Newsletter maggio 2022
Limiti al potere del giudice di liquidazione delle spese processuali
Cassazione civile, sezione II, ordinanza n. 14198 del 5 maggio 2022
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione si occupa della tematica della liquidazione delle spese processuali ex D.M. n. 55 del 2014 e, nello specifico, della possibilità per il Giudice di merito di liquidare gli onorari in misura superiore e/o inferiore ai valori medi tabellari e di discostarsi dalla nota spese depositata dalla parte vittoriosa.
Anzitutto, la Corte ha osservato che, ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, art. 5, ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività prestata, dell'importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell'affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate. In ordine alla difficoltà dell'affare si tiene particolare conto dei contrasti giurisprudenziali, e della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti.
La Corte ha, inoltre, ritenuto che in tema di liquidazione delle spese processuali ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, l'esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo, non è soggetto a sindacato di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo.
Infine, la Corte ha individuato un limite al potere del giudice di liquidazione dei compensi alla parte vittoriosa, rilevando che quando la parte presenta la nota delle spese, secondo quanto è previsto dall'art. 75 disp. att. c.p.c., specificando la somma domandata, il giudice non può attribuire alla parte, a titolo di rimborso delle spese, una somma di entità superiore.
La decorrenza e la sospensione della prescrizione assicurativa in caso di assicurazione per la responsabilità civile verso terzi e di assicurazione contro gli infortuni
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 9245 del 22 marzo 2022
Con la sentenza in commento, la Corte affronta la tematica della decorrenza e sospensione della prescrizione assicurativa in caso di assicurazione per la responsabilità civile verso terzi e di assicurazione contro gli infortuni.
Con riferimento all'assicurazione per la responsabilità civile, la Cassazione ha stabilito che la prescrizione inizia a decorrere solo da quando il terzo danneggiato ha chiesto il risarcimento, e il relativo termine rimane sospeso fino all'accertamento del credito a mezzo di perizia contrattuale. Il terzo cui fa riferimento la norma è il terzo danneggiato nella responsabilità civile, non un qualsiasi terzo che effettui la denuncia in luogo del danneggiato per l'assicurazione per i danni, come nel caso di specie.
Viceversa, nel caso di assicurazione contro gli infortuni, il termine di prescrizione è annuale, ai sensi dell'art. 2952 c.c., comma 2 (è divenuto biennale, per le fattispecie successive all'entrata in vigore della norma, solo a seguito della modifica normativa introdotta dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 22, comma 14, convertito con modificazioni, nella L. n. 221 del 2012), e torna a decorrere, nel caso in cui alla tempestiva denuncia all'assicuratore abbia fatto seguito la comunicazione dell'assicuratore della non indennizzabilità dell'evento, dal giorno di tale comunicazione.
Se l’assicuratore sociale rimane silente, l’assicuratore r.c.a. è legittimato a presumere che il danneggiato non sia stato indennizzato e sia ancora titolare dell'intero credito risarcitorio
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 14981 dell’11 maggio 2022
Con la sentenza in commento, la Cassazione si occupa dei limiti al diritto di surroga dell’Assicuratore sociale nei diritti del danneggiato verso il responsabile civile in caso di sinistro stradale e, in particolare, della presunzione ope legis operante nel caso in cui l’Assicuratore non manifesti la propria volontà di surrogarsi all’assicuratore della r.c. auto, entro 45 giorni dalla comunicazione prevista dall’art. 142, co.2, del Codice delle Assicurazioni Private.
Anzitutto, la Corte rileva che la vittima di un fatto illecito, quando sia stata indennizzata dall'Inail, perde la titolarità del credito risarcitorio, che si trasferisce ope legis in capo all'assicuratore sociale che ha pagato l'indennizzo, a partire dal momento in cui quest'ultimo abbia manifestato la volontà di surrogarsi.
Dopodiché, la Suprema Corte osserva che nel caso in cui la vittima di un fatto illecito percepisca un indennizzo da parte di un ente gestore dell'assicurazione sociale vanno tenuti distinti tre ordini di rapporti giuridici, che fanno capo a tre soggetti distinti: a) il rapporto giuridico avente ad oggetto il pagamento dell'obbligazione aquiliana, intercorrente tra danneggiato e responsabile (ovvero, in tema di assicurazione della r.c.a., tra il danneggiato da un lato, il responsabile e il suo assicuratore dall'altro); b) il rapporto giuridico avente ad oggetto il pagamento dell'indennizzo da parte dell'assicuratore sociale, di cui sono parti il danneggiato e l'assicuratore sociale; c) il rapporto giuridico avente ad oggetto l'azione recuperatoria spettante all'assicuratore sociale nei confronti del responsabile e del suo assicuratore della r.c.a.. Il terzo di questi tre rapporti giuridici è alternativo rispetto al primo: l'assicuratore sociale, infatti, indennizzando la vittima le subentra nella titolarità del credito risarcitorio verso il responsabile, fino alla concorrenza dell'importo pagato (art. 1916 c.c.).
Concludendo il proprio ragionamento, secondo la Corte nel caso in cui l'assicuratore della r.c.a. abbia diligentemente richiesto all'assicuratore sociale se intenda surrogarsi, senza ricevere risposta nei 45 giorni, la legge equipara tale silenzio ad una risposta negativa. Passato tale termine, pertanto, l'assicuratore della r.c.a. è legittimato a presumere ope legis che l'assicuratore sociale non abbia pagato alcun indennizzo alla vittima, dovrà altresì presumersi che quest'ultima sia rimasta titolare dell'intero credito risarcitorio. Ricorrendo tali circostanze, l'assicuratore della r.c.a. nel risarcire la vittima adempie la propria obbligazione nelle mani di un soggetto che appare creditore dell'intero risarcimento, in virtù di una presunzione legale, e tale pagamento esonera l'assicuratore della r.c.a. dal suo debito nei confronti dell'assicuratore sociale che volesse tardivamente surrogarsi.
Nel rapporto interno tra la struttura e il medico, nel regime anteriore alla L. 24 del 2017, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva del medico deve essere ripartita in misura paritaria
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 12965 del 26 aprile 2022
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione si occupa della tematica della ripartizione della responsabilità tra struttura sanitaria e medico in un caso di malpratice sanitaria anteriore alla introduzione della L. 24 del 2017 c.d. Legge Gelli Bianco.
Anzitutto, la Corte osserva che in tema di responsabilità medica questa Corte (Cass., 11/11/2019, n. 28987, Cass., 29/10/2021, n. 29001), pronunciandosi riguardo al regime anteriore alla L. n. 24 del 2017, ha chiarito che la responsabilità della struttura sanitaria, integra, ai sensi dell'art. 1228 c.c., una fattispecie di responsabilità diretta per fatto proprio, la quale trova fondamento nell'assunzione del rischio per i danni che al creditore possono derivare dall'utilizzazione di terzi ausiliari nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale, e che dev'essere distinta dalla responsabilità indiretta per fatto altrui, di natura oggettiva, in base alla quale l'imprenditore risponde, per i fatti dei propri dipendenti, a norma dell'art. 2049 c.c..
Pertanto, nel rapporto interno tra la struttura e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa di quest'ultimo deve essere ripartita in misura di regola paritaria secondo il criterio presuntivo dell'art. 1298 c.c., comma 2 e art. 2055 c.c., comma 3, atteso che, diversamente, l'attribuzione di un diritto di regresso ovvero rivalsa integrale ridurrebbe il rischio d'impresa, assunto dalla struttura, al solo rischio d'insolvibilità del medico convenuto, in ipotesi, con l'azione di rivalsa, distinta, quest'ultima da quella propriamente di regresso che presuppone la nascita di un'obbligazione, avente il medesimo titolo, in capo ai condebitori solidali a seguito dell'integrale adempimento dell'obbligazione originaria da parte di uno di essi.
Il chirurgo non può limitarsi all’esecuzione dell’intervento ma deve procedere ad un’attenta informazione del paziente circa il doveroso “follow up” da seguire
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 13509 del 29 aprile 2022
Con la sentenza in esame, la Cassazione si occupa del delicato tema degli obblighi informativi gravanti sul medico chirurgo in merito al percorso di guarigione del paziente.
La Corte osserva che l'attività del medico chirurgo non può essere limitata all'intervento di cui risulta essere stato incaricato ma deve ritenersi estesa, in coerenza con la compiutezza della sua prestazione e in relazione alla correlata esigenza di tutela della salute del paziente, alle informazioni per il doveroso "follow up" prescritto dai protocolli ovvero comunque, (…) fatto proprio come corretto dalla comunità scientifica in relazione alla specifica diagnosi (…) effettuata nel caso concreto.
La Corte ha, infatti, evidenziato che lo stesso chirurgo, quale dipendente della struttura vincolata al contratto di spedalità, deve ritenersi appartenente, lui per primo, al collettivo dei medici tramite cui quella agisce per adempiere lo specifico impegno negoziale, senza che sia possibile sezionare, a fini di
esenzione e senza sinergie funzionali alla tutela della salute, le responsabilità inerenti a quell'adempimento;
L’evocazione del termine “equipe” nella sentenza impugnata è stata, dunque, ritenuta riferibile ai sanitari tramite cui l'azienda incaricata avrebbe dovuto dare seguito alla propria obbligazione negoziale, senza che possa essere espunto, da quelli, proprio il professionista che ha eseguito l'intervento, in primo luogo per fornire al paziente le necessarie informazioni e le istruzioni successive. ; né, poi, l'eventuale corresponsabilità di ulteriori professionisti può escludere, per una ragione prima logica che giuridica, quella del chirurgo sul punto.
Liquidazione del danno da perdita del feto: non si applicano né le tabelle del Tribunale di Milano, né quelle del Tribunale di Roma
Tribunale di Padova, sentenza n. 883 del 4 maggio 2022
Con la sentenza in esame il Tribunale di Padova si pronuncia in tema di liquidazione del danno iure proprio da perdita del feto, ritenendo di poter riconoscere ai congiunti del feto il ristoro della sola perdita di chance relativa alla mancata costituzione del rapporto parentale sperato.
Il Tribunale, in primo luogo, osserva come la liquidazione della predetta voce di danno non possa che avvenire in via equitativa, apprezzando tutte le circostanze del caso concreto e senza alcun automatismo, con richiamo di massima alla quantificazione prevista per i casi di lesione di un rapporto parentale già costituito, da diminuirsi peraltro in ragione del fatto che nel caso di specie ci si confronta con una relazione ancora in parte potenziale e solo parzialmente strutturatasi, di per sé inidonea a sovvertire l’agenda quotidiana dei danneggiati in maniera così pregnante come nel caso in cui fosse deceduto un soggetto vivente e con il quale l’interazione personale si fosse ulteriormente approfondita.
Sul punto, il Tribunale ha ritenuto non potersi fare riferimento né alle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano per la perdita del congiunto in quanto gli Ermellini ne hanno escluso l’utilizzo dal momento che le medesime si limitano ad individuare un tetto minimo ed un tetto massimo, fra i quali ricorre una significativa differenza, in assenza di una qualsiasi indicazione di criteri determinati volti a stabilire in concreto quale importo debba essere liquidato nelle singole fattispecie (Cass. 10.11.21 n. 33005) né a quelle predisposte dal Tribunale di Roma le quali presentano a giudizio dello scrivente ulteriori problemi operativi, dal momento che, per un verso, appaiono francamente squilibrate in eccesso, nei loro valori di base, per quanto attiene alla liquidazione del danno (il quale in Italia raggiunge cifre di gran lunga superiori a quelle liquidate negli altri paesi dell’Unione Europea), venendo a prevedere risarcimenti che, anche nelle ipotesi caratterizzate da una perdita del rapporto parentale limitata a pochi anni di vita, come nel caso di soggetti particolarmente anziani, partono da cifre estremamente ragguardevoli, mai comunque inferiori ad una somma che si aggira intorno ad € 250.000,00.
Il Giudice di merito ritiene, inoltre, che per procedere alla liquidazione di tale voce di danno è necessario tenere conto del tipo di sofferenza psicologica patita dalla vittima in questi casi, caratterizzata da un dolore assai più intenso nel breve e poi destinato a scemare in maniera via via più decisa nel corso degli anni.
Tale aspetto, quindi, secondo il Tribunale di Padova, induce a fondare il ristoro del pregiudizio sulla individuazione di un valore base del punto di sofferenza, diverso per singole categorie di parenti, da moltiplicare poi per gli anni di rapporto famigliare residuo sottratti al godimento del sopravvissuto, tenendo conto dell’aspettativa di vita media del soggetto, tra i due, in astratto meno longevo (cioè a dire, se muore il padre, gli anni da conteggiare in favore del figlio sarebbero quelli della aspettativa media residua di vita del genitore al momento del decesso), computati sulla base delle più recenti tavole di mortalità predisposte in proposito dall’ISTAT e seguiti da una diminuzione del 20% del valore del punto base una volta trascorso il primo quinquennio dal decesso del de cuius, del 25% del valore del punto così diminuito per il periodo successivo al quindicesimo anno dalla morte e sino al trentesimo e di un ulteriore 50% per il periodo successivo a tale ultima data.
La responsabilità della struttura sanitaria per i danni invocati "iure proprio" dai congiunti di un paziente danneggiato (o deceduto) è qualificabile come extracontrattuale
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 14471 del 6 maggio 2022
Con la sentenza in commento, la Corte si è pronunciata in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno iure proprio dei congiunti del danneggiato.
La Corte di Cassazione, rigettando il ricorso, ha ribadito il proprio orientamento maggioritario secondo il quale è erroneo l'assunto che i congiunti del paziente danneggiato in ambito sanitario possano fruire del termine prescrizionale decennale correlato alla responsabilità contrattuale medica; è pacifico, infatti, che la responsabilità della struttura sanitaria per i danni invocati "iure proprio" dai congiunti di un paziente danneggiato (o deceduto) è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall'altro i parenti non rientrano nella categoria dei "terzi protetti dal contratto", potendo postularsi l'efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l'interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch'esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale" (Cass. n. 21404/2021), come avviene specificamente nel contratto concluso dalla gestante con riferimento alle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione (cfr., in senso conforme, Cass. n. 14615/2020, Cass. n. 14258/2020 e Cass. n. 5590/2015, non massimata).
Danno da cose in custodia: l’utilizzo delle strutture presenti in un parco giochi non è di per sé attività pericolosa e presuppone un obbligo di vigilanza da parte degli adulti
Cassazione civile, sezione IV-3, ordinanza n. 12549 del 20 aprile 2022
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di danno da cose in custodia in relazione ad un’asserita caduta di una bambina all’interno di un parco comunale per la presenza di una sostanza oleosa su un gioco.
La Corte, ritenendo inammissibile il ricorso, ha sul tema richiamato il proprio orientamento giurisprudenziale, già "ratio decidendi" della sentenza impugnata, secondo il quale l'utilizzo delle strutture esistenti in un parco giochi - a meno che non risulti provato che le stesse erano difettose e, come tali, in grado di determinare pericoli anche in presenza di un utilizzo assolutamente corretto" - non si connota, di per sé, "per una particolare pericolosità, se non quella che normalmente deriva da simili attrezzature, le quali presuppongono, comunque, una qualche vigilanza da parte degli adulti", i quali, "in un parco giochi", devono "avere ben presenti i rischi che ciò comporta, non potendo poi invocare come fonte dell'altrui responsabilità, una volta che la caduta dannosa si è verificata, l'esistenza di una situazione di pencolo che egli era tenuto doverosamente a calcolare" (così, in particolare, Cass. Sez. 3, sent. 25 agosto 2014, n. 18167).
Il rigoroso onere della prova del caso fortuito in capo al custode
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 13729 del 2 maggio 2022
Con la sentenza in esame, la Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di onere probatorio del caso fortuito incombente sull’Ente locale in caso di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c.
Sul tema, la Corte ha richiamato sia la propria ordinanza n. 8811 del 12 maggio 2020 con la quale è stato evidenziato l’obbligo in capo al custode, presunto responsabile, di provare l'esistenza del caso fortuito, sia la propria sentenza n. 456 del 2021 con la quale è stato confermato che il danneggiato deve limitarsi a provare il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, spettando al custode la prova cd. liberatoria mediante dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia avente impulso causale autonomo e carattere di assoluta imprevedibilità ed eccezionalità.
Pertanto, secondo la Corte la decisione impugnata è risultata errata nella parte in cui è stato affermato che la condotta del danneggiato integrasse di per sé il caso fortuito perché l'avvallamento era percepibile per la sua dimensione e per l'orario in cui era avvenuto il sinistro. […]in quanto alla luce appunto della giurisprudenza sopra indicata, il Comune avrebbe dovuto prevenire l'avvallamento certamente presente ed intrinsecamente pericoloso, non avendo provato che si fosse appena creato. Ragionando diversamente, tutti i custodi di strade potrebbero permettersi di lasciarle non riparate a tempi indefiniti, ovvero astenersi dalla custodia, perché gli avvallamenti possono essere percepiti materialmente da chi passa nelle ore luminose del giorno, soltanto negli orari notturni "risorgendo" la custodia.
Limiti alla risarcibilità del danno sofferto dal nipote per la morte del nonno
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 12987 del 26 aprile 2022
Con la sentenza in commento, la Corte ha affrontato il tema della risarcibilità del danno patito dal nipote infante per la morte del nonno rimasto vittima di un incidente stradale.
Anzitutto, la Corte qualifica tale tipologia di danno come un danno futuro rilevando che per molti anni la Cassazione per evitare che l'incoscienza dell'infante impedisse di ammettere una sofferenza d'animo, si ricorreva all'espediente del danno futuro: non può soffrire oggi, ma soffrirà quando avrà coscienza della perdita, ed ovviamente la dissociazione temporale tra il fatto illecito ed il pregiudizio che ne segue non impedisce la rilevanza del danno, non essendo connaturale a quest'ultimo la contestualità con l'azione lesiva (Cass. 1079 del 1974; Cass. n. 2731 del 1968). Quell'espediente era una conseguenza del fatto che l'unica ipotesi di danno non patrimoniale rilevante, quando quella giurisprudenza si è formata, era il danno morale soggettivo: cosi che il danno futuro, ossia la dissociazione temporale tra fatto lesivo e ripercussione dannosa, costituiva un rimedio di politica del diritto alla eventualità che all'infante, non patendo immediatamente sofferenza per la perdita, venisse negato risarcimento, pur potendo invece quella sofferenza prodursi in seguito.
Infatti, per il danno futuro possono ipotizzarsi due diverse configurazioni: il danno virtuale e quello eventuale. Il primo dei due è un danno certo al momento del fatto illecito, ma destinato ad avere ripercussioni nel futuro. Esempio di tale ipotesi è l'invalidità permanente, la quale esiste già al momento della lesione, ma è destinata a prolungarsi in seguito. Caratteristica del pregiudizio futuro virtuale è di essere suscettibile di stima e valutazione immediate. Il danno futuro eventuale è invece un danno che al momento del fatto illecito non si sa se si verificherà in futuro. E' un danno ipotetico. Ad esempio, la costruzione di un parco di divertimenti adiacente ad una abitazione potrebbe in futuro far perdere valore all'immobile, e così la perdita del nonno al momento in cui il nipote è in tenerissima età potrebbe comportare una sofferenza morale quando quest'ultimo avrà l'età per avvertirla. Di conseguenza, mentre nel caso di danno virtuale l'incertezza attiene al tempo entro cui il danno si manifesterà, o a quanto esso durerà, nel danno eventuale l'incertezza riguarda proprio la sopravvenienza stessa del pregiudizio. Il danno futuro dell'infante, la sua futura sofferenza per la perdita attuale del nonno, è dunque un danno eventuale che non può essere ritenuto rilevante ora per allora. Medesima conclusione può assumersi per la perdita del rapporto parentale, ossia per il caso in cui il pregiudizio in capo all'infante sia visto nei termini di perdita del congiunto.
Sulla base di tali premesse, la Corte ha ritenuto che la perdita del rapporto parentale è pregiudizio rilevante solo per il congiunto che di tale rapporto sia parte, ovviamente non in senso formale, ma che lo sia nel senso di poter trarre dal rapporto le "utilità" che esso offre: reciproco affetto, solidarietà, comunanza familiare, la cui natura presuppone naturalmente una certa capacità di trarre beneficio da quel rapporto, di averne le "utilità" che offre e che l'illecito fa perdere definitivamente. E che l'infante non ha. Se si può ammettere, in astratto, una eventuale sofferenza postuma, non si può ammettere un godimento postumo dei beni che il rapporto familiare consente.
Il ricorso alla psicoterapia per superare un lutto è un tipico mezzo per l’elaborazione della perdita non idoneo a giustificare una personalizzazione del danno
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 14549 del 9 maggio 2022
Con la sentenza in commento, la Corte si è pronunciata in tema di personalizzazione del danno biologico, in particolare, valutando se le sedute di psicoterapia costituiscano o meno un rimedio eccezionale al danno, idoneo a giustificare una maggiorazione del risarcimento.
La Cassazione ha, dunque, rilevato che nel caso in esame la Corte di appello ha ritenuto anormale il recupero del lutto, rispetto a ciò che normalmente avviene, sulla base di una indicazione del consulente tecnico che ha previsto che il superamento di quello stato non potesse avvenire con il semplice passare del tempo, ma solo attraverso l'aiuto di una psicoterapia.
Tuttavia, la Corte ha ritenuto che così facendo […] ha violato le regole di personalizzazione del danno, in quanto, al contrario, il ricorso alle terapie non comporta un eccezionale rimedio al danno, integrando piuttosto una tipica situazione di elaborazione del lutto. Era invece necessario motivare la ragione per cui il ricorso a quelle sedute di psicoterapia costituisce nella fattispecie, una eccezionale condizione rispetto a quelle che normalmente conseguono all'illecito (Cass. 25164/2020).
Infortunio sul lavoro: la prova del collegamento fra la condotta del datore di lavoro e la morte del dipendente è onere specifico dell'accusa
Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 15155 del 20 aprile 2022
Con la sentenza in commento, la Corte si è pronunciata in tema di imputazione causale dell’evento morte al datore di lavoro, in caso di decesso del dipendente, avvenuto a distanza di oltre quattro anni dall’infortunio sul lavoro.
Secondo la Corte, per dare soluzione al quesito posto, è necessario affrontare il tema della verifica dell'imputazione causale dell'evento, riferendosi, tuttavia, in questo caso, all'evento morte, non essendo contestato che la condotta del ricorrente abbia cagionato le gravissime lesioni riportate dalla persona offesa (che nel caso di specie avevano condotto il dipendente in stato di coma vegetativo), a causa dell'infortunio, determinatosi per una serie di condotte omissive dell'imputato.
Nel caso di specie, il punto di approdo cui è giunta la giurisprudenza di questa Corte, è segnato dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, secondo cui il nesso causale va ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica-, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa, l'evento non si sarebbe verificato. A ciò aggiungendosi, nondimeno, che l'ipotesi accusatoria sulla sussistenza del nesso causale non può trovare automatica conferma solo sulla considerazione del coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto, in modo che all'esito del ragionamento probatorio, una volta esclusa l'interferenza di fattori eziologici alternativi di produzione dell'evento (Sez. U, Sez. U, Sentenza n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138; Sez. 4, Sentenza n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943; Sez. U, sentenza n. 38343 del 24.04.2014, Espenhahn, 261106). Il riscontro della ricorrenza del nesso causale fra la condotta dell'imputato e l'evento deve, dunque, operarsi attraverso un doveroso giudizio controfattuale, ovverosia quell'operazione logica che, eliminando dalla realtà (contro i fatti) la condizione costituita da una determinata condotta umana, verifica se il fatto oggetto del giudizio sarebbe egualmente accaduto, con la conseguenza che nell'ipotesi di indifferenza della condotta nella produzione dell'evento, deve escludersi che essa ne costituisca una causa, mentre, al contrario, laddove senza quella condotta l'evento non si sarebbe prodotto essa è condizione causale dell'evento.
Pertanto, nel caso di specie, il nodo da sciogliere - essendo indubbio che l'infortunio produsse nella vittima uno stato di coma vegetativo - riguarda esclusivamente il decesso, collocatosi ad anni di distanza dalla condotta, e coincide con la verifica della sussistenza di una serie causale alternativa, innescante un rischio nuovo e diverso da quello attivato dalla condotta. E ciò, perché l'eventuale diversità dei rischi interrompe e separa la sfera di responsabilità del garante (datore di lavoro) dall'evento prodottosi, quando una qualunque circostanza - in questo caso l'eventuale instaurarsi di una patologia del tutto indipendente dalle lesioni riportate - radicalmente esorbitante rispetto al rischio che egli è chiamato a governare, inneschi una nuova ed autonoma serie causale.
In definitiva, nel caso di specie la Corte ha ritenuto tale indagine indispensabile in quanto diversamente da quanto ritenuto dal giudice di primo grado, non smentito sul punto dalla Corte di appello, non può incombere sull'imputato, al quale non compete l'onere di dimostrare la sussistenza di una serie causale alternativa, essendo la prova del collegamento fra la condotta e la morte onere specifico dell'accusa.
L'abbagliamento da raggi solari del conducente del veicolo non integra un caso fortuito
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 18748 del 12 maggio 2022
Con la sentenza in esame, la Cassazione è chiamata a pronunciarsi in tema di omicidio stradale ex artt. 589 bis e ter c.p. e, in particolare, circa la possibilità o meno che l’abbagliamento da raggi solari del conducente del veicolo integri un caso fortuito idoneo ad escludere la responsabilità dello stesso.
La Corte, per risolvere la questione, ha richiamato un indirizzo giurisprudenziale consolidato secondo il quale, l'abbagliamento da raggi solari del conducente di un automezzo non integra un caso fortuito e perciò non esclude la penale responsabilità per i danni che ne siano derivati alle persone. In una tale situazione, infatti, il conducente è tenuto a ridurre la velocità e anche ad interrompere la marcia e ad attendere di superare gli effetti del fenomeno impeditivo della visibilità (Sez. 4, Sentenza n. 17390 del 21/02/2018, Compagnone, Rv. 272647. Si vedano anche: Sez. 4, n. 10337 del 01/06/1989, Barberio, Rv. 181837 e Sez. 4, n. 8928 del 16/06/1992, Barlati, Rv. 191826), rigettando il ricorso del ricorrente.
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