera con la regola della trasmissibilità del diritto ai vantaggi dell'assicurazione in favore degli eredi del beneficiario premorto, quale conseguenza dell'acquisto già avvenuto in capo a quest'ultimo.
Inoltre, sempre secondo i giudici, la premorienza di uno degli eredi del contraente, già designato tra i beneficiari dei vantaggi dell'assicurazione, non comporta un effetto di accrescimento in favore dei restanti beneficiari, ma, stando l'assenza di una precisa disposizione sul punto ed in forza dell'assimilabilità dell'assicurazione a favore di terzo per il caso di morte alla categoria del contratto a favore di terzi, un subentro per "rappresentazione" in forza dell'art. 1412, comma 2, c.c..
La Corte ha, dunque, ritenuto di cassare la sentenza con rinvio ritenendo applicabile nel caso di specie l'art. 1412, 2 co., c.c. -secondo la lettura datane dalle Sezioni Unite - dovendosi ritenere che l'acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto allo stipulante operi iure hereditatis, e non iure proprio, nella medesima misura che sarebbe spettata al beneficiario premorto e, dunque, che la successione nei vantaggi dell’assicurazione da parte degli eredi succeduti alla stipulante per rappresentazione del loro dante causa, non possa che avvenire nella quota che sarebbe spettata a quest’ultimo.
La morte dell’assicurato per infezione da Covid-19 non può considerarsi conseguenza di un infortunio.
Tribunale di Pordenone, ordinanza del 24 maggio 2023
Con l’ordinanza in commento, il Tribunale di Pordenone si è occupato della dibattuta indennizzabilità da parte di una polizza infortuni della morte dell’assicurato causata da infezione virale acuta da Covid-19.
Il fulcro della controversia verteva sulla possibilità che la morte dell’assicurato, causata dal contagio del virus Covid-19, potesse o meno considerarsi conseguenza di un infortunio. In particolare, parte ricorrente, a sostegno della propria domanda, sosteneva in giudizio che l’art 42 d.l. 18/2020 conv. in l. 27/2020 ha qualificato le infezioni da coronavirus come infortuni sul lavoro, gravanti sulla gestione assicurativa Inail, piuttosto che essere considerate malattie comuni rimesse alla gestione Inps; parte avversa, rappresentava poi che l’infezione da virus Covid-19 dovrebbe comunque ricondursi alla nozione di infortunio, in quanto originata da causa fortuita, violenta ed esterna, idonea a produrre lesioni corporali obiettivamente constatabili che hanno per conseguenza la morte, l’invalidità permanente o l’inabilità temporanea, richiamando allo scopo la circolare Inail n. 74/1995, a sua volta richiamata dalle più recenti circolari 17/3/2020 e n. 13/2020 - relativa a malattie infettive e parassitarie, nonché letteratura medico legale sull’equiparazione tra causa violenta e causa virulenta.
Il Tribunale ha, tuttavia, ritenuto non applicabile al caso in esame l’art. 42 del DPCM 17/3/2020 (d.l. Cura Italia), ritenendo la norma, emanata nel contesto dell’emergenza pandemica, unicamente volta ad adiuvare lavoratori e imprese, avendo equiparato il Covid ad un infortunio sul lavoro indennizzabile. Essa, tuttavia, resta confinata nel settore normativo delle assicurazioni sociali (Inail) e non può essere estesa, in modo retroattivo, al comparto delle assicurazioni private, neppure quale norma di interpretazione autentica.
Ciò chiarito con riguardo all’impossibilità di applicazione analogica della disciplina speciale INAIL, Il Giudice ha richiamato i criteri ermeneutici fissati dagli articoli 1362 ss. c.c., nel rispetto del principio di autonomia privata espresso dall’art. 1322 c.c., rilevando che il glossario contenuto nella nota informativa allegata alla polizza in questione definiva l’infortunio come “l’evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che produca lesioni fisiche oggettivamente constatabili.”.
Secondo il Giudice, affermare che l’infezione da covid-19 presenterebbe tutti i suddetti caratteri che caratterizzano la nozione di infortunio consentirebbe… di estendere la nozione di infortunio a qualsiasi tipo di infezione, vanificando la distinzione invalsa nella pratica assicurativa.
Il Giudice ha, inoltre, precisato che il mero penetrare all’interno dell’organismo di agenti patogeni batterici, virali o fungini , invece - pur rappresentando un’infezione proveniente dall’esterno, che ben può essere connotata da violenza non inferiore a quella provocata dai fattori macroscopici, come sottolinea la dottrina medico-legale - non determina un infortunio indennizzabile, in quanto fenomeno che si manifesta su ordini di grandezza microscopici o submicroscopici, che non possono ritenersi ricompresi nell’oggetto della copertura assicurativo, stante l’espressa ed eccezionale estensione di operatività limitata a quelle sole infezioni morbose veicolate nell’organismo, come già detto, da una causa violenta esterna manifestatasi sulla scala del visibile.
In definitiva, il Tribunale di Pordenone, ha ritenuto che l’elaborazione offerta dalla giurisprudenza giuslavoristica in materia di equiparazione tra causa violenta e causa virulenta … non consente di superare il limite, evincibile dalla sopra riportata interpretazione del contratto di assicurazione privata, che ad un tempo àncora la nozione di “infortunio” ad un accadimento fenomenico che sia dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che produca lesioni fisiche ed esclude da tale definizione le infezioni morbose non veicolate da una “lesione esterna traumatica” specifica, come individuata dalle condizioni generali di contratto.
Su tali presupposti, è stata, dunque, esclusa l’operatività della polizza assicurativa invocata dalle parti attrici, con conseguente rigetto della domanda di pagamento dell’indennizzo ivi previsto e compensazione integrale delle spese di lite, vista la peculiarità della questione giuridica sottesa.
L’incapacità a testimoniare: tra invalidita’ e rilevabilita’ d’ufficio dell’eccezione.
Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza del 6 aprile 2023,n. 9456
Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi in tema di incapacità testimoniale, valutando l’attualità e l’effettiva portata dei principi stabiliti dall’art. 246 c.p.c. a seguito del contrasto giurisprudenziale sorto in merito alla tipologia di invalidità che inficia la testimonianza assunta in violazione del divieto stabilito dalla disposizione normativa in esame e circa la sua rilevabilità dalle parti.
In primo luogo, la Corte ha osservato che l'art. 246 c.p.c., secondo cui non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, (…) sta ad affermare l'incompatibilità della posizione processuale di parte con quella di testimone, in forza di una valutazione compiuta a priori, la quale si risolve in ciò, che una confusione tra i due ruoli inficia, o meglio inficerebbe, almeno secondo il criterio dell'id quod plerumque accidit, la credibilità del teste, perché privo della condizione di terzietà che ne caratterizza, o meglio ne caratterizzerebbe, la figura.
Ciò premesso, i Giudici di legittimità, con riferimento alla rilevabilità dell'eccezione di incapacità a testimoniare ad istanza di parte o anche d'ufficio, hanno richiamato l'orientamento granitico secondo cui l'eccezione ex art. 246 c.p.c. può essere sollevata solo ad istanza di parte (Cass. 3 aprile 2007, n. 8358; Cass. 25 settembre 2009, n. 20652; Cass., Sez. Un., 23 settembre 2013, n. 21670; Cass. 10 ottobre 2014, n. 21395). Questa Corte, cioè, non ha mai dubitato che l'incapacità a testimoniare debba essere eccepita dalla parte interessata.
Secondo la Corte, poichè l'impianto del processo civile non è improntato ad un assetto autoritario, è alle parti che spetta di scegliere, nei limiti in cui l'ordinamento lo prevede, i percorsi istruttori da seguire al fine della dimostrazione dei propri assunti, senza che possano ammettersi poteri officiosi del giudice, quanto al rilievo dell'incapacità a testimoniare, che non discendano dalla legge, sia pure per via di interpretazione sistematica, dal momento che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato appunto dalla legge, e che l'esercizio di eventuali poteri officiosi deve rimanere collocato entro l'ambito del precetto costituzionale volto ad assicurare il contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale.
La Corte si è occupata poi di stabilire le modalità di formulazione dell'eccezione di incapacità a testimoniare, ricordando che la Corte stessa ha costantemente ribadito che essa va formulata in vista dell'assunzione, il che non esime l'interessato dal proporre l'eccezione di nullità della testimonianza, ove assunta nonostante l'eccezione di incapacità, successivamente al suo espletamento, nonché in sede di precisazione delle conclusioni.
Secondo i Giudici di legittimità, infatti, la nullità della testimonianza resa da persona incapace essendo posta a tutela dell'interesse delle parti, è configurabile come una nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l'espletamento della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c.; qualora detta eccezione venga respinta, la parte interessata ha l'onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi la medesima, in caso contrario, ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità stessa per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo.
Pertanto, la Corte ha ribadito che l'eccezione di incapacità a testimoniare va formulata prima dell'ammissione della prova testimoniale, per l'ovvia ragione che, in mancanza di essa, il giudice, che non può rilevare d'ufficio l'incapacità, non ha il potere di applicare la regola di esclusione prevista dall'art. 246 c.p.c., sicché è tenuto ad ammettere il mezzo, in concorso, ovviamente, coi normali requisiti dell'ammissibilità e rilevanza, sottoposti al suo controllo.
Infatti, secondo i Giudici di legittimità, non sarebbe possibile un’eccezione di nullità sollevata soltanto ex post, a seguito dell'assunzione, ma non preceduta dalla preventiva eccezione di incapacità, e ciò perché una simile condotta si scontra con il precetto dell'ultimo comma dell'art. 157 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che vi ha rinunciato anche tacitamente, omettendo, in questo caso, di formulare a suo tempo l'eccezione (Cass. 16 gennaio 1996, n. 303, ove si precisa che non rileva "in contrario che il teste sia divenuto successivamente parte nello stesso processo, per essere stato emesso nei suoi confronti ordine di integrazione del contraddittorio, giacché la qualità di teste e la conseguente possibilità di eccepirne l'incapacità ex art. 246 presuppongono proprio che la persona chiamata a testimoniare non abbia ancora assunto la qualità di parte"). Inoltre, aggiunge la Corte, se si ammettesse un'eccezione di nullità spiegata solo ex post, e non preceduta ex ante dall'eccezione di incapacità, si consentirebbe all'interessato di rimanere in silenzio sino all'assunzione della prova, per poi valutare la convenienza della deposizione e decidere se vanificare l'assunzione con l'eccezione di nullità ovvero giovarsi degli elementi ottenuti, la qual cosa interferirebbe, se non altro, con elementari esigenze di economia processuale.
La Corte, valorizzata l’esigenza di ordine pubblico processuale della collocazione dell’eccezione di nullità a ridosso dell’assunzione del mezzo, ha precisato poi che l'imposizione di un duplice onere di eccezione, prima dell'ammissione e dopo l'assunzione del mezzo cionondimeno ammesso - che taluno, come si accennava, ha a torto ritenuto irragionevolmente formalistica - si spiega non soltanto in ragione dell'impossibilità logica di configurare un'eccezione di nullità di un atto di là da venire, sicché "una eccezione d'incapacità a testimoniare... non include l'eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione" (Cass. 19 agosto 2014, n. 18036), ma, soprattutto, a tutela dell'interesse della stessa parte che abbia formulato l'eccezione di incapacità a testimoniare, la quale, pure oppostasi inizialmente all'ammissione della testimonianza, deve essere posta in condizione di valutare l'esito dell'assunzione, che ben potrebbe rivelarsi ad essa favorevole (Cass. 15 febbraio 2018, n. 3763; Cass. 19 settembre 2013, n. 21443; Cass. 23 maggio 2013, n. 12784), situazione, quest'ultima, del tutto distinta da quella prima ricordata della parte che abbia tenuto in serbo l'eccezione di incapacità per giocare in extremis la carta della nullità secundum eventum. Ciò detto - bisogna aggiungere - è cosa ovvia che l'eccezione di nullità da proporsi ex post non richiede formule sacramentali, sicché non vi sarebbe modo di intendere altrimenti la dichiarazione della parte che, dopo l'assunzione, ribadisse l'iniziale eccezione di incapacità, o altro di simile.
I Giudici di legittimità hanno poi ritenuto di evidenziare come l'eccezione di nullità della testimonianza resa da teste incapace ai sensi dell'art. 246 c.p.c. va infine coltivata con la precisazione delle conclusioni, di cui all'art. 189 c.p.c., intendendosi con ciò l'elencazione, effettuata in modo preciso e puntuale, sulla base di quanto emerso durante il corso della trattazione e dell'istruzione probatoria, delle domande ed eccezioni rivolte al giudice, ivi comprese le eventuali richieste istruttorie: precisazione delle conclusioni volta a fissare definitivamente l'ambito entro cui il giudice dovrà provvedere, fatto salvo quanto rilevabile d'ufficio, ma ancor prima, come bene evidenziato in dottrina, a soddisfare il dispiegamento del contraddittorio, nella sua espressione più ampia, ed in particolare l'esigenza di ciascuna parte di conoscere la formulazione definitiva delle domande dell'altra, contando sulla definitività di tale formulazione, quando ne compirà l'esame critico nello svolgimento degli scritti difensivi.
Secondo i Giudici di legittimità, infatti, considerata la previsione di rinuncia tacita di cui all'art. 157 c.p.c., considerato che le parti sono chiamate a precisare le conclusioni in modo preciso e puntuale in vista del dispiegamento del contraddittorio, e che l'art. 178, comma 1, c.p.c. stabilisce che esse possono proporre al collegio, quando la causa è rimessa a questo a norma dell'art. 189, tutte le questioni risolute da giudice istruttore con ordinanza revocabile, le parti che ritengano di investire il giudice dell'eccezione di nullità della testimonianza ammessa ed assunta in violazione dell'art. 246 c.p.c., devono reiterare l’eccezione in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi altrimenti ritenere l'eccezione medesima rinunciata.
L’ onere della prova ed i criteri da adottare per la liquidazione del danno riflesso dei congiunti del macroleso.
Cassazione civile, Sez. III, ordinanza del 17 maggio 2023, n. 13540
Con l’ordinanza in commento, la Terza sezione della Corte di Cassazione ha chiarito quale sia l’onere probatorio incombente sulla parte per il riconoscimento del danno non patrimoniale alle c.d. vittime riflesse ed i parametri da adottare da parte del Giudice nella sua liquidazione.
Secondo la Corte risulta essere affermazione consolidata in giurisprudenza che ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito, lesioni personali possa spettare anche il risarcimento del danno non patrimoniale concretamente accertato da lesione del rapporto parentale, in relazione ad una particolare situazione affettiva della vittima, non essendo ostativo il disposto dell'art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso traducendosi tale danno in un patema d'animo ed anche in uno sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto che non risulta essere accertabile con metodi scientifici, ma in base ad indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivvi ai fini della sua configurabilità quali, tra tutti, il rapporto di stretta parentela esistente tra la vittima ed i suoi familiari.
I Giudici di legittimità, infatti, hanno affermato che, pur non sussistendo alcun limite normativo per il danno da lesione del rapporto parentale, nel senso che possa sussistere soltanto se gli effetti stabiliti dal danno biologico sul congiunto siano particolarmente elevati, in realtà al fine del suo riconoscimento sarebbe soltanto una questione di prova ovvero, il parente, secondo i principi generali - e dunque anche per via presuntiva - ha l'onere di dimostrare che è stato leso dalla condizione del congiunto, per cui ha subito un danno non patrimoniale parentale.
La Corte, infatti, sostiene che l'esistenza stessa del rapporto di parentela può dunque far presumere la sofferenza del familiare, ferma restando la possibilità, per la controparte, di dedurre e dimostrare l'assenza di un legame affettivo, perché la sussistenza del predetto pregiudizio, in quanto solo presunto, può essere esclusa dalla prova contraria, a differenza del cd. "danno in re ipsa", che sorge per il solo verificarsi dei suoi presupposti senza che occorra alcuna allegazione o dimostrazione - danno che non trova cittadinanza nel nostro ordinamento, giusta l'insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte.
Per quanto riguarda, invece, i criteri da adottare per la liquidazione del danno riflesso del congiunto, i Giudici di legittimità hanno sostenuto la necessità di adottare tabelle che prevedano idonee modalità di quantificazione del danno, come quelle predisposte dal Tribunale di Roma, che fin dal 2019 contengono un quadro dedicato alla liquidazione dei danni cd. riflessi subiti dai congiunti della vittima primaria in caso di lesioni. Viceversa, la Corte ha ritenuto che le tabelle del Tribunale di Milano, nella loro più recente versione si sono adeguate alle indicazioni di questa Corte prevedendo una liquidazione "a punti " in riferimento alla liquidazione del danno non patrimoniale derivante da perdita del rapporto parentale, mentre non altrettanto hanno fatto, allo stato, in riferimento alla liquidazione del danno dei congiunti del macroleso "in quanto per ora non è stato raccolto un campione significativo di sentenze utile a costruire una tabella fondata sul monitoraggio", come si legge nella illustrazione delle tabelle dell'Osservatorio milanese, lasciando in questo caso al giudice "...valutare se ritiene di avvalersi della tabella sul danno da perdita del rapporto parentale corrispondente al tipo di rapporto parentale gravemente leso, opportunamente adattando e calibrando la liquidazione al caso concreto, per quanto dedotto e provato".
La differenza tra risarcimento in forma specifica e per equivalente nella responsabilità civile automobilistica.
Cassazione civile, sezione III, ordinanza del 20 aprile 2023, n. 10686
Con l’ordinanza in esame, la Cassazione si è pronunciata in tema di liquidazione del danno materiale alla vettura chiarendo il rapporto tra liquidazione del danno per equivalente ed in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c.
Secondo la Corte, la liquidazione del danno in forma specifica disciplinata dall’art. 2058 c.c. può essere richiesta qualora sia in tutto o in parte possibile (1 co.), consentendo tuttavia al giudice di disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore; ciò significa che, in relazione al danno subito da un veicolo, nel primo caso la somma dovuta è calcolata sui costi necessari per la riparazione, mentre nel secondo è riferita alla differenza fra il valore del bene integro (ossia nel suo stato ante sinistro) e quello del bene danneggiato (cfr. Cass. n. 5993/1997 e Cass. n. 27546/2017), ovvero nella "differenza fra il valore commerciale del veicolo prima dell'incidente e la somma ricavabile dalla vendita di esso, nelle condizioni in cui si è venuto a trovare dopo l'incidente, con l'aggiunta ulteriore della somma occorrente per le spese di immatricolazione e accessori del veicolo sostitutivo di quello danneggiato" (Cass. n. 4035/1975).
Con riferimento, invece, ai rapporti tra tale modalità di liquidazione e quella per equivalente, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che le due modalità di liquidazione si pongono, fra loro, in un rapporto di regola ed eccezione, nel senso che la reintegrazione in forma specifica (che vale a ripristinare la situazione patrimoniale lesa mediante la riparazione del bene) costituisce la modalità ordinaria, che può tuttavia essere derogata dal giudice -con valutazione rimessa al suo prudente apprezzamento ("può disporre")- in favore del risarcimento per equivalente, laddove la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per la parte obbligata.
I Giudici di legittimità hanno precisato, che con riferimento a tale ultimo aspetto, la giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che l'eccessiva onerosità ricorra "allorquando il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo" (Cass. n. 2402/1998, Cass. n. 21012/2010 e Cass. n. 10196/2022), non mancando di rilevare che, se la somma occorrente per la reintegrazione in forma specifica "supera notevolmente il valore di mercato dell'auto, da una parte essa risulta eccessivamente onerosa per il debitore danneggiante e dall'altra finisce per costituire una locupletazione del danneggiato" (Cass. n. 24718/2013, in motivazione, a pag. 5).
Sempre secondo la Corte nel bilanciamento fra l'esigenza di reintegrare il danneggiato nella situazione antecedente al sinistro e quella di non gravare il danneggiante di un costo eccessivo, l'eventuale locupletazione per il danneggiato costituisca un elemento idoneo a orientare il giudice nella scelta della modalità liquidatoria e, al tempo stesso, un dato sintomatico della correttezza dell'applicazione dell'art. 2058,2 co. c.c. ritenendo i Giudici che il danneggiato può avere serie ed apprezzabili ragioni per preferire la riparazione alla sostituzione del veicolo danneggiato (ad es., perché gli risulta più agevole la guida di un mezzo cui è abituato o perché vi sono difficoltà di reperirne uno con caratteristiche similari sul mercato o perché vuole sottrarsi ai tempi della ricerca di un veicolo equipollente e ai rischi di un usato che potrebbe rivelarsi non affidabile) e che una piena soddisfazione delle sue ragioni risarcitorie può comportare un costo anche notevolmente superiore a quello della sostituzione.
Allo stesso modo la Corte ha sostenuto che al debitore non può essere imposta sempre e comunque (a qualunque costo) la reintegrazione in forma specifica, dato che l'obbligo risarcitorio deve essere comunque parametrato a elementi oggettivi e che, pur tenendo conto dell'interesse del danneggiato al ripristino del bene e della possibilità che i costi di tale ripristino si discostino anche in misura sensibile dal valore di scambio del bene, non può consentirsi che al danneggiato venga riconosciuto più di quanto necessario per elidere il pregiudizio subito (ostandovi il principio -sotteso all'intero sistema della responsabilità civile- secondo cui il risarcimento deve essere integrale, ma non può eccedere la misura del danno e comportare un arricchimento per il danneggiato) avendo la giurisprudenza di legittimità individuato il punto di equilibrio delle contrapposte esigenze facendo riferimento alla necessità che il costo delle riparazioni non superi "notevolmente" il valore di mercato del veicolo danneggiato; si tratta di un criterio che si presta a tutelare adeguatamente la posizione dell'obbligato rispetto ad eccessi liquidatori, ma non anche a tener conto della necessità di non sacrificare specifiche esigenze del danneggiato a veder ripristinato il proprio mezzo; esigenze che -come detto debbono trovare tutela nella misura in cui risultino idonee a realizzare la migliore soddisfazione del danneggiato e, al tempo stesso, non ne comportino una indebita locupletazione.
Sulla scorta di tali presupposti i Giudice di legittimità hanno ritenuto, dunque, che ai fini dell'applicazione dell'art. 2058,2 co. c.c., la verifica di eccessiva onerosità si debba basare non solo sull’entità dei costi ma sull’eventuale locupletazione per il danneggiato e, nel caso in cui il danneggiato decida di procedere alla riparazione anziché alla sostituzione del mezzo danneggiato, risulta essere non giustificato il mancato riconoscimento di tutte le voci di danno che competerebbero in caso di rottamazione e sostituzione del veicolo.
Gli eredi del terzo trasportato non possono promuovere iure proprio l’azione ai sensi dell’art. 141 del Codice delle Assicurazioni Private
Tribunale di Rovigo, sentenza del 29 maggio 2023
Nella sentenza in commento, il Tribunale si è pronunciato in tema di applicabilità dell’art. 141 del Codice delle Assicurazioni Private all’azione esercitata da parte degli eredi del terzo trasportato.
Il Giudice di merito, sul tema, ha ritenuto di aderire pienamente all’ultimo orientamento giurisprudenziale della S.C. che, con la nota sentenza n. 35318/2022 resa a SS.UU., ha affermato che l’art. 141 cod. ass. (recante la rubrica “risarcimento del terzo trasportato”) disciplina un’azione di carattere eccezionale che non è suscettibile di applicazione analogica a casi non espressamente previsti; essa si applica pertanto in favore del solo trasportato danneggiato e non può essere estesa ai danni subiti iure proprio dai congiunti del trasportato deceduto in conseguenza del sinistro.
Sul punto la giurisprudenza richiamata aveva, infatti, chiarito che per quanto trovi causa nella morte del trasportato, il danno conseguente alla perdita del rapporto parentale è danno “proprio” del congiunto e che rispetto a quest’ultimo non appaiono sussistere (e, comunque, il legislatore non le ha considerate tali) le esigenze di tutela rafforzata del trasportato poste a fondamento della disciplina dell’art. 141 cod. ass..
Viceversa, a diversa conclusione può giungersi, invece, per il danno (terminale e/o catastrofale) eventualmente subito dallo stesso trasportato a causa del sinistro, a seguito del quale sia poi deceduto e di cui i congiunti richiedano il risarcimento iure hereditatis. In tal caso, infatti, il danno, ancorché reclamato dagli eredi, è pur sempre maturato in capo al trasportato e la norma eccezionale dell’art. 141 cod. ass. può trovare applicazione senza necessità di ricorrere ad una (non consentita) interpretazione analogica” (Cfr. in motivazione Cass. S.U. sentenza n. 35318/2022).
Il Tribunale, in conformità a tale orientamento, ha ritenuto, dunque, inapplicabile l’art. 141 Cod. Ass. all’azione esercitata dagli eredi del terzo trasportato, e rilevato come controparte espressamente avesse qualificato la propria azione come promossa appunto ai sensi della suddetta normativa, ne ha dichiarato l’inammissibilità, rilevando altresì come non sussistessero in ogni caso i presupposti per qualificarla quale azione ordinaria, non avendo parte attrice allegato né provato alcunché in tema di responsabilità
Gli interessi legali “maggiorati”. Nuove prospettive sull’art. 1284, comma 4 c.c.
Cassazione Civile, Sez. III, sentenza del 5 luglio 2023, n. 19063
Come noto, con l’introduzione dell’art. 1284, comma 4 c.c. si è previsto che, in pendenza della lite, il saggio degli interessi legali subisca un significativo incremento, al duplice fine di tutelare la posizione del creditore rispetto al pregiudizio che egli subisce a causa dell’inadempimento e, nel contempo, scoraggiare eventuali intenti dilatori e defatigatori dei soggetti debitori, penalizzandone la condotta di resistenza infondata – e talvolta pretestuosa – con l’applicazione di un tasso legale d’interesse ben più alto di quello ordinario.
Rispetto a tale norma, tuttavia, varie sono state le interpretazioni giurisprudenziali che si sono avvicendate nel corso degli anni, in particolare rispetto all’ambito di applicabilità della disposizione.
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi proprio sull’applicabilità degli interessi legali maggiorati alla materia del risarcimento del danno.
Sul punto, i giudici di legittimità hanno ritenuto di dare continuità ai principi di diritto introdotti con sentenza n. 8289 del 25 marzo 2019, nella quale venne osservato che il saggio d’interesse legale pari a quello previsto dalla legislazione speciale in materia di ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali, a valere dal momento della proposizione della domanda giudiziale, trova applicazione esclusivamente quando la lite giudiziale ovvero arbitrale abbia ad oggetto l’inadempimento di un accordo contrattuale.
Dunque, nonostante i divergenti indirizzi interpretativi che, come detto, si sono nel tempo frapposti (tra cui, a mero titolo esemplificativo, si ricorda Cass., 3 gennaio 2023, n. 61), la Corte ha inteso confermare l’originaria impostazione ermeneutica, tornando a precisare che nell’ipotesi di credito risarcitorio siano riconoscibili – pur se in cumulo con la rivalutazione, stante la differente funzione rispettivamente assolta – i soli interessi compensativi, la cui determinazione non è automatica, né presunta iuris et de iure, occorrendo che il danneggiato provi il mancato guadagno derivatogli dal ritardato pagamento.
Secondo la Corte, infatti, l’obbligazione risarcitoria costituisce debito di valore, rispetto al quale gli interessi “compensativi” valgono a reintegrare il pregiudizio derivante dalla mancata disponibilità della somma equivalente al danno subito nel tempo intercorso tra l’evento lesivo o la liquidazione.
A sostegno di tale impostazione, la Corte aggiunge che l’art. 1 della legge sul ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali (D.Lgs. n. 231 del 2002), dopo aver stabilito che “le disposizioni contenute nel presente decreto si applicano ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale”, ha cura di precisare che le medesime disposizioni “non trovano applicazione per (i) pagamenti effettuati a titolo di risarcimento del danno”.
La responsabilita’ del notaio: l’obbligo informativo e consultivo
Cassazione civile, sezione III, ordinanza del 3 agosto 2023, n. 23718
Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione, in tema di responsabilità del Notaio, ha chiarito quali siano gli obblighi contrattuali incombenti sul professionista allo scopo di individuare esattamente il bene oggetto di compravendita e di verificarne la liberalità prima della stipula dell’atto notarile.
In primo luogo, i Giudici di legittimità hanno ricordato che, secondo la propria consolidata giurisprudenza, il notaio deve assistere e consigliare attivamente chi gli ha conferito l'incarico per adempiere al proprio obbligo contrattuale.
In particolare, tra le varie pronunce della Corte, si è ribadito che il notaio, nell’adempimento del proprio incarico, sia obbligato nei confronti dei propri clienti sia sotto il piano informativo (si veda sul punto Cass. civ., 5 luglio 2022, n. 21205; Cass. civ., 16 novembre 2020, n. 25865; Cass. civ, 29 agosto 2019, n. 21775; Cass. civ., 16 marzo 2021, n. 7283; Cass. civ., 30 gennaio 2019, n. 2525) sia sotto il profilo consultivo (v. da ultimo Cass. sez. 3, ord. 4 marzo 2022 n. 7185, per cui "il notaio incaricato della redazione di un contratto di compravendita immobiliare è tenuto a compiere le attività preparatorie e successive, necessarie per il conseguimento del risultato pratico voluto dalle parti, rientrando tra i suoi doveri anche l'obbligo di consiglio o dissuasione, la cui omissione è fonte di responsabilità per violazione delle clausole generali di buona fede oggettiva e correttezza, ex artt. 1175 e 1375 c.c., quali criteri determinativi ed integrativi della prestazione contrattuale, che impongono al compimento di quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi della parte").
Infatti, secondo la Corte, la funzione ontologicamente e ineludibilmente ibrida del notaio - da un lato quella pubblica, dall'altro quella contrattuale - ne ispessisce il contenuto degli obblighi che assume nei confronti delle parti di cui rogita il negozio, rendendoli veri e propri obblighi di protezione, che persino si estendono ai soggetti terzi rispetto al contratto d'opera professionale (ha riconosciuto l'applicabilità dei principi del c.d. contatto sociale qualificato Cass. sez. 3, ord. 8 aprile 2020 n. 7746 in un caso in cui il notaio aveva concluso un contratto d'opera professionale finalizzato al rilascio di procura speciale soltanto con il futuro venditore del bene, ravvisando in tale contratto, "benché formalmente concluso fra il notaio e il futuro venditore ed avente ad oggetto un negozio unilaterale", una "fonte di obblighi di protezione pure nei confronti dell'aspirante compratore, il quale va qualificato come "terzo protetto dal contratto"").
La Corte ha, infine, concluso osservando che il contenuto delle dichiarazioni delle parti nel contratto che il notaio deve rogare non è di per sé sufficiente per esonerare il notaio stesso dai suoi obblighi di protezione, consiglio e, a monte, informazione degli esiti delle verifiche catastali e proprietarie.
Gli effetti dell’omessa comunicazione all’imputato della trattazione orale del processo d’appello.
Cassazione Penale, sezione IV, sentenza del 23 maggio 2023,n. 29336
La Quarta Sezione della Corte di Cassazione ha affermato che, nel vigore della disciplina emergenziale ai sensi dell’art. 23 D.L. 149/2020, il provvedimento con cui è disposta la trattazione del processo con rito ordinario, a seguito della richiesta di discussione orale formulata da una delle parti, deve essere comunicato a ciascuna di esse.
In difetto, si determina, ai sensi dell'art. 178 comma 1, lett. c) c.p.p., una nullità generale a regime intermedio degli atti compiuti e della sentenza, attinente alla mancata assistenza dell’imputato. Né rileva che in occasione dell’udienza avanti alla Corte d’appello sia stato nominato un sostituto processuale del difensore assente ai sensi dell'art. 97 comma 4, c.p.p.
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