Newsletter Febbraio e marzo 2023
L’EFFICACIA DEL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA
Il principio di “non dispersione (o di acquisizione) della prova”, operante anche per i documenti - prodotti sia con modalità telematiche che in formato cartaceo -, comporta che il fatto storico in essi rappresentato si ha per dimostrato nel processo, costituendo fonte di conoscenza per il giudice e spiegando un’efficacia che non si esaurisce nel singolo grado di giudizio, né può dipendere dalle successive scelte difensive della parte che li abbia inizialmente offerti in comunicazione.
Il giudice d’appello ha il potere-dovere di esaminare un documento ritualmente prodotto in primo grado nel caso in cui la parte interessata ne faccia specifica istanza nei propri scritti difensivi, mediante richiamo di esso nella parte argomentativa dei motivi formulati o delle domande ed eccezioni riproposte, illustrando le ragioni, trascurate dal primo giudice, per le quali il contenuto del documento acquisito giustifichi le rispettive deduzioni.
Affinché il giudice di appello possa procedere all’autonomo e diretto esame del documento già prodotto in formato cartaceo nel giudizio di primo grado, onde dare risposta ai motivi di impugnazione o alle domande ed eccezioni riproposte su di esso fondati, il documento può essere sottoposto alla sua attenzione, ove non più disponibile nel fascicolo della parte che lo aveva offerto in comunicazione (perché ritirato e non restituito, o perché questa è rimasta contumace in secondo grado), mediante deposito della copia rilasciata alle altre parti a norma dell’art. 76 disp. att. c.p.c. Il giudice di appello può inoltre porre a fondamento della propria decisione il documento prodotto in formato cartaceo non rinvenibile nei fascicoli di parte apprezzandone il contenuto che sia trascritto o indicato nella decisione impugnata, o in altro provvedimento o atto del processo, ovvero, se lo ritiene necessario, può ordinare alla parte interessata di produrre, in copia o in originale, determinati documenti acquisiti in primo grado.
Allorché la parte abbia ottemperato all'onere processuale di compiere nell’atto di appello o nella comparsa di costituzione una puntuale allegazione del fatto rappresentato dal documento cartaceo prodotto in primo grado, del quale invochi il riesame in sede di gravame, e la controparte neppure abbia provveduto ad offrire in comunicazione lo stesso nel giudizio di secondo grado, sarà quest’ultima a subire le conseguenze di tale comportamento processuale, potendo il giudice, il quale ha comunque il dovere di ricomporre il contenuto di una rappresentazione già stabilmente acquisita al processo, ritenere provato il fatto storico rappresentato dal documento nei termini specificamente allegati nell’atto difensivo.
Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza 16 febbraio 2023,n. 4835
Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite sono state chiamate, con ordinanza interlocutoria n. 14534/2022, a pronunciarsi in relazione all’efficacia probatoria dei documenti prodotti in un precedente grado di giudizio, e non riprodotti in sede di gravame, anche alla luce dell’introduzione del processo civile telematico.
In particolare, oggetto dell’ordinanza interlocutoria sono state le seguenti questioni:
a) - se l'adozione del processo telematico, che prevede la creazione di un unico fascicolo e non contempla l'ipotesi del ritiro dei documenti in esso contenuti, comporti l'abbandono della distinzione tra fascicolo d'ufficio e fascicolo di parte di cui agli artt. 168 e 169 c.p.c., artt. 72, 73, 74, 75, 76 e 77 disp. att. c.p.c.;
b) - se ciò determini il superamento della posizione interpretativa, fatta propria con le pronunce delle Sezioni Unite n. 28498 del 2005 e n. 3033 del 2013, secondo cui l'appellante "subisce le conseguenze della mancata restituzione del fascicolo dell'altra parte, quando questo contenga documenti a lui favorevoli che non ha avuto cura di produrre in copia e che il giudice d'appello non ha quindi avuto la possibilità di esaminare";
c) - se tale superamento valga solo per le cause ove i documenti sono contenuti nel cosiddetto fascicolo informatico ovvero se - al fine di evitare irragionevoli differenze di trattamento - valga anche per cause ove i documenti siano ancora presenti in formato cartaceo nel fascicolo di parte.
I Giudici di legittimità hanno evidenziato che, ai quesiti posti dall’ordinanza interlocutoria, occorre dare risposta ampliando, nel nuovo quadro di sistema delineatosi, gli effetti del principio di acquisizione delle prove documentali e gli strumenti, che già tali sentenze contemplavano, idonei a consentire al giudice d’appello la ricostruzione della portata dimostrativa di tali prove, indipendentemente dalla natura informatica o cartacea del supporto, in funzione di una concezione del processo che “fa leva sul valore della giustizia della decisione” (Cass. Sez. Unite, 7 maggio 2013, n. 10531).
Le Sezioni Unite hanno, poi, ricordato che con la sentenza 10 luglio 2015, n. 14475, affermandosi che i principi costituzionali del giusto processo e della sua ragionevole durata implicano … che le prove acquisite al processo lo siano in via definitiva. Tali prove non devono essere disperse. Ciò vale anche per i documenti: una volta prodotti ed acquisiti ritualmente al processo, devono essere conservati alla cognizione del giudice, venne elaborato il c.d. principio "di non dispersione della prova”.
Secondo la Corte, infatti, tale principio porta a considerare che, una volta prodotto in una fase o in un grado di un processo unitario un documento, lo stesso, in quanto “conosciuto” e perciò definitivamente acquisito alla causa, se sia successivamente ritirato e poi ancora allegato, dalla stessa parte che se ne fosse originariamente avvalsa o da altra parte, non può considerarsi “nuovo”, né in primo grado, agli effetti delle preclusioni istruttorie, né in appello, ai sensi dell’art. 345, comma 3, c.p.c., né nel giudizio in cassazione, con riguardo al divieto di cui all'art. 372 c.p.c. e allo stesso modo tale acquisizione non può dipendere dalle successive scelte processuali della parte che lo abbia inizialmente prodotto, in quanto il fatto storico rappresentato dal documento prodotto si ha per dimostrato.
La Suprema Corte, richiamando le sentenze n. 27199 del 2017 e n. 7940 del 2019, ha affermato poi che nell’ambito del passaggio dal giudizio di primo grado al giudizio di appello, tale definitività dell’acquisizione processuale del documento prodotto debba essere coordinata con la regola della formazione progressiva della cosa giudicata e con l’effetto devolutivo dell’impugnazione di merito, avendo il Giudice d’appello il potere-dovere di esaminare i documenti ritualmente prodotti in primo grado nel caso in cui la parte interessata ne faccia specifica istanza nei propri scritti difensivi, mediante richiamo di essi nella parte argomentativa dei motivi formulati o delle domande ed eccezioni riproposte, illustrando le ragioni, trascurate dal primo giudice, per le quali il contenuto dei documenti acquisiti giustifichi le rispettive deduzioni (Cass. Sez. 1, 29 gennaio 2019, n. 2461; Cass. Sez. 3, 7 aprile 2009, n. 8377; Cass. Sez. 1, 20 ottobre 2005, n. 20287; Cass. Sez. 1, 24 dicembre 2004, n. 23976; Cass. Sez. lav., 6 luglio 2004, n. 12351; Cass. Sez. 1, 29 maggio 2003, n. 8599; Cass. Sez. 3, 6 aprile 2001, n. 5149; Cass. Sez. 2, 16 agosto 1990, n. 8304).
Sulla scorta di tali considerazioni, secondo la Corte affinché il giudice del gravame possa procedere all’autonomo e diretto esame del documento già prodotto in formato cartaceo nel giudizio di primo grado, al fine di provvedere sui motivi di impugnazione o valutare la fondatezza delle domande e/o eccezioni riproposte, il documento può essere sottoposto alla sua attenzione, ove non più disponibile nel fascicolo della parte che lo aveva offerto in comunicazione (perché ritirato e non restituito, o perché questa è rimasta contumace in secondo grado), mediante deposito della copia rilasciata alle altre parti a norma dell’art. 76 disp. att. c.p.c. potendo, altresì, lo stesso porre a fondamento della propria decisione il documento prodotto in formato cartaceo non rinvenibile nei fascicoli di parte apprezzandone il contenuto che sia trascritto o indicato nella decisione impugnata, o in altro provvedimento o atto del processo.
La Suprema Corte ha precisato, infatti, che quando la parte interessata abbia ottemperato all'onere processuale a suo carico di compiere nell’atto di appello o nella comparsa di costituzione una puntuale allegazione del documento cartaceo prodotto in primo grado (e dunque del relativo fatto secondario dedotto in funzione di prova), del quale invochi il riesame in sede di gravame, e la controparte neppure abbia provveduto ad offrire in comunicazione lo stesso nel giudizio di secondo grado, sarà quest’ultima a subire le conseguenze di tale comportamento processuale, potendo il giudice, il quale ha comunque il dovere di ricomporre il contenuto di una rappresentazione già stabilmente acquisita al processo, ritenere provato il fatto storico rappresentato dal documento nei termini specificamente allegati nell’atto difensivo.
IL RAPPORTO TRA L’AZIONE DIRETTA DEL DANNEGGIATO EX ART. 144 CDA E LA SUCCESSIVA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE NEL PROCESSO PENALE
Il trasferimento dell'azione civile nel processo penale, regolato dall'art. 75 c.p.p., determina una vicenda estintiva del processo civile riconducibile al fenomeno della litispendenza, e non a quello disciplinato dall'art. 306 c.p.c., in quanto previsto al fine di evitare contrasti di giudicati.
L'azione diretta, prevista dall'art. 144 comma 1 C.d.A. comporta una forma di legittimazione straordinaria (ad agire nei confronti della compagnia assicuratrice), che il legislatore prevede a favore del danneggiato da circolazione stradale al fine di rafforzare la tutela giuridica del suo diritto al risarcimento del danno, ma non comporta l'ampliamento dell'oggetto del giudizio civile instaurato dal danneggiato. Detto oggetto rimane circoscritto al diritto del danneggiato al risarcimento del danno, producendo il contratto di assicurazione effetti soltanto tra l'assicuratore e l'assicurato/danneggiante e prescindendo l'azione diretta, per sua natura, dall'esistenza di un diritto sostanziale del danneggiato nei confronti della compagnia.
Cassazione civile, sezione III, ordinanza 6 marzo 2023, n. 6602
Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte si è pronunciata in tema di rapporti tra azione civile e azione penale e, in particolare, delle conseguenze processuali previste dall’ordinamento ai sensi dell’art. 75, co.1, c.p.p. nel caso in cui più danneggiati dapprima promuovano l’azione civile ai sensi dell’art. 144 del Codice delle Assicurazioni Private e, successivamente, solo alcuni di essi si costituiscano parte civile nel processo penale.
La Corte, inquadrando tale fattispecie nell’ipotesi prevista e disciplinata dall’art. 75, co. 1, c.p.p. che ricorre quando, come nel caso di specie, il danneggiato, dopo aver promosso l'azione risarcitoria davanti al giudice civile, si costituisce parte civile nel processo penale ha ricordato come le Sezioni Unite, con ordinanza n. 8353/2013 hanno avuto modo di precisare che "Il trasferimento dell'azione civile nel processo penale, regolato dall'art. 75 c.p.p., determina una vicenda estintiva del processo civile riconducibile al fenomeno della litispendenza, e non a quello disciplinato dall'art. 306 c.p.c., in quanto previsto al fine di evitare contrasti di giudicati".
La Suprema Corte è, poi, entrata nel merito dei motivi di doglianza proposti dai ricorrenti basati sulla circostanza che non vi sarebbe coincidenza soggettiva tra l'azione risarcitoria, dagli stessi proposta in sede civile, e l'azione civile trasferita in sede penale sotto un duplice profilo: da un lato, perché in sede civile era stata proposta domanda ex art. 144 Codice delle assicurazioni anche nei confronti della compagnia assicurativa che invece è rimasta estranea al processo penale dopo che l'azione civile è stata ivi trasferita; dall'altro, perché in sede civile era presente anche un’altra parte, anch'essa rimasta estranea al processo penale.
La Corte, in merito al primo motivo di censura, ha ritenuto che i ricorrenti non avessero considerato che, nei confronti della compagnia, fu promossa soltanto l'azione diretta, prevista dall'art. 144 del Codice della strada, con la conseguenza che l'oggetto del processo civile nonostante l'evocazione in giudizio della compagnia, nei cui confronti il danneggiato non è portatore di alcun diritto soggettivo - era soltanto il diritto risarcitorio dei ricorrenti.
Con riguardo, invece, al secondo motivo di censura, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che la parte rimasta estranea al processo penale è portatore di un diritto al risarcimento autonomo rispetto a quello delle altre parti, con la conseguenza che la sua presenza ab origine nel giudizio civile non inficia la validità della rinuncia ex lege agli atti del giudizio (che l'art. 75 comma 1 c.p.p. fa dipendere dalla scelta di S.I. e di T.G. di costituirsi parte civile nel processo penale, così trasferendo in quest'ultimo l'esercizio del loro diritto risarcitorio, anch'esso autonomo).
Sulla scorta, quindi, di tutto quanto sopra rilevato, la Cassazione ha ritenuto esserci piena coincidenza oggettiva e soggettiva tra l'oggetto del giudizio civile, originariamente instaurato, e l'oggetto del giudizio civile successivamente trasferito in sede penale enunciando, dunque, il seguente principio di diritto:
"L'azione diretta, prevista dall'art. 144 comma 1 C. d.A. comporta una forma di legittimazione straordinaria (ad agire nei confronti della compagnia assicuratrice), che il legislatore prevede a favore del danneggiato da circolazione stradale al fine di rafforzare la tutela giuridica del suo diritto al risarcimento del danno, ma non comporta l'ampliamento dell'oggetto del giudizio civile instaurato dal danneggiato. Detto oggetto rimane circoscritto al diritto del danneggiato al risarcimento del danno, producendo il contratto di assicurazione effetti soltanto tra l'assicuratore e l'assicurato/danneggiante e prescindendo l'azione diretta, per sua natura, dall'esistenza di un diritto sostanziale del danneggiato nei confronti della compagnia".
I CASI DI TRATTAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO PER I QUALI E’ CONSENTITO NON ACQUISIRE IL CONSENSO INFORMATO DEL PAZIENTE
Il Trattamento Sanitario Obbligatorio è un evento terapeutico straordinario, finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente, che può essere legittimamente disposto solo dopo aver esperito ogni iniziativa concretamente possibile, sia pur compatibilmente con le condizioni cliniche, di volta in volta accertate e certificate, in cui versa il paziente - ed ove queste lo consentano - per ottenere il consenso del paziente ad un trattamento volontario. Si può intervenire con un trattamento sanitario obbligatorio anche a prescindere dal consenso del paziente se sono contemporaneamente presenti tre condizioni: a) l'esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; b) la mancata accettazione da parte dell'infermo degli interventi terapeutici proposti; c) l'esistenza di condizioni e circostanze che non consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra-ospedaliere.
Cassazione civile, Sezione III, ordinanza 11 gennaio 2023, n. 509
Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte ha chiarito in quali casi può essere disposto un Trattamento Sanitario Obbligatorio, in assenza della previa acquisizione del consenso informato del paziente.
La Corte, dopo aver ricordato i consolidati principi giurisprudenziali in tema di consenso informato (si veda sul punto Cass. 23 marzo 2018, n. 7248 – successivamente confermata, tra le altre, dalle pronunce Cass., 11 novembre 2019, n. 28985, Cass., 26 maggio 2020, n. 9706 e Cass., 4 novembre 2020, n.24471), ha chiarito come l'ospedalizzazione in regime di trattamento sanitario obbligatorio (TS0) per un disturbo mentale costituisce un evento intriso di problematicità, essendo associata ad una presumibile condizione di incapacità del paziente a prestare un valido consenso. Nonostante, dal punto di vista normativo, un paziente sia considerato, secondo una visione dicotomica, capace oppure incapace, la realtà clinica suggerisce che possano esistere degli spazi di autonomia e libertà decisionale residui anche in pazienti sottoposti a TSO.
Secondo i Giudici di legittimità, in tali casi, un approccio di tipo multidimensionale, basato sulla valutazione, nel singolo paziente, della capacità a prestare consenso (mental capacity), costituisce un possibile terreno sul quale ricostruire, all'interno della relazione medico-paziente, un percorso di ripristino della capacità di prestare consenso alle cure. Esistono tuttavia alcune condizioni nelle quali si può prescindere dal consenso del paziente e tra queste, appunto, ci sono le quelle previste dagli artt. 34 e 35 della Legge 833/78 sui Trattamenti Sanitari Obbligatori.
La Corte ha, infatti, ricordato come il Trattamento Sanitario Obbligatorio per malattia mentale prevede che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solamente se sono contemporaneamente presenti tre condizioni, ovvero: a) l'esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; b) la mancata accettazione da parte dell'infermo degli interventi di cui sopra; c) l'esistenza di condizioni e circostanze che non consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra-ospedaliere.
Secondo la Corte, il Trattamento Sanitario Obbligatorio rappresenta, infatti, un evento straordinario - finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente che non deve essere considerata una misura di difesa sociale, che deve essere attivato solo dopo aver ricercato, con ogni iniziativa possibile, il consenso del paziente ad un intervento volontario, e che richiede una specifica procedura, attivata da parte di un medico che verifica e certifica l'esistenza contestualmente:
- dell'avvenuta convalida della proposta da parte di un altro medico, dipendente pubblico, generalmente specialista M psichiatria;
- dell'emanazione da parte del Sindaco dell'ordinanza esecutiva (entro 48 ore);
- della notifica al Giudice Tutelare (entro 48 ore), che provvede a convalidare o meno il provvedimento, comunicandolo al Sindaco.
DANNO DA NASCITA INDESIDERATA
In materia di danno da nascita indesiderata, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, ma include la perdita della possibilità di optare per l’interruzione della gravidanza (sussistendone i presupposti legittimanti), ma anche nell’impossibilità di assumere una serie di altre scelte finalizzate a prepararsi ad affrontare l’evento temuto (la nascita del bambino affetto dalla malformazione), come ad esempio il ricorso per tempo ad una psicoterapia o la tempestiva organizzazione della vita in modo compatibile alle future esigenze di cura del figlio.
Cassazione civile, Sezione III, sentenza 31 gennaio 2023, n. 2798
Il caso sottoposto alla Corte riguardava la richiesta di due genitori di ottenere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, determinati dall’omessa individuazione, durante la gravidanza, della gravissima malformazione (spina bifida) da cui era affetto il feto, con conseguente impedimento alla scelta di procedere all’aborto terapeutico, possibile se si fosse data tempestiva comunicazione della malformazione.
La Corte ha, anzitutto, ritenuto di concordare con il giudice di secondo grado che, correttamente, aveva posto in rilievo la carenza di prove circa la manifestazione da parte della gestante della volontà di abortire in caso di accertamento di gravi malformazioni del feto, non essendo state riproposte in appello le istanze di prova testimoniale dirette a provare tale circostanza.
A questo punto, la sentenza si è addentrata nell’analisi di un’ulteriore pregiudizio pure vantato dagli attori relativo alla domanda di risarcimento dei danni derivanti dalla violazione dell’obbligo di corretta e tempestiva informazione sulle risultanze dell’ecografia, nonché dalla lesione del diritto della gestante all’autodeterminazione, con relativa ripercussione negativa sulla persona del marito.
Vale la pena ripercorrere testualmente il percorso argomentativo contenuto nella decisione in commento che si propone in assoluta continuità con i recenti arresti giurisprudenziali in materia di danno da c.d. consenso informato.
Secondo la prospettiva assunta dalla Corte questo pregiudizio, scartato dal Giudice d’appello, appartiene all’area dei danni risarcibili ricordandosi sul punto quanto previsto dall’orientamento giurisprudenziale in tema di danno da omessa o insufficiente informazione: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguente invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale diverso dalla lesione del diritto alla salute.
Nel caso sottoposto all’esame della Corte, i danni risarcibili (incidenti su un bene giuridico diverso dal diritto alla salute) potrebbero consistere nella perdita della possibilità di optare per l’interruzione della gravidanza (sussistendone i presupposti legittimanti), ma anche nell’impossibilità di assumere una serie di altre scelte finalizzate a prepararsi ad affrontare l’evento temuto (la nascita del bambino affetto dalla malformazione), come ad esempio il ricorso per tempo ad una psicoterapia o la tempestiva organizzazione della vita in modo compatibile alle future esigenze di cura del figlio.
In tema di responsabilità medica, ha proseguito la Suprema Corte, il sanitario che formuli una diagnosi di normalità morfologica del feto anche sulla base di esami strumentali che non ne hanno consentito, senza sua colpa, la visualizzazione nella sua interezza, ha l’obbligo di informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, in vista dell’esercizio del diritto della gestante di interrompere la gravidanza, ricorrendone i presupposti (Cass. 30727/2029). Al riguardo la prova, pur se incombente sulla parte attrice, lamentandosi la mancata informazione da parte del medico, non può che essere di natura presuntiva quanto al grave pericolo per la salute psichica della donna che costituisce la condizione richiesta dalla legge per l’interruzione della gravidanza (Cass. 15386/2011).
In conclusione, la Corte ha sottolineato che il giudice d’appello ha erroneamente omesso di applicare i suddetti principi nonostante i ricorrenti abbiano sollevato la questione relativa alla violazione del consenso informato e del diritto all’autodeterminazione. Inoltre, lo sconvolgimento emotivo al momento della nascita è provato dal riconoscimento di un danno biologico del 15% della madre che è stata privata del diritto non di abortire ma anche di prepararsi consapevolmente ad una nascita malformata con violazione del diritto all’autodeterminazione.
DANNO LUNGOLATENTE
In caso di danno c.d. lungolatente (nella specie, contrazione di epatite C, asintomatica per più di venti anni, derivante da trasfusione), il diritto al risarcimento del danno biologico sorge solo con riferimento al momento di manifestazione dei sintomi e non dalla contrazione dell'infezione, in quanto esso non consiste nella semplice lesione dell'integrità psicofisica in sé e per sé considerata, bensì nelle conseguenze pregiudizievoli per la persona, sicché, in mancanza di dette conseguenze, difetta un danno risarcibile, altrimenti configurandosi un danno "in re ipsa", privo di accertamento sul nesso di causalità giuridica (necessario ex art. 1223 c.c.) tra evento ed effetti dannosi.
Cassazione civile,Sezione III, sentenza 17 febbraio 2023, n. 5119
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha confermato il proprio orientamento in relazione ai danni provocati da un illecito lungolatente, quale quello in esame, derivante dalla trasfusione di sangue infetto verificatasi molti anni addietro rispetto alla proposizione della domanda.
La Suprema Corte, in primo luogo, nell’affrontare tale questione, ha richiamato il proprio precedente secondo il quale il danno biologico non consiste nella semplice lesione dell’integrità psicofisica in sé e per sé considerata, bensì nelle conseguenze pregiudizievoli per la persona, sicché, in mancanza di dette conseguenze, difetta un danno risarcibile, altrimenti configurandosi un danno “in re ipsa”, privo di accertamento sul nesso di causalità giuridici (Cassazione Civile, Sezione III, sentenza n. 25887 del 2 settembre 2022,).
I Giudici di legittimità hanno rilevato, in particolare, che ai fini della stima del danno occorre considerare che:
a) nel danno lungo latente, il nesso tra fatto lesivo e conseguenze pregiudizievoli non e` sincronico ma diacronico, il che significa che il danno-conseguenza si "esternalizza" non gia` immediatamente, bensi` dopo un certo lasso temporale, di durata variabile - e, a volte, anche a distanza di anni - dal fatto illecito;
b) finche´ l'agente patogeno innescato dal fatto illecito non si manifesta, non si realizza alcun danno risarcibile in quanto solo il danno conseguenza costituisce il parametro di determinazione del danno ingiusto.
La Corte ha, poi, affermato che se il risarcimento fosse stato riconosciuto dal ben piu` risalente momento del contagio, il risarcimento del danno biologico si sarebbe risolto in un danno in re ipsa, risarcito, sul piano della causalita` materiale, sotto il profilo meramente eventistico, del tutto a prescindere dal disposto dell'art. 1223 c.c., che quel risarcimento consente esclusivamente in relazione alle conseguenze dannose immediate e dirette dell'evento, sul diverso piano della causalita` giuridica.
Il danno da lesione della salute, invece, per essere risarcibile, deve avere per effetto la compromissione d'una o piu` abilita` della vittima nello svolgimento delle attivita` quotidiane, nessuna esclusa: dal fare, all'essere, all'apparire. Se non avesse alcuna di queste conseguenze, la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno medico- legalmente apprezzabile e giuridicamente risarcibile (cosi`, ex multis, anche sez. III, ordinanza n. 7513 del 27 marzo 2018).
Il danno risarcibile, pertanto, non è costituito dalla sola lesione di un diritto che deve manifestarsi con una perdita concreta, patrimoniale o non patrimoniale. La nozione di danno biologico esclude, infatti, la risarcibilita` del (solo) evento di danno, consentendola, viceversa, a condizione che la lesione della salute abbia esplicato un'incidenza negativa sulle attivita` quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato.
IL CONCORSO DI CAUSALITA’ UMANA E CAUSALITA’ NATURALE
In materia di rapporto di causalità nella responsabilità civile, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., due sono le ipotesi che si possono profilare: se le condizioni ambientali e naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile all’uomo risultano da sole sufficienti a determinare l’evento di danno, l’autore dell’azione o dell’omissione è esonerato da qualsivoglia responsabilità, non avendo posto in essere un antecedente dotato, in concreto, di efficienza causale; al contrario, se le predette condizioni ambientali non sono sufficienti a provocare, senza l’apporto umano, l’evento di danno, allora l’autore dell’azione o dell’omissione risponderà di tutte le normali conseguenze pregiudizievoli, non potendo operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa.
Cassazione civile, Sezione III, sentenza 24 febbraio 2023, n. 5737
Nella sentenza emarginata, la Suprema Corte torna ad affrontare la questione della concorrenza causale, precisando, in particolare, quale sia la rilevanza da accordarsi al fattore umano nella valutazione delle concause di un evento dannoso, alla luce del principio della probabilità prevalente.
Più nello specifico la Corte, ribadendo il proprio consolidato e costante orientamento e richiamando i principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., precisa che qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica sulla quale incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale.
Diversamente, laddove quelle medesime condizioni non possano dare luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità. Secondo la Corte, in queste ipotesi non è possibile operare una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della colpa umana, poiché una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile.
Partendo da tali premesse, la Suprema Corte conclude precisando che a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un eventuale contributo “con-causale” di un fattore naturale (quale che esso sia), non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi ad un ragionamento probatorio “semplificato”, tale da condurre “ipso facto” ad un frazionamento delle responsabilità in via equitativa, con relativo ridimensionamento del “quantum” risarcitorio.
In conclusione, dunque, con tale pronuncia, la Corte – cassando la sentenza d’appello che ritenne di ridurre proporzionalmente il risarcimento dovuto dal responsabile, in considerazione proprio delle asserite pregresse condizioni ambientali in cui versava il danneggiato – non fa altro che richiamare il ben noto principio di equivalenza causale di cui all’art. 41 c.p. secondo cui, nel rapporto causale tra condotta ed evento, deve essere riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell’evento, anche in maniera indiretta o remota, salvo il caso in cui il nesso eziologico risulti interrotto dalla sopravvenienza di un fattore, da solo sufficiente a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.
DANNO DA PERDITA DEL RAPPORTO PARENTALE
Non è risarcibile il danno parentale patito iure proprio dal congiunto della vittima che sia stata unica responsabile del proprio decesso, giacché tale danno presuppone, a monte, l'esistenza di un illecito che abbia colpito la vittima primaria e da cui sia derivato il pregiudizio sofferto dal congiunto
Cassazione civile, Sezione III, sentenza 9 febbraio 2023, n. 4054
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su ricorso di una Compagnia assicurativa condannata dalla Corte d’Appello di Venezia a risarcire il danno da perdita parentale subito da un figlio a seguito del decesso della madre la quale, dopo aver posizionato la leva del cambio automatico dell’automobile in folle, era scesa dalla macchina ed era rimasta schiacciata dalla sua stessa auto contro un cancello, affronta il tema della non risarcibilità del danno parentale nell’ipotesi in cui la vittima sia l’unica responsabile dell’evento.
Secondo la Corte, nel caso oggetto di scrutinio, non possono essere alterati i principi cardine della materia assicurativa che poggiano sulla responsabilità e che non consentono di prospettare un risarcimento per i danni subiti da chi sia stato unico responsabile del sinistro stradale, alla luce del principio generale secondo cui nessuno ha diritto a vedersi riconosciuto il risarcimento dei danni che abbia provocato a sé stesso (quis ex culpa sua damnun sentit, non intelligitur damnum sentire).
La Suprema Corte afferma, quindi, che non è risarcibile il danno parentale patito iure proprio dal congiunto della vittima che sia stata l'unica responsabile del proprio decesso […], giacché tale danno presuppone, a monte, l'esistenza di un illecito che abbia colpito la vittima primaria e da cui sia derivato il pregiudizio sofferto dal congiunto.
Infine, è stato ritenuto non pertinente il richiamo effettuato dalla Corte d’Appello a pronunce che, in applicazione della giurisprudenza comunitaria, avrebbero decretato la prevalenza del diritto alla copertura assicurativa sul principio di responsabilità, in nome del principio vulneratus ante omnia reficiendus, in quanto quelle sentenze riguardano il caso della risarcibilità dei danni arrecati al terzo trasportato deceduto per responsabilità del conducente e non anche il diverso caso del decesso della vittima primaria che sia esclusiva responsabile del medesimo. Del resto, la Corte ricorda come, ai sensi dell'art. 129 del Codice delle Assicurazioni Private, il conducente del veicolo responsabile del sinistro non è considerato terzo e non ha diritto ai benefici derivanti dal contratto di assicurazione obbligatoria.
DANNO DA PERDITA DELLA CAPACITA’ LAVORATIVA O DA PERDITA DI CHANCES LAVORATIVE
La richiesta di risarcimento del danno da invalidità lavorativa specifica o per perdita di chances lavorative non richiede formule sacramentali e può considerarsi formulata anche in assenza di espressa domanda laddove emerga dal contenuto sostanziale dell’atto.
Cassazione civile, Sezione III, sentenza 13 febbraio 2023, n. 4302
Con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione ha chiarito se la domanda di risarcimento del danno da invalidità lavorativa specifica o da perdita di chances lavorative possa ritenersi validamente proposta dalla parte, anche a fronte di una richiesta risarcitoria solo genericamente formulata, laddove vi sia stata, da parte del danneggiato, l’allegazione delle circostanze che ne configurano il relativo danno.
Nella pronuncia in esame, la Corte ha esordito ricordando che nell'esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tener conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del medesimo, nonché del provvedimento in concreto richiesto, non essendo condizionato dalla mera formula adottata dalla parte.
Muovendo da tali premesse, la Corte ha proseguito precisando che anche nell’ipotesi di richiesta di risarcimento del danno da invalidità lavorativa specifica e di perdita di chances lavorative il Giudice, nell’interpretare la domanda, non deve limitarsi a considerare le conclusioni della parte sotto un profilo meramente formale ma deve considerare il contenuto sostanziale dell'atto, compreso ciò che lo supporta, ossia documenti e richieste di altre prove. Se una domanda sia stata proposta e se lo sia stata in modo sufficiente, è questione dunque che si desume dall'intero contenuto dell'atto, non solo dalle espressioni utilizzate.
Applicando tali principi al caso concreto, la Suprema Corte ha, quindi, chiarito che se pure il danneggiato si limiti a richiedere genericamente il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, la domanda specifica di risarcimento dei danni da perdita di capacità lavorativa specifica, e di chance, non può dirsi per ciò stesso assente, qualora, dal contenuto dell'atto, comprese le richieste istruttorie ed i documenti allegati, risulti che il ricorrente intendeva proporla.
ILLECITO SPORTIVO ED ILLECITO CIVILE
Nello sport caratterizzato dal contatto fisico e dall’uso di una quota di violenza la violazione nel corso di attività di allenamento di una regola del regolamento sportivo non costituisce di per sé illecito civile in mancanza di altre circostanze rilevanti ai fini del carattere ingiustificato dell’azione dell’atleta.
Cassazione civile, Sezione III, sentenza 15 Febbraio 2023, n. 4707
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di rapporti fra illecito sportivo ed illecito civile chiarendo in quali ipotesi il ricorso alla violenza dell’atleta, nel caso di violazione di una regola sportiva nel contesto di una disciplina caratterizzata da assai elevato contatto fisico, integri un illecito civile.
La Suprema Corte ha, in primo luogo, evidenziato come nella valutazione della colpa sportiva centrale è "l'analisi della situazione di fatto in rapporto al contesto e allo sviluppo dinamico dell'azione sportiva lesiva".
La Corte ha, dunque, evidenziato come nella pratica sportiva in generale, come affermato dalla giurisprudenza civile, il ricorso alla violenza, nel caso di violazione della regola, si traduce in illecito civile se è tale da non essere compatibile con le caratteristiche proprie del gioco nel contesto nel quale esso si svolge (Cass. n. 12012 del 2002; conformi Cass. n. 20597 del 2004 e n. 11270 del 2018). Nel caso ricorra la detta compatibilità l'illecito sportivo non ha natura di illecito civile perché l'evento di danno trova giustificazione nel riconoscimento che l'ordinamento giuridico compie dell'attività sportiva, confinando nell'ambito dell'ordinamento sportivo la rilevanza dell'illecito di origine sportiva.
Sulla scorta di tali presupposti, i Giudici di legittimità hanno rilevato come l'illecito civile ricorra quando la fattispecie ecceda la qualificazione di illecito meramente sportivo per l'emersione di una sproporzione della violenza adoperata rispetto alle caratteristiche del gioco ed allo specifico contesto attinendo tale quid pluris sia alle modalità del fatto, sia al requisito soggettivo, rilevante non solo sotto il profilo del dolo, come è evidente, ma anche della colpa, la quale acquista, alla stregua di colpa generica, la consistenza di regola cautelare di prudenza e diligenza, non riducibile quindi alla mera inosservanza della regola sportiva prevista dal regolamento della federazione in questione.
L'illecito civile, secondo i Giudici, non può, dunque, essere desunto dall'entità delle lesioni (Cass. n. 3284 del 2022), ma dalla evidenziata eccedenza dell'illecito civile rispetto all'illecito sportivo, ovvero dalla rottura del confinamento dell'illecito nei margini della pratica sportiva perché l'azione si presenta come non funzionale allo scopo sportivo o comunque non compatibile con quest'ultimo.
Tali considerazioni risultano, secondo la Corte, applicabili anche alla disciplina sportiva “a violenza necessaria”, poiché anche nel campo di uno sport caratterizzato da un contatto fisico assai elevato si pone la questione di un uso della violenza sproporzionato rispetto alla violenza postulata dalla disciplina sportiva e tale da renderla estranea allo scopo sportivo dipendendo la presenza dell'illecito civile da un esercizio sproporzionato della violenza, in violazione del parametro della diligenza e prudenza, avuto riguardo alle caratteristiche della disciplina ed al particolare contesto in cui si è svolta la specifica pratica sportiva.
Nel caso, in particolare, di sport da combattimento la Corte ha riferito, quindi, che anche l'allenamento, benché mancante del profilo agonistico, è connotato dal contatto fisico e dall'uso della forza, per cui la soglia di tolleranza della violenza resta più elevata rispetto all'allenamento di uno sport a violenza soltanto eventuale e nel quale la componente dell'impatto fisico dovrebbe trovare maggiore giustificazione nelle modalità agonistiche, estranee all'allenamento ritenendo, dunque, che non possa deporre nel senso del carattere sproporzionato dell'uso della violenza nel singolo episodio il mero dato dell'allenamento, dovendo, invece, essere presenti ulteriori circostanze ai fini dell'integrazione dell' "eccesso colposo", quali….. la sproporzione nel livello di abilità fra i due atleti e la natura elementare, e dunque facile controllabilità, della manovra atletica fonte della lesione.
I CRITERI DI LIQUIDAZIONE DEL DANNO MORALE IN CASO DI DANNO BIOLOGICO DI LIEVE ENTITA’
In tema di risarcimento del danno morale è necessario sottrarsi ad ogni prassi di automaticità nel riconoscimento di tale danno in corrispondenza al contestuale riscontro di un danno biologico, attesa l’esigenza di evitare duplicazioni risarcitorie destinate a tradursi in un’ingiusta locupletazione del danneggiato, laddove il danneggiato si sia sottratto ad una rigorosa allegazione e prova di fatti secondari idonei a supportare la prospettata sofferenza di conseguenze dell'illecito rilevabili sul piano del proprio equilibrio affettivo-emotivo.
La possibilità di invocare il valore rappresentativo della lesione psicofisica (in sé considerata come danno biologico) alla stregua di un elemento presuntivo suscettibile di (concorrere a) legittimare, in termini inferenziali, l'eventuale riconoscimento di un coesistente danno morale, dovrà ritenersi tanto più limitata quanto più ridotta, in termini quantitativi, si sia manifestata l'entità dell'invalidità riscontrata, attesa la ragionevole e intuibile idoneità di fatti lesivi di significativa ed elevata gravità a provocare forme di sconvolgimento o di debordante devastazione della vita psicologica individuale (ragionevolmente tali da legittimare il riconoscimento dalla compresenza di un danno morale accanto a un danno biologico), rispetto alla corrispettiva idoneità delle conseguenze limitate a un danno biologico di modesta entità ad assorbire, secondo un criterio di normalità (e sempre salva la prova contraria), tutte le conseguenze riscontrabili sul piano psicologico, ivi comprese quelle misurabili sul terreno del c.d. danno morale.
Al riconoscimento di danni biologici di lieve entità corrisponderà un maggior rigore nell'allegazione e nella prova delle conseguenze dannose concretamente rivendicate, dovendo ritenersi normalmente assorbite, nel riscontrato danno biologico di lieve entità (salva la rigorosa prova contraria), anche le conseguenze astrattamente considerabili sul piano del c.d. danno morale.
Cassazione civile, sezione III, ordinanza 3 marzo 2023, n. 6444
Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di risarcibilità del danno morale, richiamando le proprie precedenti pronunce in tema di liquidazione del danno non patrimoniale e chiarendo quali siano gli specifici oneri di allegazione e prova incombenti sul danneggiato al fine del riconoscimento della predetta voce di danno.
In primo luogo, la Corte ha ricordato che al Giudice del merito incombe l'obbligo di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze in peius derivanti dall'evento di danno, nessuna esclusa, e con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici.
Sulla scorta di tali presupposti, la Suprema Corte ha ritenuto che ai fini liquidatori, si deve procedere a una compiuta istruttoria finalizzata all'accertamento concreto e non astratto del danno, dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, valutando distintamente, in sede di quantificazione del danno non patrimoniale alla salute, le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera interiore (c.d. danno morale, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) rispetto agli effetti incidenti sul piano dinamico-relazionale (che si dipanano nell'ambito delle relazioni di vita esterne), autonomamente risarcibili (Sez. 3, Ordinanza n. 23469 del 28/09/2018, Rv. 650858 - 01).
In particolare, con riferimento all’uso delle presunzioni in tema di danno morale, i Giudici di legittimità hanno precisato che varrà considerare la necessità di sottrarsi ad ogni prassi di automaticità nel riconoscimento di tale danno in corrispondenza al contestuale riscontro di un danno biologico, attesa l'esigenza di evitare duplicazioni risarcitorie destinate a tradursi in un'ingiusta locupletazione del danneggiato, laddove quest'ultimo si sia sottratto a una rigorosa allegazione e prova di fatti secondari idonei a supportare, sul piano rappresentativo, la prospettata sofferenza di conseguenze dell'illecito rilevabili sul piano del proprio equilibrio affettivo-emotivo.
Per la Corte, pur quando rimanga aperta per il danneggiato la possibilità di dimostrare l'eventuale compresenza di conseguenze dannose contestualmente avvertibili, in ipotesi, su entrambi i piani del danno biologico e del danno morale (ossia di diverse conseguenze dannose concretamente coesistenti e correttamente collocabili sui due diversi piani), rimane comunque ferma la necessità che l'interessato abbia a fornire la prova rigorosa, tanto della specifica diversità di tali conseguenze (al fine di evitare duplicazioni risarcitorie), quanto dell'effettiva compresenza di entrambe le serie consequenziali dedotte.
I Giudici di legittimità hanno evidenziato poi che la possibilità di invocare il valore rappresentativo della lesione psicofisica (in sé considerata come danno biologico) alla stregua di un elemento presuntivo suscettibile di (concorrere a) legittimare, in termini inferenziali, l'eventuale riconoscimento di un coesistente danno morale, dovrà ritenersi tanto più limitata quanto più ridotta, in termini quantitativi, si sia manifestata l'entità dell'invalidità riscontrata, attesa la ragionevole e intuibile idoneità di fatti lesivi di significativa ed elevata gravità a provocare forme di sconvolgimento o di debordante devastazione della vita psicologica individuale (ragionevolmente tali da legittimare il riconoscimento dalla compresenza di un danno morale accanto a un danno biologico), rispetto alla corrispettiva idoneità delle conseguenze limitate a un danno biologico di modesta entità ad assorbire, secondo un criterio di normalità (e sempre salva la prova contraria), tutte le conseguenze riscontrabili sul piano psicologico, ivi comprese quelle misurabili sul terreno del c.d. danno morale.
Sulla scorta quindi di quanto sopra osservato, la Cassazione ha stabilito che sul piano probatorio, al riconoscimento di danni biologici di lieve entità corrisponderà un maggior rigore nell'allegazione e nella prova delle conseguenze dannose concretamente rivendicate, dovendo ritenersi normalmente assorbite, nel riscontrato danno biologico di lieve entità (salva la rigorosa prova contraria), anche le conseguenze astrattamente considerabili sul piano del c.d. danno morale.
IL DANNO DA PERDITA DEL CONVIVENTE MORE UXORIO
Il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale, va riconosciuto - con riguardo sia al danno morale sia a quello patrimoniale allorquando emerga la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato - anche al convivente more uxorio del defunto.
Gli elementi indiziari dell’apporto economico stabile e continuativo del convivente deceduto può essere fornita in via presuntiva e gli elementi fattuali che costituiscono indici rilevanti in ordine alla configurabilità di tale situazione produttiva di ricadute giuridicamente rilevanti non possono essere valutati dal Giudice di merito atomisticamente ai fini del ragionamento presuntivo che, viceversa, impone una valutazione complessiva e unitaria di tutte le emergenze precedentemente isolate, così da vagliare i requisiti di gravità, precisione e concordanza in uno sguardo d'insieme e l'uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno, quand'anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, potrebbe rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento.
Cassazione civile, sezione III, ordinanza 28 marzo 2023, n. 8801
La Suprema Corte con l’ordinanza in esame si è pronunciata in tema di risarcimento del danno da perdita del convivente more uxorio.
I Giudici di legittimità hanno, in primo luogo, rilevato due errori di diritto compiuti da parte della Corte di merito riguardanti per un verso il metodo da utilizzare al fine della corretta valutazione del materiale probatorio, che deve essere in questa sede rilevato: acquisita una pluralità di elementi che costituiscono indici rilevanti - nella stessa affermazione e quindi considerazione del giudice di merito - in ordine alla configurabilità di una determinata situazione produttiva di ricadute giuridicamente rilevanti, essi non possono essere poi presi in considerazione atomisticamente, ma devono essere considerati nella loro unitarietà e nella loro interazione l'uno con l'altro e per altro verso riguardanti la configurabilità di una relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale tra il convivente deceduto e la superstite.
Con riguardo al secondo errore di diritto, la Corte ha, infatti, ritenuto che i giudici di merito non avessero tenuto conto quanto già affermato dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento al diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale, che va riconosciuto - con riguardo sia al danno morale sia a quello patrimoniale allorquando emerga la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato - anche al convivente more uxorio del defunto (Cass. Sez. 3 n. 23725 del 2008; Cass. Sez. 3 n. 12278 del 2011).
La Suprema Corte ha, poi, proseguito ritenendo intrinsecamente illogica e del tutto inconciliabile con la rilevanza probatoria del fatto storico l'argomentazione circa "una contribuzione economica alle spese del quotidiano, relative alla gestione/manutenzione dell'alloggio e alle esigenze alimentari " – ritenuta dalla Corte di merito compatibile con la scelta della convivenza fatta dal deceduto, ma non sottintendere al contempo "l'intenzione di mettere in comune le risorse economiche nel contesto della costituzione sostanziale di un nuovo nucleo familiare".
Tale argomentazione è stata, infatti, ritenuta in aperto contrasto con la nozione di convivenza di fatto prevista dalla l. n. 76 del 2016, che all'art. 1, comma 36, definisce i conviventi di fatto come "due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile" e che presuppone l'esistenza dell'elemento spirituale, il legame affettivo e di quello materiale o di stabilità, la reciproca assistenza morale e materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull'assunzione volontaria di un impegno reciproco.
Allo stesso modo, la Corte ha criticato la motivazione dei giudici di merito a proposito della "durata della convivenza e alla sua tendenziale stabilità" nella parte in cui i giudici di merito da un lato hanno evidenziato che "la formazione di un nucleo assimilabile a quello familiare dimostra l'esistenza di un impulso affettivo significativo volto a fondare una scelta certamente di impegno, ma non ne comporta anche una valutazione cristallizzata degli aspetti economici", per, poi, dall’altro lato argomentare sul fatto che entrambi i due conviventi "avevano alle spalle una precedente esperienza matrimoniale" ritenendo tale circostanza di per sé neutra rispetto alla convivenza in essere- e rispetto ai "possibili obblighi di mantenimento" su di loro gravanti e al fatto che il deceduto "(magari, non aveva una casa di proprietà e/o non aveva mantenuto una diversa abitazione presso la quale poter risultare residente, costituendo il luogo di convivenza come domicilio di fatto)" - circostanze indicate dalla stessa Corte territoriale come soltanto probabili, ma non verificate.
I Giudici di legittimità hanno, dunque, ritenuto sussistere una contraddittorietà logica e un vizio di incomprensibilità, oltre che di motivazione, nella conclusione raggiunta dai giudici di merito sulla "non univocità e gravità" degli elementi di fatto valutati per escludere una comunanza di vita "talmente forte e stabilizzata da giustificare il prevedibile apporto stabile economico del primo a vantaggio della seconda" alla luce del fatto che il giudice di appello ha ritenuto sussistente tra i conviventi una "comunione affettiva" caratterizzata da "una contribuzione economica alle spese del quotidiano, relative alla gestione/manutenzione dell'alloggio e alle esigenze alimentari " e dalla "formazione di un nucleo assimilabile a quello familiare (...) volto a fondare una scelta certamente di impegno" ed ha al contempo ritenuto tali elementi obiettivi non idonei a conferire una stabilità relativamente definitiva al rapporto, quale apporto continuativo "talmente forte e stabilizzato" corrispondente a quello che sarebbe stato effettuato in un contesto familiare.
In conclusione, la Corte di Cassazione, accogliendo il primo ed il terzo motivo del ricorso e cassando la sentenza con rinvio, ha ritenuto non apprezzabili i passaggi logici posti alla base del proprio convincimento per ritenere privi di univocità e gravità gli elementi fattuali esaminati.
INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO DI ASSICURAZIONE DELLA RESPONSABILITA’ CIVILE
Un'interpretazione del contratto di assicurazione della responsabilità civile, in virtù della quale la copertura è esclusa se la responsabilità dell'assicurato dovesse sorgere dal fatto del terzo ex art. 1228 c.c., non è coerente con lo scopo del contratto, a meno che quest'ultimo non contenga una espressa clausola di esclusione della copertura in caso di responsabilità dell'assicurato "per fatto altrui" di cui all'art. art. 1228 c.c.
Cassazione civile, sezione III, sentenza 7 marzo 2023, n. 6727
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte, pronunciandosi in tema di interpretazione di un contratto di assicurazione multirischio a copertura sia del trasporto delle cose assicurate sia della responsabilità propria del vettore o subvettore, ha chiarito quali siano le differenze tra l’assicurazione contro i danni e quella della responsabilità civile e tra assicurazione della responsabilità civile per fatto proprio e per fatto altrui.
I Giudici di legittimità, dopo aver censurato ai Giudici di merito un violazione delle lettera del contratto nella parte in cui non era stata ravvisata una duplice copertura della garanzia evocata (ovvero sia per il rischio di danno alle cose sia per il rischio della responsabilità del vettore), ha chiarito come nell'assicurazione di responsabilità civile non ci sono, né sono concepibili, "cose assicurate" in quanto l'assicurazione di responsabilità civile è un'assicurazione di patrimoni, non di cose motivo per il quale sarebbe ovviamente surreale supporre che taluno possa "trasportare con sé" il proprio patrimonio.
Sulla scorta di tale presupposto, la Corte ha rilevato che il contratto assicurato laddove elencava le "cose assicurate", e stabiliva che i danni alle stesse sarebbero stati coperti solo se trasportate direttamente dall'assicurato, era una clausola che per diritto poteva riferirsi solo ed esclusivamente alla copertura contro i danni, non anche alla copertura della responsabilità civile.
La Corte ha poi individuato una specifica violazione da parte dei Giudici di merito degli artt. 1362, 1363 e 1369 c.c. nella parte in cui veniva confusa l’interpretazione del contratto volta a stabilire quale sia l'attività dell'assicurato potenzialmente fonte di danno a terzi, e come tale coperta dal contratto di assicurazione della responsabilità civile e quella volta a stabilire quali siano i soggetti che possano invocare d'una copertura assicurativa stipulata per conto di chi spetta.
Con riguardo a tale profilo, la Suprema Corte ha, infatti, chiarito che l'assicurazione di responsabilità civile può essere stipulata per conto proprio o per conto altrui (art. 1891 c.c.) e in particolare l'assicurazione di responsabilità civile stipulata per conto proprio copre il rischio di impoverimento del contraente; quella per conto altrui copre il rischio di impoverimento di persone diverse dal contraente, a prescindere dal fatto che quest'ultimo debba rispondere del loro operato.
La Corte ha, dunque, escluso che la distinzione tra assicurazione per conto proprio ed assicurazione per conto altrui corrisponda a quella tra assicurazione della responsabilità civile per fatto proprio e assicurazione della responsabilità civile per fatto altrui, in quanto mentre la prima si fonda sulla sussistenza o meno, in capo al medesimo soggetto, della qualità di contraente e di assicurato ovvero si ha assicurazione "per conto altrui" ex art. 1891 c.c. quando il contraente non è il titolare dell'interesse esposto al rischio, ai sensi dell'art. 1904 c.c., mentre si ha assicurazione per conto proprio quando il contraente della polizza è altresì titolare dell'interesse assicurato; viceversa la distinzione tra assicurazione (della responsabilità civile) per fatto proprio e per fatto altrui si fonda sul titolo della responsabilità dedotta ad oggetto del contratto, ovvero nel primo caso (assicurazione della r.c. per fatto proprio) l'assicuratore copre il rischio di impoverimento derivante da una condotta tenuta personalmente dall'assicurato; nel secondo caso (assicurazione della r.c. per fatto altrui) l'assicuratore copre il rischio di impoverimento dell'assicurato derivante da fatti commessi da persone del cui operato quello debba rispondere.
Sulla scorta di tali premesse, la Corte ha, dunque, concluso riferendo come l'assicurazione della responsabilità civile si dirà dunque per conto proprio od altrui a seconda di quale sia l'interesse assicurato; si dirà invece per fatto proprio o per fatto altrui a seconda di quale sia il rischio assicurato ritenendo che in virtù della distinzione strutturale tra i due tipi di assicurazione della responsabilità civile, gli stessi possano tra loro cumularsi (ovvero è possibile stipulare sia una assicurazione della responsabilità propria - sia per fatto proprio che per fatto altrui - sia una assicurazione della responsabilità altrui -sia per fatto dell'assicurato, che per fatto di persone del cui operato l'assicurato debba rispondere).
La Corte ha, poi, censurato l’interpretazione fornita dalla Corte di Appello con riguardo alla definizione dei soggetti che potevano, nel caso sottoposto alla sua attenzione, ritenersi contrattualmente “dipendenti” dell’assicurato, ritenendo anche in tale caso confusa da parte dei giudici di merito l’assicurazione di cose e l’assicurazione di responsabilità civile, in quanto la definizione di "dipendenti" è stata ritenuta avere lo scopo di delimitare il rischio della copertura contro i danni (ex art. 1900 c.c.), ma non anche la copertura della responsabilità civile.
Infine, i Giudici di legittimità hanno censurato la pronuncia di merito sia nella parte in cui veniva esclusa la copertura assicurativa per il fatto del subvettore alla luce del fatto che in polizza erano analiticamente indicati i furgoni impiegati dell'assicurato ma non quelli di eventuali subvettori, sia sul presupposto che assicurato fosse solo il vettore e non il subvettore, in quanto il contratto pur formalmente stipulato per conto di chi spetta attribuiva solo al vettore il potere di gestire le trattative, ritenendo che anche sotto tali profili i giudici di merito avessero confuso l’assicurazione contro i danni con l’assicurazione della responsabilità civile.
In definitiva, la Corte ha ritenuto fondato il ricorso sul presupposto di una violazione degli artt. 1362 e 1369 c.c. per avere la Corte d’appello:
a) fatto leva su clausole contrattuali dettate e concepibili solo con riferimento all'assicurazione contro i danni, per interpretare la copertura della responsabilità civile, prevista nella medesima polizza;
b) confuso l'assicurazione della r.c. altrui ex art. 1891 c.c., con l'assicurazione della r.c. propria per fatto altrui, e fatto discendere l'insussistenza della seconda dall'accertata mancanza della prima.
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