Newsletter settembre 2022
I limiti al potere del C.T.U. di acquisire i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti formulati dal Giudice
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 25604 del 31 agosto 2022
Con la ordinanza in commento, la Corte di Cassazione, richiamando le ultime pronunce delle Sezioni Unite in materia, è tornata ad occuparsi dei limiti al potere del c.t.u. di acquisire dei documenti, non prodotti dalle parti, al fine di rispondere ai quesiti formulati dal Giudice.
La Corte, in primo luogo, ha osservato che sono recentemente intervenute le Sezioni Unite, le quali, con sentenza n. 3086 dell'1/02/2022, hanno affermato che, in materia di consulenza tecnica d'ufficio, il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell'osservanza del contraddittorio delle parti, possa acquisire, anche prescindendo dall'attività di allegazione delle parti - non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a loro carico -, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli.
Tuttavia, gli Ermellini hanno precisato che tale potere è subordinato alla condizione che tali documenti non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d'ufficio.
La parte totalmente vittoriosa nel merito, ma soccombente su questione pregiudiziale di rito e/o preliminare di merito, per devolvere alla cognizione del giudice superiore la questione rispetto alla quale ha maturato una posizione di soccombenza, deve spiegare appello incidentale.
Cassazione civile, sezione II, sentenza n. 26850 del 13 settembre 2022
Con la sentenza in esame, gli Ermellini sono stati chiamati a dirimere il contrasto esistente circa la possibilità per il giudice di appello di rilevare di ufficio la tardività di una domanda riconvenzionale qualora il giudice di primo grado, pur non pronunciandosi sulla tempestività della medesima nonché sull'eccezione di tardività pure sollevata dalle controparti in primo grado ma non in appello, abbia rigettato la domanda nel merito.
La Corte, sul punto, ha rilevato che le soluzioni prospettate dalla giurisprudenza di legittimità non sono univoche.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale là dove si afferma che il mancato esame di una eccezione pregiudiziale di rito astrattamente idonea a precludere l'esame di una domanda che, di fatto, sia stata esaminata dal giudice e rigettata nel merito onera la parte che l'aveva proposta, ancorché vittoriosa nel merito, di proporre appello incidentale, restando quindi preclusa, in mancanza di impugnazione, la possibilità per la parte di riproporre l'eccezione ai sensi dell'art. 346 c.p.c. E' affermato testualmente in sentenza che "Può accadere che il giudice, nel pronunciare nel merito, rigettando la domanda, ometta di decidere su un'eccezione di rito proposta dal convenuto, nel senso che se ne disinteressi completamente. In tal caso il giudice non solo ha violato Part. 276 c.p.c., ma il suo disinteresse, a differenza di quello su un'eccezione di merito, non si presta affatto solo ad una valutazione astratta di infondatezza dell'eccezione ma senza alcuna possibilità di considerarla come effettiva, potendo, come s'e' detto, il giudice solo avere scelto la soluzione più liquida. In questo caso, poiché l'eccezione di rito doveva esaminarsi prima del merito e ne condizionava l'esame, il silenzio del giudice si risolve però - ancorché la sua opinione sull'eccezione di rito non sia stata manifestata e possa in ipotesi essere espressione di scelta della soluzione più liquida - in un error in procedendo, cioè nell'inosservanza della regola per cui il merito si sarebbe potuto esaminare solo per il caso di infondatezza dell'eccezione di rito. La violazione di tale regola, in quanto ha inciso sulla decisione, esige allora una reazione con l'appello incidentale e non la riproposizione dell'eccezione di rito, perché è necessario che essa venga espressa con un'attività di critica del modus procedendi del giudice di primo grado, che necessariamente avrebbe dovuto esaminare l'eccezione di rito" (in tal senso v. anche, Cass. n. 20718 del 2018; Cass. n. 6762 del /2021; Cass. n. 18369 del 2021).
Viceversa a sostegno della rilevabilità officiosa della inammissibilità della "domanda riconvenzionale" tardivamente proposta, non rilevata in primo grado e non dedotta con motivo di gravame, la Corte richiama tra le altre, Cass. n. 7941 del 2020 e Cass. n. 24606 del 2006 che ritiene non preclusa la rilevabilità ex officio da parte del Giudice di appello della decadenza in cui la parte è incorsa in primo grado nella attività di "deduzione probatoria", per inosservanza del termine perentorio assegnato dal Giudice, trattandosi di decadenza "sottratta alla disponibilità delle parti"; infine, nella pronuncia di cui Cass. n. 9297 del 2007, "qualora la questione di proponibilità non sia stata decisa in primo grado e non sia stata rilevata in appello nemmeno dal giudice, essa, ove non implichi un nuovo accertamento od apprezzamento di fatto, può essere prospettata in cassazione".
La Corte, dunque, richiamando il principio di diritto secondo il quale “il potere di rilievo "anche ex officio" dei vizi relativi alla attività processuale, attribuito dalla norma del processo o desumibile dallo scopo di interesse pubblico, indisponibile dalle parti, sotteso alla norma processuale che stabilisce un requisito formale, prescrive un termine di decadenza o prevede il compimento di una determinata attività, deve essere esercitato dal giudice di merito, in difetto di espressa autorizzazione normativa alla rilevazione "in ogni stato e grado" ed escluse le ipotesi di "vizi relativi a questioni fondanti (che rendono l'attività svolta del tutto difforme dal modello legale del processo), al più tardi entro il grado di giudizio nel quale il vizio si è manifestato, rimanendo precluso tanto al giudice del gravame, quanto alla Corte di cassazione, il potere di rilevare, per la prima volta, tale vizio di ufficio (o su eventuale sollecitazione della parte interessata all'esercizio di tale potere officioso), ove la relativa questione non abbia costituito specifico motivo di impugnazione, ovvero sia stata ritualmente riproposta (…)”, ha ritenuto di affermare che la parte totalmente vittoriosa nel merito, ma soccombente su questione pregiudiziale di rito e/o preliminare di merito, per devolvere alla cognizione del giudice superiore la questione rispetto alla quale ha maturato una posizione di soccombenza (teorica), deve spiegare appello incidentale. Ciò impone, sul piano della tecnica processuale, il rispetto dei rigidi dettami di cui all'art. 342 c.p.c. nonché dei tempi di cui all'art. 343 c.p.c., pena l'inammissibilità del gravame ed il conseguente passaggio in giudicato della stessa questione ex art. 329, comma 2, c.p.c.
L’infezione da Coronavirus avvenuta in occasione di lavoro deve essere considerata infortunio sul lavoro a tutti gli effetti e non malattia professionale
Tribunale di Vercelli,sentenza del 3 agosto 2022
Con la sentenza in esame, il Tribunale di Vercelli si è occupato della dibattuta configurazione nei termini di “infortunio” o “malattia” della infezione virale acuta da Covid-19 contratta sul luogo del lavoro nell’ambito delle Assicurazioni private e della relativa indennizzabilità da parte di una polizza infortuni.
Il Tribunale di Vercelli ha preliminarmente ritenuto che - per inquadrare la fattispecie come infortunio o malattia - l'interpretazione del contratto è necessario fare riferimento ai dati normativi tra cui l'art. 42 comma 2 del d.l. 17/3/2020 n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19 19 convertito con modificazioni con la 1. 24/4/2020 n. 27 in G.U. 29/4/2020 n. 110. Supp. Ordinario n. 16), in quanto secondo il Tribunale a seguito dell'introduzione di tale norma, l'infezione da coronavirus avvenuta in occasione di lavoro è quindi considerata infortunio a tutti gli effetti e non malattia professionale, e l'art 2 del d.p.r. 23/6/1965 n. 1124, il quale dispone che sia qualificato quale infortunio sul lavoro l'evento avvenuto per causa violenta, in occasione di lavoro, dal quale sia derivata la morte o l'inabilità permanente al lavoro assoluta o parziale o l'inabilità temporanea assoluta per più di tre giorni.
Il Giudice di merito ha, dunque, evidenziato che in questo contesto di riferimento normativo, l'infortunio sul lavoro sussiste se provocato da una causa violenta in occasione di lavoro ed il carattere esterno della causa dell'infortunio non è espressamente richiesto dalla norma, in quanto la dipendenza dell'ambiente esterno si deduce dall'occasione di lavoro, richiamando sul punto la Circolare INAIL n. 13 del 3/4/2020 con la quale è stato chiarito che nei casi di malattie infettive ...la causa virulenta è equiparata a quella violenta" mentre la malattia professionale è invece inquadrata dall'INAIL come una patologia la cui causa agisce lentamente e progressivamente sull'organismo (causa diluita e non causa violenta e concentrata nel tempo).
Per il giudice, quindi, la linea di demarcazione tra infortunio e malattia viene così individuata nel fatto che la causa ha nel primo le caratteristiche della rapidità e concentrazione, mentre nella seconda ha la caratteristica della non rapidità dell'evolversi, basta pensare, in proposito, ai danni derivanti dalla lavorazione dell'amianto che possono manifestarsi ad anni di distanza dal contatto.
In definitiva, il Giudice ritenendo che nella polizza infortuni invocata la definizione di infortunio (…) ha un carattere del tutto generico e non è precisato cosa si intenda esattamente per causa violenta, con la conseguenza che la relativa definizione, in sede di interpretazione del contratto è ricavabile da altri elementi e che l'assicuratore si è limitato a mantenere la stringata e reiterata nel tempo classificazione di infortunio, senza ulteriori delimitazioni di rischio, ha concluso riferendo che il contratto intendeva chiaramente assicurare anche gli infortuni conseguenti ad infezioni microbiche o virali, come si è prepotentemente dimostrato il COVID-19 e la conseguente pandemia.
Va rilevato che tale pronuncia giunge ad una soluzione diametralmente opposta rispetto a quella adottate in altre pronunce di merito sul tema le quali riconducono – in maniera che si ritiene più condivisibile - l’infezione da Covid-19 nell’alveo della “malattia”, ritenendo l’evento non corrispondente alla concezione di “infortunio” oggetto del rischio dedotto in polizza (si veda sul punto Tribunale di Pesaro, 15 giugno 2021, n. 690; Tribunale di Roma, 30 gennaio 2022, n. 1468; Tribunale di Pescara, 22 marzo 2022, n. 351).
Secondo tale, diverso, orientamento, l’art. 42 del d.l. 17 marzo 2020 resta confinato nel settore normativo delle assicurazioni sociali (INAIL) e non può estendersi al comparto delle assicurazioni private, neppure quale norma di interpretazione autentica (si veda Tribunale di Pescara, 22 marzo 2022, n. 351) trattandosi di polizze stipulate tra privati e, dunque, potendosi applicare alle stesse quali criteri ermeneutici solo quelli fissati dall’art. 1362 ss. c.c. Inoltre, si valuta il fatto che al momento del contagio da Covid -19 non risulta che ci sia stato un fatto traumatico, violento ed esterno - nel senso inteso ai termini di polizza, corrispondente alla concezione di “infortunio” comunemente intesa in quanto se il fatto del contagio fosse già di per sé qualificabile come infortunio - anche in assenza di un quid pluris dato dalle circostanze traumatiche in cui si è verificata la contrazione del virus - si perverrebbe alla conclusione che la contrazione di qualunque malattia virale in qualunque circostanza, costituisca un infortunio rientrante nel rischio coperto dalla polizza-infortuni. Il che sarebbe una forzatura rispetto all’oggetto del contratto (Tribunale di Pesaro, 15 giugno 2021, n. 690).
L’opinione avversa alla sentenza del Tribunale di Vercelli appare, peraltro e correttamente, tenere chiaramente distinte le caratteristiche di una polizza contro il rischio infortuni, ovvero contro quegli eventi dovuti a causa fortuita, violenta ed esterna che provocano lesioni corporali oggettivamente constatabili e che abbiano come conseguenza la morte, una invalidità permanente oppure una inabilità temporanea, rispetto a quelle di una polizza contro il rischio malattia, nelle quali per "malattia" si intendono le alterazioni dello stato di salute che non dipendono da un infortunio, ovvero non attribuibili a una causa esterna, fortuita e violenta.
In un sinistro con più danneggiati, qualora il massimale dell’assicurazione del responsabile non sia sufficiente a coprire l'ammontare dei crediti inclusi quelli di rivalsa dell'assicuratore del vettore, se l'assicuratore del danneggiante ha adempiuto agli obblighi previsti dall'art. 140 cod. ass. non può essere condannato a rivalere l'assicuratore del vettore oltre i limiti del massimale
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 27075 del 14 settembre 2022
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione si è occupata del coordinamento tra l'art. 140 e l'art. 141 cod. ass. che disciplinano da un lato gli obblighi gravanti sull'assicuratore del danneggiante, in un sinistro con pluralità di danneggiati in cui il massimale assicurato non sia sufficiente a coprire l'intero danno e dall'altro l'azione diretta spettante al trasportato nei confronti dell'assicuratore del vettore.
La Corte ha, in primo luogo, osservato che l'art. 140 detta a carico dell'assicuratore del danneggiante l'obbligo di adoperarsi per individuare tutti i possibili danneggiati, e porre a loro disposizione il massimale assicurato, prevedendo che solo in caso di ottemperamento di tali obblighi non potrà essere chiamato a rispondere per un importo superiore a quello del massimale assicurato, e fissa il principio della ripartizione concorsuale del massimale di polizza.
Viceversa l'azione di cui all'art. 141 cod. ass. è (…)una ordinaria surrogazione ex 1203 (o 1916 c.c.), che per risalente ricostruzione dottrinaria e giurisprudenziale costituisce una successione a titolo particolare nel diritto (v. Cass. S.U. n. 8620 del 2015; recentemente, Cass. n. 14981 del 2022): l'assicurazione del vettore sta in giudizio in luogo degli originari creditori ed esercita quello che era il loro diritto, nei limiti in cui ha pagato. Nel giudizio di rivalsa proposto dall'assicuratore del vettore non è necessario, pertanto, disporre l'integrazione del contraddittorio nei confronti del trasportato o dei suoi congiunti, essendo presente in giudizio, in luogo di essi, l'assicurazione del vettore.
Tuttavia, gli Ermellini hanno ritenuto che l'agile strumento dell'azione diretta in favore del trasportato nei confronti dell'assicurazione del vettore, che prescinde dall'accertamento delle responsabilità del sinistro per dare una tutela rafforzata e veloce al trasportato, se legittima l'assicurazione del trasportato ad agire in rivalsa nei confronti dell'assicurazione del danneggiante, non garantisce però a chi agisce in rivalsa il recupero di quanto pagato per l'intero nei confronti dell'assicurazione del danneggiante incondizionatamente, ovvero a prescindere dal limite del massimale. Infatti, la posizione dell'assicuratore che agisce in rivalsa è, appunto, quella di successore a titolo particolare dei creditori del diritto controverso e pertanto l'assicuratore che agisce in rivalsa è sottoposto anch'egli al concorso tra i creditori, tra i quali dovrà essere ripartito il massimale di polizza (a meno che, per responsabilità dell'assicuratore del danneggiante, questi non sia tenuto a rispondere anche oltre il massimale).
Sulla scorta di tali premesse, i Giudici di legittimità hanno affermato che se i crediti di tutti i potenziali danneggiati sommati superino il massimale di polizza, l'assicuratore del danneggiante non potrà essere condannato a rivalere per l'intero l'assicuratore del vettore per gli esborsi sostenuti, per poi andare a ripetere dagli altri danneggiati quanto corrisposto in eccesso, ma i crediti astrattamente spettanti dovranno essere proporzionalmente ridotti nel rispetto del principio della par condicio, dettato dall'art. 140 cod.ass., e sarà l'assicuratore del vettore, ove non riesca a recuperare l'intero esborso, a doversi attivare per l'eventuale restituzione di quanto pagato in eccesso nei confronti dei creditori che ha soddisfatto.
La Corte, cassando con rinvio alla Corte di Appello la sentenza impugnata, ha affermato i seguenti principi di diritto:
- nell'azione di rivalsa ex art. 141 cod. ass. introdotta dall'assicuratore del vettore che ha indennizzato i trasportati e i loro congiunti nei confronti dell'assicuratore del veicolo responsabile, l'assicurazione del vettore si surroga nella posizione dei creditori che ha soddisfatto, dando luogo ad una successione a titolo particolare nel diritto e sottostando al concorso dei creditori;
- qualora il massimale dell'assicurazione del responsabile sia insufficiente a coprire l'ammontare dei crediti inclusi quelli di rivalsa, se l'assicuratore del danneggiante ha adempiuto agli obblighi posti a suo carico dall'art. 140 cod. ass. non può essere condannato a rivalere l'assicuratore del trasportato oltre i limiti del massimale;
- se l'assicuratore del danneggiante di un sinistro stradale non si è adoperato per garantire la presenza in causa di tutti i possibili danneggiati, qualora sia in presente in giudizio anche l'assicurazione del vettore che esercita l'azione di rivalsa ex art. 141 cod.ass., può essere condannato a pagare in rivalsa all'assicurazione del vettore pur sempre nel rispetto del principio del concorso tra i danneggiati presenti in causa - una somma eccedente rispetto al massimale, dovendo poi agire in ripetizione dell'eccedenza nei confronti dei singoli danneggiati già soddisfatti;
-se l'assicuratore del danneggiante si è adoperato per assicurarsi la presenza in giudizio di tutti i potenziali danneggiati, sarà l'assicurazione del vettore che dovrà ripetere dai danneggiati le somme che non riesce a recuperare per esaurimento del massimale.
La liquidazione del danno da lesione del consenso informato
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 26104 del 5 settembre 2022
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha illustrato i confini entro cui il Giudice si deve muovere ai fini del risarcimento in tema di consenso informato.
Gli Ermellini, nell’individuare con la sentenza impugnata una violazione del diritto all'autodeterminazione dei genitori, hanno richiamato il noto precedente giurisprudenziale incluso nel Decalogo di San Martino, ovvero la sentenza 11 novembre 2019 n. 28985 (poi confermata da Cass., 26 maggio 2020, n. 9706 e Cass., 4 novembre 2020, n. 24471), che ha affermato i seguenti principi (cui il collegio intende dare seguito):
1) la manifestazione del consenso del paziente (o genitori se il paziente è minorenne) alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all'autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2,13 e 32, comma 2, Cost.;
2) sebbene l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico (comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute), in ragione dell'unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente - che si articola in plurime obbligazioni tra loro connesse e strumentali al perseguimento della cura o del risanamento del soggetto - non può affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tale da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno; è possibile, invece, che anche l'inadempimento dell'obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e benefici della terapia si inserisca tra i fattori "concorrenti" della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo quindi riconoscersi all'omissione del medico una astratta capacità plurioffensiva, potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di risarcimento qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate specifiche conseguenze dannose;
3) qualora venga allegato e provato, come conseguenza della mancata acquisizione del consenso informato, unicamente un danno biologico, ai fini dell'individuazione della causa "immediata" e "diretta" (ex art. 1223 c.c.) di tale danno conseguenza,occorre accertare, mediante giudizio controfattuale, quale sarebbe stata la scelta del paziente ove correttamente informato, atteso che, se egli avesse comunque prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento (o di cure), la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute, se determinata dalla errata esecuzione della prestazione professionale; mentre, se egli avrebbe negato il consenso, il danno biologico scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile "ab origine" alla violazione dell'obbligo informativo, e concorrerebbe, unitamente all'errore relativo alla prestazione sanitaria, alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno-conseguenza;
4) le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del dirittoall'autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l'onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico eventualità non rientrante nell'id quod plemmque accidit (Cass. 2847/2010 e successive conformi): al riguardo, la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile in re ipsa derivante esclusivamente dall'omessa informazione.
In conclusione, la Corte ha ritenuto di affermare che i confini entro cui ci si deve muovere ai fini del risarcimento in tema di consenso informato sono i seguenti: a) nell'ipotesi di omessa o insufficiente informazione riguardante un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente e al quale è egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi, nessun risarcimento sarà dovuto; b) nell'ipotesi di omissione o inadeguatezza informativa che non abbia cagionato danno alla salute del paziente ma che gli ha impedito tuttavia di accedere a più accurati attendibili accertamenti, il danno da lesione del diritto costituzionalmente tutelato all'autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente alleghi che dalla omessa informazione siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e di contrazione della libertà di disporre di sé, in termini psichici e fisici.
La sentenza penale di assoluzione del sanitario con la formula "perché il fatto non sussiste", esplica piena efficacia di giudicato ostativo di un diverso accertamento di quegli stessi fatti ed è opponibile, ai sensi dell'art. 1306, comma 2, c.c., dalla convenuta struttura sanitaria, debitrice solidale con i medici assolti in sede penale
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 26811 del 12 settembre 2022
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione si è occupata dell’efficacia del giudicato penale di assoluzione del sanitario con la formula "perché il fatto non sussiste” nei successivi giudizi civili e, in particolare, nelle cause civili promosse, in seguito alla definizione del processo penale, nei confronti della Struttura sanitaria ai sensi degli art. 1218 e 1228 c.c..
I Giudici, in primo luogo, hanno evidenziato che il nostro ordinamento non è ispirato al principio dell'unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, avendo il legislatore instaurato un sistema di completa autonomia e separazione fra i due giudizi, salvo limitate eccezioni, tra cui proprio quanto previsto dall'art. 652 c.p.p., ossia l'efficacia di giudicato della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno, ove il danneggiato dal reato si sia costituito parte civile o sia stato posto in condizione di farlo e sempre che non abbia esercitato l'azione in sede civile a norma dell'art. 75, comma 2, c.p.p. risultando essere una scelta rimessa al danneggiato quella di esercitare in sede penale l'azione civile volta alle restituzioni o al risarcimento del danno.
La Corte, dopo aver richiamato diverse pronunce giurisprudenziale in materia, ha affermato che occorre il concorso di tre condizioni perché la sentenza penale di assoluzione possa spiegare effetto di giudicato nel giudizio civile di danno quanto all'accertamento che "il fatto non sussiste". È necessario, pertanto, che: a) la sentenza penale sia stata pronunciata in esito al dibattimento; b) che il danneggiato si sia costituito parte civile, ovvero sia stato messo in condizione di farlo; c) che in sede civile la domanda di risarcimento del danno sia stata proposta dalla vittima nei confronti dell'imputato, ovvero di altro soggetto che abbia comunque partecipato al giudizio penale nella veste di responsabile civile. In altri termini, quest'ultima condizione impone che vi sia coincidenza soggettiva tra le parti del processo penale e quelle del processo civile di risarcimento.
Gli Ermellini, dunque, passando a verificare se il giudicato penale possa avere effetti propri ed immediati, seppur riflessi, anche su parti diverse (ossia la struttura sanitaria) da quelle che abbiano partecipato al giudizio penale (medici imputati assolti e danneggiato parte civile) e se possa operare comunque l'effetto favorevole del giudicato previsto dall'art. 1306, comma 2, c.c., in ragione del rapporto obbligatorio solidale tra la struttura sanitaria e i medici (assolti in sede penale) in essa operanti, hanno ritenuto di dare risposta negativa quanto al primo quesito e positiva in relazione al secondo quesito.
In particolare la Corte ha rilevato come nel caso sottoposto alla sua attenzione il titolo della responsabilità va, dunque, ravvisato (…), non già nell'art. 1218 c.c., bensì nell'art. 1228 c.c., che configura pur sempre una fattispecie di responsabilità contrattuale diretta per fatto proprio e non per fatto altrui, fondata sui "fatti dolosi o colposi" degli ausiliari, la quale trova giustificazione nell'assunzione del rischio per i danni che al creditore possono derivare dall'utilizzazione di terzi nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale.
Gli Ermellini hanno poi continuato rilevando come il positivo accertamento della responsabilità della struttura sanitaria ex art. 1228 c.c. postula, pertanto, l'accertamento del fatto colposo del personale medico ausiliario, ossia "un illecito colpevole dell'autore immediato del fatto" (così Cass., 24 maggio 2006, (OMISSIS)362), in assenza del quale non è ravvisabile alcuna responsabilità contrattuale dell'ente debitore nei confronti del paziente (cfr. anche Cass., 8 maggio 2001, n. 6386). Tuttavia, continuano i Giudici è principio affatto consolidato che la responsabilità della struttura sanitaria per fatto proprio, ex art. 1228 c.c., è autonoma da quella del medico di cui essa si sia avvalsa in qualità di ausiliario, ma entrambi rispondono in via solidale nei confronti del danneggiato, in ragione dell'insorgere dell'obbligazione risarcitoria per l'unicità dell'evento dannoso imputabile a più soggetti; imputabilità che si determina non solo in forza del concorso efficiente delle plurime condotte (attive e/o omissive) nella produzione del danno, ma anche allorquando (come nella specie) uno dei condebitore risponda per il fatto dell'autore immediato del danno (Cass., 13 agosto 1980, n. 4926; Cass., 18 marzo 2005, n. 5024). L'imputabilità dell'unico danno a più soggetti e', quindi, condizione necessaria e sufficiente perché possa ravvisarsi la solidarietà nel debito, sia di fonte contrattuale (art. 1298 c.c.), sia di fonte extracontrattuale (art. 2055 c.c.), non rilevando la diversità dei titoli (che possono pure concorrere tra loro), ma venendo in rilievo i principi che regolano l'imputazione oggettiva dell'evento dannoso, dei quali l'art. 2055 c.c., costituisce un'esplicitazione
Venendo, dunque, al secondo quesito gli Ermellini hanno risposto positivamente ritenendo che non è in discussione che, in riferimento alla posizione del terzo, "i limiti soggettivi di efficacia del giudicato restano disciplinati dalle norme positive" e, tra queste, va annoverata la norma dell'art. 1306 c.c., la quale, in ambito di solidarietà passiva, comporta che il giudicato intervenuto fra il creditore e uno dei debitori solidali "non ha effetto contro gli altri debitori" (comma 1), mentre "gli altri debitori possono opporla al creditore, salvo che sia fondata su ragioni personali del condebitore". In altri termini, in forza dell'art. 1306 c.c. la "presenza della solidarietà passiva impedisce l'effetto del giudicato riflesso, che conseguirebbe al nesso di pregiudizialità-dipendenza, e consente l'operatività del solo giudicato favorevole al terzo" (così Cass. n. 18325/2019). A tal fine, perché possa operare la fattispecie di cui all'art. 1306, comma 2, c.c., occorre anzitutto che il giudizio si sia svolto solo tra il creditore ed uno dei condebitori, potendo opporre il giudicato favorevole al creditore solo gli altri condebitori solidali che non hanno partecipato al giudizio (tra le tante, Cass., 9 gennaio 2019, n. 303).E', altresì, necessario non solo che la sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei coobbligati in solido non sia fondata su ragioni personali del condebitore, ma, altresì, che gli altri condebitori (non partecipi di quel giudizio) abbiano tempestivamente sollevato la relativa eccezione, trattandosi di eccezione in senso stretto, non rilevabile d'ufficio (Cass., 21 dicembre 2011, n. 27906).
La Corte ha, infine, enunciato il seguente principio di diritto: "Nella controversia civile di responsabilità sanitaria, promossa dal danneggiato al fine di ottenere la condanna della struttura sanitaria al risarcimento dei danni, a titolo di responsabilità contrattuale esclusivamente fondata sull'art. 1228 c.c. per il fatto colposo dei medici dei quali si sia avvalsa nell'adempimento della propria obbligazione di cura, la sentenza - pronunciata all'esito di dibattimento nel processo penale al quale abbia partecipato (o sia stata messo in condizione di parteciparvi) soltanto il danneggiato come parte civile e divenuta irrevocabile - che abbia assolto i medici con la formula "perché il fatto non sussiste", in forza di accertamento effettivo sulla insussistenza del nesso causale tra la condotta degli stessi sanitari e l'evento iatrogeno in danno del paziente in relazione ai medesimi fatti oggetto del giudizio civile di danno, esplica, ai sensi dell'art. 652 c.p.p., piena efficacia di giudicato ostativo di un diverso accertamento di quegli stessi fatti ed è opponibile, ai sensi dell'art. 1306, comma 2, c.c., dalla convenuta struttura sanitaria, debitrice solidale con i medici assolti in sede penale, all'attore danneggiato, ove l'eccezione sia stata tempestivamente sollevata in primo grado e successivamente coltivata".
L’indennizzo ex art. 2, comma 3. L. 210/1992 percepito dai familiari in caso di decesso del congiunto causato da emotrasfusioni di sangue infetto deve essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 25827 del 1° settembre 2022
Con l’ordinanza in commento, la Corte si è pronunciata in tema di liquidazione del danno iure proprio ai familiari in caso di decesso del congiunto causato da emotrasfusioni di sangue infetto e di rilevabilità d’ufficio della compensatio lucri cum damno con l’indennizzo una tantum erogato ai familiari nella misura fissata ex lege dall'art. 2, comma 3 della L. 210/1992.
Anzitutto, la Corte ha rilevato che quando, in conseguenza di un fatto illecito, la persona danneggiata ottenga anche un vantaggio patrimoniale, quest'ultimo va defalcato dal risarcimento quando il medesimo soggetto sia tenuto sia al pagamento del risarcimento, sia al pagamento dell'ulteriore vantaggio economico a favore della vittima (Cass. civ. Sez. U, Sentenza n. 584 del 11/01/2008).
Inoltre, l'indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 2, comma 3, spetta agli aventi diritto iure proprio, e non iure hereditatis, come già stabilito da questa Corte multi/, tra le più recenti, Cass. Civ., Sez. Lavoro, n. 26842 del 25/11/2020; Cass. civ Sez. Lavoro, n. 11407 del 11/05/2018).
In conclusione, gli Ermellini hanno ritenuto di affermare che l'orientamento di questa Corte, nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della Salute per il risarcimento del danno conseguente al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, l'indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno quando, "sia stato effettivamente versato o, comunque, sia determinato nel suo preciso ammontare o determinabile in base a specifici dati della cui prova è onerata la parte che eccepisce il "i/fori/m" (Cass. n. 21837 del 2019; Cass. n. 20909 del 2018). Da ciò si deduce che anche le somme non ancora percepite, ma comunque riconosciute, e dunque liquidate e determinabili, al momento della pronuncia, vanno comprese nel calcolo della compensazione (specificamente Cass. n. 31543 del 2018, Cass. civ., Sez. VI - 3, Ord. 31/03/2021, n. 8866).
La liquidazione del danno da perdita del congiunto
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 26440 dell’8 settembre 2022
Con l’ordinanza in oggetto, la Corte ha analizzato i criteri di liquidazione del danno da perdita del prossimo congiunto.
Anzitutto, i Giudici di legittimità hanno affermato che la liquidazione di pregiudizi sine materia come il danno da uccisione d'un prossimo congiunto, secondo l'ormai costante giurisprudenza di questa Corte, può dirsi "equa" - per i fini di cui all'art. 1226 c.c. quando sia compiuta con un criterio che rispetti due principi: a) garantisca la parità di trattamento a parità di danni; b) garantisca adeguata flessibilità per tenere conto delle peculiarità del caso concreto.
La Corte ha evidenziato, infatti, che "Uniformità pecuniaria di base" e "flessibilità" della liquidazione sono dunque i due momenti indefettibili di ogni liquidazione dei pregiudizi non patrimoniali (ex multis, tra le ultime, Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 5865 del 04/03/2021, Rv. 660926 - 01; Sez. 3, Ordinanza n. 18056 del 5/7/2019; Sez. 3 -, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303 01).
Secondo gli Ermellini, il principio della "uniformità pecuniaria di base" viene rispettato quando il Giudice di merito ricorre ad un criterio prestabilito e standard di liquidazione (ad esempio la c.d. "tabella milanese").
Viceversa il rispetto del principio della "flessibilità" della liquidazione esige che: a) si accertino tutte le circostanze di fatto rilevanti nel caso concerto, per quanto dedotto e provato dalle parti: b) si sceverino quelle "ordinarie" da quelle "eccezionali"; c) si attribuisca rilievo soltanto alle seconde, per aumentare o diminuire la misura standard del risarcimento (ex multis, Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 5865 del 04/03/2021, Rv. 660926 - 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 28988 del 11/11/2019, Rv. 655964 - 01).
La Corte ha, quindi, distinto le conseguenze del fatto illecito consistito nell'uccisione d'un parente in ordinarie ed eccezionali ritenendo che andranno reputate "ordinarie" quelle conseguenze che qualunque persona della stessa età, dello stesso sesso e nelle medesime condizioni familiari della vittima, non avrebbe potuto (presumibilmente) non subire. Andranno, invece, reputate "eccezionali", e quindi idonee a giustificare una variazione del risarcimento (beninteso, tanto in aumento quanto in diminuzione), quelle circostanze "legate all'irripetibile singolarità dell'esperienza di vita individuale" (così, testualmente, Sez. 3 -, Sentenza n. 2788 del 31/01/2019, Rv. 652664 - 01; nello stesso senso, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 26118 del 27.9.2021; nonché, diffusamente, Sez. 6 3, Ordinanza n. 32372 del 13.12.2018).
La Corte ha, inoltre, evidenziato che una liquidazione del danno inferiore al minimo tabellare avrebbe dunque presupposto l'accertamento di ulteriori e diverse circostanze di fatto, quali ad esempio l'assenza di un saldo vincolo affettivo, l'esistenza di dissapori intrafamiliari, l'anaffettività del superstite nei confronti del defunto (Sez. 3 -, Ordinanza n. 22859 del 20/10/2020, Rv. 659411 - 01; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 14746 del 29/05/2019, Rv. 654307 - 01).
E’ stato, dunque, affermato il seguente principio di diritto: quando la liquidazione del danno non patrimoniale da uccisione d'un congiunto avvenga in base ad un criterio "a forbice", che preveda un importo variabile tra un minimo ed un massimo, è consentito al giudice di merito liquidare un risarcimento inferiore al minimo solo in presenza di circostanze eccezionali e peculiari al caso di specie. Tali non sono né l'età della vittima, né quella del superstite, né l'assenza di convivenza tra l'una e l'altro, circostanze tutte che possono solo giustificare la quantificazione del risarcimento all'interno della fascia di oscillazione tra minimo e massimo tabellare.
I criteri di liquidazione del danno morale
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 26805 del 12 settembre 2022
Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte è tornata nuovamente ad affrontare la tematica del danno morale e, nello specifico, dei criteri per la sua liquidazione.
In primo luogo, i Giudici, dopo aver censurato l'errore di diritto in cui era incorso il giudice di appello nel riconoscere una ulteriore personalizzazione del danno risarcibile, hanno ribadito che la tripartizione relativa alle componenti del danno non patrimoniale (biologico-morale-esistenziale) è destituita di giuridico fondamento, avendo questa Corte costantemente affermato, a far data dalla sentenza n. 901 del 2018 e successive conformi, che la relativa morfologia è caratterizzata dalla duplice componente, dinamico/relazionale e morale (come confermato normativamente dalla L. 124 del 2017, che ha riformato gli artt. 138 e 139 del C.d.A.).
Gli Ermellini hanno, poi, precisato che nel procedere alla liquidazione del danno alla salute, il giudice di merito dovrà: 1) accertare l'esistenza, nel singolo caso di specie, di un eventuale concorso del danno dinamico-relazionale e del danno morale; 2) in caso di positivo accertamento dell'esistenza (anche) di un danno da sofferenza morale, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano, che preved(eva)ono la liquidazione di entrambe le voci di danno, ma pervenivano, per il danno biologico - prima dell'ultima, necessaria modificazione all'indicazione di un valore monetario automaticamente e complessivamente unitario (costituito dalla somma aritmetica di entrambe le voci di danno); 3) in caso di negativo accertamento, e di conseguente esclusione della componente morale del danno, considerare la sola voce del danno biologico (espressamente ed esclusivamente definito dal legislatore, fin dall'anno 2000, come danno dinamico/relazionale), depurata dall'aumento tabellarmente previsto per il danno morale secondo le percentuali ivi indicate, e liquidando, conseguentemente il solo aspetto dinamico-relazionale del danno; 4) in caso di positivo accertamento dei presupposti per la cd. personalizzazione del danno secondo gli stringenti criteri indicati dalla sentenza 7513/2018, procedere all'aumento fino al 30% del valore del solo danno biologico, depurato, analogamente a quanto indicato al precedente punto 3, dalla componente morale, automaticamente (ma erroneamente) inserita in tabella, giusta il disposto normativo di cui al già ricordato art. 138, punto 3, del novellato codice delle assicurazioni.
Nella liquidazione complessiva del danno non patrimoniale deve tenersi conto altresì delle sofferenze morali soggettive, eventualmente patite dal soggetto
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 27380 del 19 settembre 2022
Con la sentenza in esame, la Corte, sulla scorta dei motivi di ricorso formulati dal ricorrente, ha valutato se le conseguenze anatomo-fisiologiche della lesione della salute costituiscano fattori di cui tenere conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente o della personalizzazione del risarcimento.
Secondo gli Ermellini tale distinzione rileva non solo sotto il profilo teorico, ma nelle sue ricadute pratiche, perché: - il grado di invalidità permanente si determina in base ai barémes, mentre la personalizzazione si effettua in via equitativa; - l'individuazione del grado di i.p. è di competenza del medico legale, la personalizzazione è di competenza del giudice; - il valore monetario del punto di invalidità permanente cresce proporzionalmente al crescere della percentuale di invalidità, mentre la personalizzazione non è governata da un criterio progressivo di proporzionalità con la gravità della lesione.
La Corte, individuando gli errori di diritto commessi dai Giudici di merito, ha affermato che la scissione della componente statica del danno alla persona da quella cosiddetta dinamico-relazionale in caso di invalidità permanente non ha fondamento giuridico né scientifico (la medicina legale da decenni esprime una nozione unitaria dell'invalidità permanente, definendola come la menomazione dell'integrità psicofisica della persona, espressa in termini percentuali e comprensiva degli aspetti personali dinamico-relazionali e della di essa incidenza sulle attività quotidiane comuni a tutti).
Secondo gli Ermellini il Giudice di appello non si sarebbe, infatti, attenuto al principio di diritto in forza del quale al danno biologico corrisponde una nozione unitaria, che tiene conto sia delle alterazioni nella fisiologia della persona riportate a seguito del sinistro sia delle conseguenze che queste alterazioni determinano nel compiere gli atti della vita quotidiana.
Inoltre gli Ermellini, censurando ai Giudici di merito di aver recuperato la rilevanza della componente dinamico-relazionale attraverso la personalizzazione, appiattendola all’interno della liquidazione del danno morale, hanno evidenziato che per provvedere all'integrale risarcimento del danno non patrimoniale da lesione della salute, all'interno del quale si colloca il danno biologico senza esaurire le possibili conseguenze non patrimoniali di un evento dannoso, il danno morale soggettivo deve essere oggetto di autonoma valutazione e liquidazione, in quanto pregiudizio ontologicamente diverso dal danno biologico, consistente in uno stato d'animo di sofferenza interiore che non si identifica con le vicende dinamico relazionali della vita del danneggiato (per quanto ne possa essere influenzato) ed insuscettibile di accertamento medico-legale, non potendo la considerazione della sofferenza interiore patita dal danneggiato incidere unicamente sulla personalizzazione del risarcimento del danno biologico (come già più volte affermato da questa Corte: Cass. n. 27482 del 2018; Cass. n.7126 del 2021; Cass. n. 9006 del 2022). L'affermazione di una nozione unitaria del danno non patrimoniale, effettuata da Cass. S.U. n. 26972 del 2008 allo scopo di evitare la duplicazione di voci di danno, si è nel tempo sviluppata mantenendo il necessario rigore volto ad evitare la creazione di duplicazioni risarcitorie, ma recuperando le varie componenti del danno non patrimoniale nelle loro autonome caratteristiche, cui corrispondono distinti criteri risarcitori.
La Corte ha, infine, affermato i seguenti principi di diritto:
"Il danno biologico è la lesione della integrità psico-fisica subita da una persona, comprensiva delle alterazioni fisio-psichiche, temporanee o permanenti, e della loro incidenza sullo svolgimento delle funzioni della vita e sugli aspetti personali dinamico-relazionali".
"Esso va accertato con criteri medico-legali e valutato in punti percentuali in base ad un accreditato "baréme" medico-legale in cui il valore monetario del punto di invalidità permanente cresce proporzionalmente al crescere della percentuale di invalidità".
"Ai fini della sua unitaria liquidazione, devono formare oggetto di autonoma valutazione il pregiudizio da invalidità temporanea (da riconoscersi come danno da inabilità temporanea totale o parziale ove il danneggiato si sia sottoposto a periodi di cure necessarie per conservare o ridurre il grado di invalidità residuato al fatto lesivo o impedirne l'aumento, inteso come privazione della capacità psico-fisica in corrispondenza di ciascun periodo e in proporzione al grado effettivo di inabilità sofferto), e quello da invalidità permanente (con decorrenza dal momento della cessazione della malattia e della relativa stabilizzazione dei postumi)".
"Ai fini della liquidazione complessiva del danno non patrimoniale, deve tenersi conto altresì delle sofferenze morali soggettive, eventualmente patite dal soggetto in ciascuno degli indicati periodi".
Il giudizio controfattuale in caso di reato omissivo improprio
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 32870 del 7 settembre 2022
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione si è pronunciata in ambito responsabilità medica, chiarendo la modalità di esecuzione del ragionamento controfattuale in caso di reato omissivo improprio.
Gli Ermellini hanno preliminarmente ricordato che il reato omissivo improprio richiede per la sua configurabilità che l'evento si verifichi in conseguenza dell'omissione, in presenza dell'inosservanza di una regola cautelare, l’agente non sempre è del tutto inerte bensì, con frequenza, pone in essere un’azione diversa da quella richeista secondo le regole della comune prudenza, perizia e diligenza o dello specifico precetto che presidiava l’area di rischio in oggetto.
La Corte, nell’individuare nel sanitario la figura di soggetto garante della regola cautelare appropriata, ha ricordato come - ai fini dell’operatività della clausola di equivalenza di cui all’art. 40, co. 2, c.p. - la giurisprudenza di legittimità ha da tempo elaborato la «teoria del garante», valorizzando il significato profondo da riconoscere agli «obblighi di garanzia», discendenti dallo speciale vincolo di tutela che lega il soggetto garante, rispetto ad un determinato bene giuridico, per il caso di incapacità del titolare dello stesso bene di proteggerlo autonomamente (Sez. 4, n. 4793 del 06/12/1990, dep. 1991, Bonetti, in motivazione). Inoltre, per i giudici di legittimità, il soggetto garante ha dei poteri impeditivi che, peraltro, possono anche concretizzarsi in obblighi diversi (per es. di natura sollecitatoria), e di minore efficacia, rispetto a quelli direttamente e specificamente volti ad impedire il verificarsi dell'evento tuttavia, nella gran parte dei casi, i garanti non dispongono sempre e in ogni situazioni di tutti i poteri impeditivi che, invece, di volta in volta si modulano sulle situazioni concrete.
Secondo gli Ermellini l'agente non può rispondere del verificarsi dell'evento se, pur titolare di una posizione di garanzia, non disponga della possibilità di influenzare il corso degli eventi. Per converso, chi ha questa possibilità non risponde se non ha un obbligo giuridico di intervenire per operare la modifica del decorso degli avvenimenti (Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, Catalano, non massimata sul punto).
Sulla scorta di principi la Corte ha ritenuto che nasca la nozione di giudizio controfattuale ("contro i fatti"), che è l'operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell'imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la condotta dell'imputato non costituisce causa dell'evento. Il giudizio controfattuale, pertanto, costituisce il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica. Esso impone di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l'evento, per cui richiede preliminarmente l'accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo (Sez. 4, n. 23339 del 31/01/2013, Giusti, Rv. 256941). Per effettuare il giudizio controfattuale è, quindi, necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all'evento, chiedendosi poi se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta dall'agente, l'evento lesivo sarebbe stato o meno evitato o posticipato (Sez. 4, n. 43459 del 04/10/2012, Albiero, Rv. 255008).
La Corte ha precisato poi che quando uno dei termini della serie è rappresentato da una condotta omissiva, occorre il ricorso ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico, dandosi per verificato il comportamento doveroso omesso e che al fine dell’esclusione del nesso di causalità sia necessario stabilire con certezza o elevata credibilità razionale che, aggiungendo mentalmente la condotta doverosa omessa, l'evento non si sarebbe verificato o si sarebbe verificato con minore intensità lesiva o in un'epoca significativamente posteriore.
Con riferimento alla responsabilità medica è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l'evento lesivo sarebbe stato evitato o differito (Sez. 4, n. 43459 del 2012, cit.).
La Cassazione richiama, infine, quanto stabilito dalle Sezioni Unite (confermato dalla giurisprudenza successiva) le quali hanno enucleato, per quanto attiene alla responsabilità professionale del medico, sotto il profilo eziologico, i seguenti principi di diritto: il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica - si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l'evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, cosicché, all'esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con alto grado di credibilità razionale. L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138).
Ne deriva che, nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l'evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (Sez. 4, n. 30469 del 13/06/2014, Jann, Rv. 262239). Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra l'omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell'intensità della sintomatologia dolorosa (Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, Meloni, Rv. 256338).
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