10.2021

Regolamentazione delle spese di lite: vi è soccombenza reciproca se la richiesta inadeguata rispetto a quella accolta ha costretto la controparte ad una maggiore spesa per oneri processuali di quella che avrebbe sostenuto se la domanda fosse stata contenuta nel giusto

Cassazione civile, sezione VI-1, ordinanza n. 24645 del 13 settembre 2021

 

Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione affronta la tematica della regolamentazione delle spese di lite, ed in particolare, della possibilità attribuita al Giudice di compensare le spese tra le parti in caso di soccombenza reciproca.

 

La Suprema Corte ha, in primo luogo, affermato che la nozione di soccombenza reciproca che consente la compensazione parziale o totale delle spese processuali sottende - anche in relazione al principio di causalità - una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero l'accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero una parzialità dell'accoglimento anche meramente quantitativa, riguardante una domanda articolata in unico capo. In quest'ultimo caso, per ravvisare la reciproca soccombenza è necessario che la richiesta, rivelatasi inadeguata rispetto a quella accolta, abbia costretto la controparte ad una spesa per oneri processuali maggiore di quella che avrebbe sostenuto se la domanda fosse stata contenuta nel giusto.

 

La Cassazione rileva, tuttavia, che in caso di accoglimento parziale della domanda il giudice può, ai sensi dell'art. 92 c.p.c., compensare in tutto o in parte le spese sostenute dalla parte vittoriosa, ma questa non può essere condannata neppure parzialmente a rifondere le spese della controparte, nonostante l'esistenza di una soccombenza reciproca per la parte di domanda rigettata o per le altre domande respinte, poiché tale condanna è consentita dall'ordinamento solo per l'ipotesi eccezionale di accoglimento della domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa.

 

 

Il ricorso per accertamento tecnico preventivo ex art. 696 bis c.p.c. deve contenere l’esposizione delle domande (e/o eccezioni) cui l’accertamento tecnico è preordinato

Tribunale di Treviso, ordinanza 23 giugno 2021

 

Nell’ordinanza in commento il Tribunale di Treviso specifica quali siano i requisiti di ammissibilità del ricorso per accertamento tecnico preventivo ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c, con riferimento, in particolare, all'indicazione da parte del ricorrente delle domande che si intendono proporre poi nel successivo giudizio di merito.

 

Il Tribunale adito, nel caso in esame, ha, dunque, dichiarato il ricorso inammissibile, in quanto nell'atto introduttivo non era stato fatto alcun riferimento alle domande di merito che il ricorrente intendeva proporre. Secondo il giudice adito, infatti anche nel procedimento per ATP è necessario che il ricorso contenga, seppure sommariamente, l’esposizione delle domande (o delle eccezioni) cui l’accertamento tecnico è preordinato, posto che devono essere chiari i rapporti tra l’acquisizione della prova tecnica e il successivo giudizio di merito. È necessario, dunque, se si utilizza questo strumento per prevenire o risolvere una controversia altrimenti probabile che il procedimento preventivo sia coordinato con quello di merito affinché da un lato non vengano perdute le possibilità di conciliazione se queste effettivamente sussistono e, dall’altro, non siano pregiudicate le aspettative di difesa della parte convenuta.

 

Secondo il Tribunale, in particolare, la richiesta di mero accertamento della colpa dei sanitari non è sufficiente a integrare lo schema di cui all’art. 696 bis cpc, dato che tale norma richiede anche “la relativa determinazione dei crediti”, che è infatti l’effettivo elemento funzionale alla composizione della lite. A tal fine non può nemmeno tenersi in considerazione la documentazione prodotta, come la richiesta di risarcimento dei danni inviata dal ricorrente e la consulenza tecnica di parte, in quanto l’indicazione della domanda di merito deve essere necessariamente contenuta nel ricorso introduttivo, ben potendo essere diversa da quella evincibile dall’interpretazione dei documenti.

 

Assicurazione per la responsabilità civile: le clausole polisenso vanno interpretate contro il predisponente

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 25849 del 23 settembre 2021

 

Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si occupa dei criteri di ermeneutica utilizzabili nell’interpretazione del contratto di assicurazione per la responsabilità civile nel caso in cui questo contenga clausole c.d. polisenso.

 

In particolare, nel caso in esame oggetto di interpretazione era una clausola che escludeva dal novero dei soggetti che potevano essere considerati terzi danneggiati "il coniuge, i genitori, i figli delle persone di cui al punto a), gli altri parenti ed affini con loro conviventi, nonché gli addetti ai servizi domestici".

 

Ribadendo quanto già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la Suprema Corte rileva che, nell'interpretazione del contratto di assicurazione, che va redatto in modo chiaro e comprensibile, il giudice non può attribuire a clausole polisenso uno specifico significato, pur teoricamente non incompatibile con la loro lettera, senza prima ricorrere all'ausilio di tutti gli altri criteri di ermeneutica previsti dagli artt. 1362 c.c. e ss., e, in particolare, a quello dell'interpretazione contro il predisponente, di cui all'art. 1370 c.c. (Cass. Civ., 668/2016; Cass. Civ., 10825/2020).

 

La ratio dell’art. 1370 c.c. è, infatti, che se la clausola è predisposta da un solo contraente, la scarsa chiarezza del testo va imputata a costui, non avendo l'altro dato alcun contributo alla redazione ovvero, in sostanza, tutela l'affidamento del contraente che non ha redatto, ossia il significato che legittimamente costui si aspettava dalla clausola. Ciò, ovviamente, a condizione che sussista un dubbio: ossia che, in base alle regole di interpretazione correnti (testuali, sistematiche, ecc.), siano ricavabili almeno due significati possibili; che è ciò che rende il significato non univoco e giustifica la tutela del contraente cui la clausola è "imposta".

 

 

E’ esclusa la rendita INAIL in favore dei superstiti se l’attività lavorativa del de cuius non eccedeva la normale tollerabilità e adattabilità

Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza n. 23894 del 3 settembre 2021

 

Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in merito alla richiesta di riconoscimento di una rendita avanzata nei confronti dell’INAIL dai superstiti di un lavoratore deceduto a causa di un’ischemia cardiaca insorta nel medesimo giorno nel quale sul posto di lavoro lo stesso aveva sostenuto un grosso sforzo per trasportare della mobilia a spalla.

 

La Suprema Corte preliminarmente ribadisce l'ormai consolidato principio secondo cui l'azione violenta che, T.U. n. 1124 del 1965, ex art. 2, può determinare una patologia riconducibile all'infortunio protetto deve operare come causa esterna, che agisca con rapidità e intensità, in un brevissimo arco temporale, o comunque in una minima misura temporale, non potendo ritenersi indennizzabili come infortuni sul lavoro tutte le patologie che trovino concausa nell'affaticamento che costituisce normale conseguenza del lavoro (Cass. nn. 14119/2006 e 17649/2010).

 

In particolare, nel caso di specie, la Corte ha rigettato il ricorso rilevando come i Giudici di merito avessero escluso la riconducibilità del decesso del lavoratore ad una causa di lavoro, valorizzando sia la circostanza che costui fosse "un soggetto di giovane età, in buone condizioni di salute e senza alcuna predisposizione morbosa" sia che non risultasse accertato "alcun elemento che potesse qualificare l'attività lavorativa ordinaria così come quella svolta nel giorno del decesso come eccedente la normale tollerabilità ed adattabilità, al punto da potersi ravvisare un rapporto diretto tra lavoro e decesso".

 

In caso di menomazione pregressa la liquidazione del danno biologico va effettuata con la tecnica del c.d. danno differenziale

Cassazione Civile, sezione III, sentenza n. 27265 del 7 ottobre 2021

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta la tematica della liquidazione del danno alla salute nel caso in cui il danneggiato sia affetto da menomazioni preesistenti "concorrenti" con il maggior danno causato dalla malpractice sanitaria.

 

Secondo la Cassazione, i Giudici di merito, nel caso di specie, non correttamente distinguendo tra causalità materiale e causalità giuridica, hanno addebitato alla struttura sanitaria adita nella liquidazione del danno alla salute, l'intero danno biologico conseguente alla perdita dell'integrale apparato riproduttivo da parte della paziente, senza considerare che, in ragione della malattia, parte di esso doveva necessariamente essere asportato [...] e che quindi il danno biologico effettivamente subito andava calcolato con la tecnica del danno differenziale, ponendo a carico della ASL solo l'evento della quale poteva essere ritenuta responsabile, in base alla considerazione che l’intervento demolitivo non necessario era stato eseguito non su un apparato genitale completo di una persona sana, ma su un corpo già di necessità inciso in maniera consistente, a causa della malattia.

 

A tal proposito, la Cassazione ribadisce il consolidato principio secondo cui, in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, ove si individui in un pregresso stato morboso del paziente/danneggiato […] e nell'intervento chirurgico correttamente eseguito per asportare la parte del corpo irrimediabilmente compromessa altrettanti antecedenti privi di interdipendenza funzionale con l'accertata condotta colposa del sanitario [...], ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell'unica e complessiva situazione patologica riscontrata, allo stesso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l'evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce il contegno del sanitario, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire […] solamente ad una delimitazione del "quantum" del risarcimento. In questo modo, in presenza di concause, il danneggiante sarà chiamato a rispondere delle sole conseguenze dannose a lui ascrivibili sotto il profilo della causalità giuridica (Cass. 15991/2011; Cass. 24204/2014; Cass. 27524/2017; Cass. 20829/2018; Cass. 28986/2019; Cass. 17555/2020; Cass. 514/2020).

 

La Suprema Corte fornisce, infine, indicazioni circa il criterio da utilizzare per calcolare il quantum del risarcimento qualora ad una patologia o una menomazione preesistente se ne aggiunga una determinata dall'illecito, che con essa concorre. A tal proposito richiama i principi recentemente affermati per la liquidazione del danno c.d. differenziale secondo i quali in tema di liquidazione del danno alla salute, l'apprezzamento delle menomazioni preesistenti "concorrenti" in capo al danneggiato rispetto al maggior danno causato dall'illecito va compiuto stimando, prima in punti percentuali, l'invalidità complessiva, risultante cioè dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall'illecito, poi stimando quella preesistente all'illecito, convertendo entrambe le percentuali in una somma di denaro, e procedendo, infine, a sottrarre dal valore monetario dell'invalidità complessivamente accertata quello corrispondente al grado di invalidità preesistente.

 

In conclusione, il danneggiante potrà essere ritenuto responsabile unicamente del differenziale tra questi due valori, avendo dato luogo solo a quel "segmento" di danno, e solo in relazione a tale "segmento", così individuato potrà il giudice legittimamente esercitare il suo potere-dovere di personalizzare il danno in relazione alle circostanze del caso concreto, prendendo a base di calcolo il parametro costituito dalla differenza tra i due valori (Cass. 28896/2019).

 

La liquidazione del danno non patrimoniale in relazione all’aspettativa di vita del danneggiato

Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 26118 del 27 settembre 2021

 

Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta diverse tematiche di rilievo in materia di responsabilità da malpractice sanitaria tra cui, in particolare, quello della liquidazione del danno non patrimoniale nel caso in cui il soggetto danneggiato abbia un’aspettativa di vita ridotta.

 

La Suprema Corte, nello stabilire se nella liquidazione del danno biologico permanente, si debba commisurare il risarcimento, sempre e comunque, alla durata media della vita in astratto, desunta dalle statistiche mortuarie; oppure si debba avere riguardo alla speranza di vita in concreto della vittima, quand'anche ridotta rispetto alla media proprio in conseguenza del fatto illecito, da atto dell’esistenza in materia di due orientamenti giurisprudenziali contrapposti:

- un primo orientamento, secondo il quale nella liquidazione del danno alla salute la scelta del valore monetario del punto d'invalidità deve essere effettuata senza tenere conto della minore speranza di vita futura che il danneggiato potrà avere, in conseguenza del sinistro; diversamente, infatti, il danneggiante verrebbe a beneficiare di una riduzione del risarcimento tanto maggiore quanto più grave è il danno causato (Cass. 5881/2000);

- un secondo orientamento, secondo il quale, nella liquidazione del danno alla salute deve tenersi conto non già della speranza di vita media, ma della concreta aspettativa di vita della vittima, quand'anche quest'ultima sia stata ridotta proprio dal fatto illecito; questo perché nella liquidazione del danno biologico permanente occorre tenere conto del tempo durante il quale il danneggiato dovrà presumibilmente convivere con la sua menomazione; tuttavia, della ridotta speranza di vita il giudice può tenere conto ai fini della c.d. "personalizzazione" del risarcimento del danno biologico permanente, "sotto il profilo (...) della gravità particolare della lesione, che ha inciso anche sulla capacità recuperatoria, o quanto meno stabilizzatrice, della salute, accelerando la "discesa" verso la morte e rendendo più gravoso quel minus esistenziale che accompagna la residua vita della vittima" (Cass. 16525/2003).

 

La Suprema Corte afferma, dunque, che tra i due orientamenti non vi sia contrasto se non apparente e che essi necessitano solo di essere armonizzati. Secondo i giudici di legittimità, il danno alla salute può consistere anche nel rischio di contrarre malattie in futuro o di morire ante tempus a causa dell'avverarsi del c.d. rischio latente, (i.e. la possibilità che i postumi provochino a loro volta un nuovo e diverso danno, che può consistere tanto in una ulteriore invalidità, quanto nella morte); perciò, di tale rischio si deve tenere conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, secondo le indicazioni della medicina legale.

 

Secondo la Cassazione, ove il grado di invalidità permanente venga determinato tenendo conto del suddetto rischio, la liquidazione del danno biologico dovrà avvenire tenendo conto della (minore) speranza di vita in concreto, e non di quella media, onde evitare di liquidare lo stesso danno due volte. Qualora, invece, del rischio latente non sia stato tenuto conto, del pregiudizio in esame dovrà tener conto il giudice, maggiorando la liquidazione in via equitativa: e nell'ambito di questa liquidazione equitativa non gli sarà certo vietato scegliere il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima: e dunque in base alla vita media nazionale, invece che alla speranza di vita del caso concreto. Quel che unicamente rileva, ai fini della legittimità della decisione, è che il giudice di merito dia conto dei criteri seguiti tanto nel determinare il grado di invalidità permanente, quanto nel monetizzarlo in via equitativa.

 

Danno da perdita del rapporto parentale: la sofferenza morale dei genitori costituisce l’aspetto più significativo da prendere in considerazione per il risarcimento

Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 26301 del 29 settembre 2021

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di risarcimento del danno da morte del feto, evidenziando, in particolare, la differenza tra danno dinamico-relazionale e danno morale soggettivo patito dai genitori.

 

La Suprema Corte osserva innanzitutto che la tutela del concepito ha fondamento costituzionale (artt. 2 e 31 co. 2 Cost) e che il danno da perdita del frutto del concepimento altro non è se non un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale. Vanno, pertanto, applicati sul punto i principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità per cui i componenti del consorzio familiare sono legittimati a far valere una pretesa risarcitoria ex art. 2043 e 2059 c.c., in relazione agli artt. 2, 29 e 30 Cost., nonché ex art. 8 CEDU.

 

Secondo la Cassazione, inoltre, il pregiudizio derivante da perdita o lesione del rapporto parentale si compone di due profili: la sofferenza interiore eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, ulteriore e diversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l'ha subita. Dunque, aspetti come il panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini di vita, conseguenti alla morte del feto in utero, non possono considerarsi affatto come un tipo di danno assolutamente avulso rispetto alla domanda di risarcimento formulata ex art. 2059 c.c. In questi casi, è necessario valorizzare appieno l'aspetto della sofferenza interiore patita dai genitori, poiché la sofferenza morale, allegata e poi provata anche solo a mezzo di presunzioni semplici, costituisce assai frequentemente l'aspetto più significativo del danno de quo.

 

I Giudici di legittimità osservano, infine, che esiste una radicale differenza tra il danno per la perdita del rapporto parentale e quello per la sua compromissione dovuta a macrolesione del congiunto rimasto in vita - caso nel quale è la vita di relazione a subire profonde modificazioni in pejus -, differenza che rileva da un punto di vista qualitativo/quantitativo del risarcimento; alla luce di ciò, il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza, non la relazione.

 

La liquidazione del danno iatrogeno differenziale in caso di percezione per il medesimo pregiudizio dell’indennizzo da parte dell’INAIL

Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 26117 del 27 settembre 2021

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla liquidazione del c.d. danno differenziale, cioè del credito risarcitorio vantato dalla vittima di un fatto illecito la quale, per lo stesso titolo, abbia già percepito un indennizzo dall'assicuratore sociale.

 

La Suprema Corte ricorda sul punto che i pagamenti effettuati dall'assicuratore sociale riducono il credito risarcitorio vantato dalla vittima del fatto illecito nei confronti del responsabile, quando l'indennizzo abbia lo scopo di ristorare il medesimo pregiudizio del quale il danneggiato chiede di essere risarcito (Cass. SS.UU. n. 12566/2018) e, dunque, il credito risarcitorio, per effetto del pagamento da parte dell'assicuratore sociale, si trasferisce ope legis dal danneggiato all'assicuratore, secondo le norme che disciplinano nel caso concreto l'istituto della surrogazione (e dunque, a seconda delle ipotesi, l'art. 1203 c.c., oppure l'art. 1916 c.c., od ancora il D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 11).Per effetto del pagamento dell'indennizzo, il danneggiato, quindi, perde la titolarità attiva dell'obbligazione per la parte indennizzata, mentre il credito risarcitorio residuo [...] nei confronti del terzo responsabile (e cioè il c.d. danno differenziale) andrà determinato col criterio c.d. "per poste" (o "voci") di danno: vale a dire sottraendo l'indennizzo Inail dal credito risarcitorio solo quando l'uno e l'altro siano stati destinati a ristorare pregiudizi identici.

 

La Cassazione rileva che, nel caso di infortunio non mortale, l'INAIL non indennizza il danno biologico temporaneo, non accorda alcuna "personalizzazione" dell'indennizzo per tenere conto delle specificità del caso concreto e non indennizza i pregiudizi non patrimoniali non aventi fondamento medico-legale (ovvero i pregiudizi morali). Per questo motivo (a) se l'INAIL ha pagato al danneggiato un capitale a titolo di indennizzo del danno biologico, il relativo importo va detratto dal credito risarcitorio vantato dalla vittima per danno biologico permanente, al netto della personalizzazione e del danno morale (Sez. L -, Sentenza n. 9112 del 02/04/2019, Rv. 653452 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 13222 del 26.6.2015); (b) se l'INAIL ha costituito in favore del danneggiato una rendita, occorrerà innanzitutto determinare la quota di essa destinata al ristoro del danno biologico, separandola da quella destinata al ristoro del danno patrimoniale da incapacità lavorativa; la prima andrà detratta dal credito per danno biologico permanente, al netto della personalizzazione e del danno morale, la seconda dal credito per danno patrimoniale da incapacità di lavoro, se esistente, fatto salvo che in tale secondo caso il diffalco dovrà avvenire con riferimento al danno biologico, sommando e rivalutando i ratei di rendita già riscossi e capitalizzando il valore della rendita non ancora erogata.

 

Secondo i giudici di legittimità, qualora si verifichi un danno iatrogeno differenziale, ovvero nel caso in cui il responsabile abbia soltanto aggravato postumi permanenti che comunque, in minor misura, la vittima non avrebbe potuto evitare, bisognerà procedere, previa monetizzazione dell'invalidità, in questo modo:

a) stabilire la misura del danno-base ( ovvero del danno alla salute non ascrivibile a responsabilità di alcuno) e quella dell'aggravamento […]ascrivibile al fatto colposo dell'uomo;

b) determinare il complessivo indennizzo dovuto dall'Inail, sommando i ratei di rendita già percepiti e capitalizzando la rendita futura, al netto dell'incremento per danno patrimoniale;

c) verificare se l'indennizzo totale sub (b) sia inferiore o superiore al danno base.

Nel primo caso, il responsabile dell'aggravamento sarà obbligato a risarcire quest'ultimo per intero; nel secondo caso il responsabile dell'aggravamento sarà tenuto a risarcire quel che resta sottraendo dall'aggravamento la differenza tra l'indennizzo Inail e il danno-base.

 

 

Danno da esplosione di una caldaia: responsabile non è il fornitore del gas, ma colui che lo utilizza nell’attività che ha causato il danno

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 26236 del 28 settembre 2021

 

Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione fa chiarezza su chi sia il soggetto responsabile in caso di danni riportati a seguito dell’esplosione di una caldaia a gas.

 

Nel caso di specie, i ricorrenti avevano commissionato ad un’impresa la realizzazione di una caldaia a gas per la loro abitazione. Il giorno successivo al collaudo, però, la caldaia era esplosa, facendo crollare l'intera palazzina e cagionando la morte di una persona. I danneggiati avevano perciò agito per il risarcimento del danno nei confronti sia dell'impresa che dell'Eni, quest’ultima per aver fornito il gas impiegato nel collaudo. La Corte d'Appello, tuttavia, in riforma della sentenza di primo grado, aveva escluso la responsabilità dell’Eni, determinando gli attori a promuovere un ricorso in Cassazione.

 

La Suprema Corte, sul punto, osserva che la condotta del venditore del gas non è un antecedente del danno, in quanto tra la vendita e l'utilizzo del gas interviene la condotta di un terzo, ossia il soggetto che usa il materiale per collaudare la caldaia, che è causa efficiente.

 

A tal proposito, la Cassazione ricorda l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui dal momento in cui una cosa, in sé pericolosa, sia dal fabbricante consegnata ad altra persona (nella specie, all'impresa distributrice ed installatrice delle bombole di gas), questa assume un distinto potere di disposizione ed un autonomo dovere di sorveglianza; così che ogni svolgimento di attività da parte del produttore cessa e la presunzione di colpa non grava più su di lui, mentre, correlativamente, si trasferiscono, da quel momento, a carico del consegnatario gli oneri di custodia, di sorveglianza e di prudenza e, con essi, la presunzione di responsabilità di cui all'art. 2050 c.c. con la conseguenza che, in caso di sinistro, incombe a quest'ultimo l'onere di dimostrare che l'evento dannoso si è verificato per caso fortuito ovvero per un vizio intrinseco della cosa, addebitabile unicamente al costruttore. In conclusione, il soggetto responsabile è colui che utilizza il gas nell'attività che ha causato il danno.

 

 

Danno da cose in custodia: il Comune si presume responsabile del sinistro avvenuto nella strada comunale

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 27054 del 6 ottobre 2021

 

Con l'ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di danno da cose in custodia in caso di lesioni riportate a seguito di una caduta in bicicletta cagionata dalla presenza di una buca sul manto stradale.

 

La Suprema Corte afferma che la presunzione di cui alla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 22, (secondo cui "è proprietà dei comuni il suolo delle strade comunali" e "nell'interno delle città e villaggi fanno parte delle strade comunali le piazze, gli spazi ed i vicoli ad esse adiacenti ed aperti sul suolo pubblico, restando però ferme le consuetudini, le convenzioni esistenti e i diritti acquisiti...") costituisce una presunzione di demanialità avente carattere relativo, superabile mediante prova contraria. Si evidenzia che, ai sensi dell'art. 2728 c.c., le presunzioni legali, qual è quella in questione, dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite mentre è onere della parte contro cui esse operano fornire la prova contraria.

 

Secondo la Cassazione, è, quindi, onere del Comune provare di non essere titolare dell'obbligo di custodire il punto della strada in cui è occorso il sinistro.

 

 

Responsabilità civile da circolazione di veicoli: rapporto tra presunzione di colpa del conducente ex art. 2054, comma 1, c.c. e concorso causale della condotta del danneggiato ex art .1227, co.1, c.c.

Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 27515 dell’11 ottobre 2021

 

Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in merito al rapporto tra la presunzione di colpa del conducente di un veicolo investitore, prevista dall'art. 2054 c.c., comma 1 ed il concorso del fatto colposo del creditore previsto ai sensi dell'art. 1227 c.c., comma 1.

 

La Suprema Corte rileva, infatti, che l'art. 2054 co. 1 c.c. dà per presupposta l'esistenza del nesso causale fra la guida del veicolo e il danno a persone o a cose e pone pertanto una presunzione di colpa che può essere superata soltanto dimostrando [...] di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno; tale presunzione di colpa, ove non superata, lascia tuttavia aperta la possibilità di valutare il concorso causale alla produzione del danno della condotta colposa del danneggiato, ai sensi dell'art. 1227 c.c., comma 1 ritenendo che vada data continuità al consolidato principio di legittimità secondo cui "la presunzione di colpa del conducente di un veicolo investitore, prevista dall'art. 2054 c.c., comma 1, non opera in contrasto con il principio della responsabilità per fatto illecito, fondata sul rapporto di causalità fra evento dannoso e condotta umana, e dunque non preclude, anche nel caso in cui il conducente non abbia fornito la prova idonea a vincere la presunzione, l'indagine sull'imprudenza e pericolosità della condotta del pedone investito, che va apprezzata ai fine del concorso di colpa ai sensi dell'art. 1227 c.c., comma 1, ed integra un giudizio di fatto che, come tale, si sottrae al sindacato di legittimità se sorretto da adeguata motivazione" (Cass. n. 24204/2014; conformi Cass. n. 842/2020, Cass. n. 6168/2009, Cass. n. 11873/2007 e Cass. n. 2216/1998).

 

In ogni caso, la Suprema Corte esclude che il conducente sia tenuto a dimostrare la non evitabilità dell’investimento: un siffatto onere risulta in effetti diverso (e più gravoso) da quello chiaramente indicato dall'art. 2054 c.c., comma 1, giacché la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno investe la condotta e il profilo della colpa, mentre la dimostrazione della non evitabilità del danno involge un profilo di incidenza causale della condotta del conducente e comporta un accertamento controfattuale circa il fatto che anche una sua condotta pienamente corretta non avrebbe evitato il danno, con la conseguenza che l'eventuale insufficienza della prova sul punto ricadrebbe sul conducente gravato della presunzione di responsabilità.

 

Responsabilità colposa del medico: il Giudice nell’attribuire l’evento di danno alla condotta colposa del sanitario è tenuto a rendere una adeguata motivazione valutando le linee-guida  o in mancanza le buone pratiche clinico assistenziali a cui si ispira il comportamento doveroso, la natura della colpa e in quale misura la condotta del sanitario si è discostata dalle linee guida

Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 34629 del 20 settembre 2021

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito ai criteri che il giudice penale deve prendere in considerazione nella valutazione della responsabilità colposa del medico, nel caso in cui le condotte censurate allo stesso siano avvenute prima dell’entrata in vigore della Legge 8 marzo 2017, n. 24.

 

Secondo la Suprema Corte, il previgente art. 3, co. 1, D.L. 158/2012 si configura come norma più favorevole rispetto alla disciplina introdotta all’art. 590 sexies c.p. ad opera della L. 24/2017, sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve per imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto (SS.UU. n. 8770/2017); dunque, in caso di fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore della c.d. Legge Gelli, il giudice, ai sensi dell’art. 2 co. 4 c.p., è tenuto ad applicare l'art. 3, co. 1, D.L. 158/2012.

 

La Cassazione afferma, poi, che il giudice di merito investito del compito di pronunciarsi in ordine alla responsabilità dell'esercente una professione sanitaria per l'evento lesivo causato nel praticare l'attività, ove concluda per la attribuibilità del medesimo evento alla condotta colposa dell'imputato, è tenuto a rendere un'articolata motivazione, dovendo, in primo luogo, verificare se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali; in secondo luogo, specificare la natura della colpa (generica o specifica; per imperizia, negligenza o imprudenza), spiegando se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata dalle pertinenti linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali e, più in generale, quale sia stato il grado della colpa.

 

La Suprema Corte evidenzia, infine, come il parametro di valutazione costituito dalle linee-guida e dalle buone pratiche clinico-assistenziali abbia modificato i termini del giudizio penale imponendo al giudice non solo una compiuta disamina della rilevanza penale della condotta colposa ascrivibile al sanitario alla luce di tali parametri ma, ancor prima, un'indagine che tenga conto dei medesimi parametri allorché si accerti quello che sarebbe stato il comportamento alternativo corretto che ci si doveva attendere dal professionista, in funzione dell'analisi controfattuale della riferibilità causale alla sua condotta dell'evento lesivo. Il Giudice adito è tenuto, dunque, ad indicare a quali linee-guida o, in mancanza, a quali buone pratiche clinico-assistenziali si ispira la descrizione del comportamento doveroso ed a valutare il nesso di causa tenendo conto del comportamento salvifico indicato dai predetti parametri in relazione al concreto rischio che si sarebbe dovuto evitare, nonché in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico-assistenziali.

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Mod. ICONT & ndash; Date Update 17/12/2021

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D.P.O. (Data Protection Officer) & ndash; R.P.D. (Data Protection Officer) . May & agrave; also contact the Data Protection Officer for information and requests regarding your data or to report inefficiencies or any problem that may be encountered.

The Data Controller has appointed Mr. Nicola Ghinello as Data Protection Officer who will be able to; contact at the following numbers: telephone +39 348 3165267, e-mail: nicola.ghinello@dpo-rpd.com.

Appointees / Authorized. The updated list of appointees / Authorized to the treatment is; kept at the headquarters of the Data Controller.
 

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For the sake of brevity; the detailed list of these figures is; available at our office.

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