11.2022

Newsletter novembre 2022

 

 

Nel giudizio instaurato dal terzo trasportato ai sensi dell’art. 141 cod. ass., in caso di assenza di contestazione in ordine all’accadimento storico (all’an) del sinistro, gli altri soggetti coinvolti nel sinistro non sono incapaci a testimoniare in quanto non hanno un “interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”

Corte d’Appello di Venezia, sezione IV, sentenza n. 1731 del 22 luglio 2022                       

 

Con la sentenza in esame, la Corte d’Appello si è occupata di valutare la capacità testimoniale dei terzi trasportati nel giudizio instaurato da altro terzo trasportato, coinvolto nel medesimo sinistro, ai sensi dell’art. 141 C.d.A.

 

La Corte ha, in primo luogo, richiamato quanto stabilito la Cassazione ovvero che “[n]ella controversia instaurata dal terzo trasportato mediante azione diretta ex art. 141 del d.lgs. n. 209 del 2005 non sono incapaci a testimoniare i soggetti coinvolti nel sinistro, ove la compagnia di assicurazioni del trasportante, chiamata a risarcire direttamente il terzo trasportato, non abbia messo in discussione l'incidente quanto al suo reale accadimento in danno dell'attore” (Cass. sez. 3, sent. n. 1279 del 18/01/2019).

 

I Giudici di merito hanno, infatti, affermato che tale conclusione si giustifica in quanto, in caso di assenza di contestazione in ordine all’accadimento storico (all’an) del sinistro, gli altri soggetti coinvolti nel sinistro non hanno un “interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio” (art. 246 c.p.c.) instaurato ex art. 141 cod. ass. dal terzo trasportato. Essi potrebbero, semmai, avere un interesse a fornire una versione “di comodo” in relazione alle concrete modalità del sinistro (al quomodo), ad esempio, nel caso del terzo trasportato, allo scopo di provare la responsabilità concorsuale di due conducenti per beneficiare del cumulo di due massimali assicurativi.

 

Tuttavia, la Corte ha rilevato come nel contesto dell’azione ex art. 141 cod. ass. un’analisi in relazione a tale profilo (al quomodo), non viene in rilievo  in quanto [i]l terzo trasportato, che si avvalga, ai sensi del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 141 dell'azione diretta nei confronti dell'impresa di assicurazioni del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro, deve provare di avere subito un danno a seguito di quest'ultimo ma non anche le concrete modalità dell'incidente allo scopo di individuare la responsabilità dei rispettivi conducenti, trattandosi di accertamento irrilevante ai fini di cui all'art. 141 cit.".

 

Quando la procura forma materialmente corpo con l’atto non è necessario che la stessa contenga una precisa indicazione del giudizio qualora la stessa venga depositata in un unico documento informatico in calce alla comparsa di costituzione.                                                                                                     

Corte d’Appello di Venezia, ordinanza del 19 ottobre 2022                                         

 

Con l’ordinanza in commento, la Corte d’Appello di Venezia si è pronunciata in ordine alla validità della procura alle liti posta in calce alla comparsa di costituzione e risposta del convenuto, qualora la stessa non contenga una precisa indicazione del giudizio cui l’atto fa riferimento.

 

La Corte ha, dunque, osservato come il Tribunale avesse già evidenziato che il procuratore della parte avesse depositato in un unico documento informatico la procura in calce alla comparsa di costituzione, per cui la stessa si doveva ritenere regolarmente conferita essendo tale circostanza sufficiente a dare certezza della riferibilità della procura al giudizio cui l’atto faceva riferimento  ritenendo che al riguardo trova applicazione il principio generale di cui all’art. 83 c.p.c. che consente il rilascio della procura in calce, anche su foglio separato, ma congiunto materialmente all’atto, principio che trova applicazione anche nelle notifiche eseguite in forma telematica.

 

La Corte ha, quindi, ricordato essere principio consolidato che quando la procura forma materialmente corpo con l’atto non è necessario che la stessa contenga una precisa indicazione del giudizio, dichiarando inammissibile l’appello ai sensi dell’art.348 c.p.c..

 

È inammissibile la proposizione di un giudizio di reclamo avverso il provvedimento di rigetto sull’istanza di consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c., qualora difetti l’allegazione del requisito del periculum in mora.                                                                                                           

Tribunale di Bolzano, ordinanza del 3 novembre 2022                                                 

 

Con l’ordinanza in esame, il Tribunale di Bolzano ha evidenziato i limiti alla proponibilità del giudizio di reclamo avverso il provvedimento di rigetto sull’istanza di consulenza tecnica preventiva proposta ai sensi dell’ art. 696 bis c.p.c..

 

Il Tribunale, anzitutto, ha ritenuto di aderire al prevalente orientamento giurisprudenziale di merito che reputa inammissibile la proposizione di un giudizio di reclamo avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c., qualora difetti l’allegazione del requisito del periculum in mora.                                                                                                                                        

 

In seguito, il Giudice di merito ha ricordato che secondo l’opinione largamente prevalente, il procedimento regolato dall'art. 696 bis c.p.c. è finalizzato a favorire la conciliazione di una vertenza e, in ogni caso, a consentire alle parti di precostituire una prova al di fuori del processo di merito, anche in assenza di periculum (Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 12386 del 21/05/2018, Rv. 648719 – 01; Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 5698 del 07/03/2013, Rv. 625381 - 01).

 

Il Tribunale rilevando, dunque, come i mezzi di impugnazione previsti dall'ordinamento siano tassativi, non essendo quindi consentito individuare, in via analogica, strumenti impugnatori diversi da quelli espressamente previsti, ha affermato che il procedimento di reclamo disciplinato dagli artt. 669 terdecies e quaterdecies c.p.c. è accordato unicamente quale rimedio nei confronti di provvedimenti aventi finalità cautelare, come si desume dallo stesso tenore letterale delle disposizioni appena richiamate e come altresì emerge dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 144 del 16.5.2008, che ha affermato la reclamabilità del provvedimento reiettivo dell'istanza di cui all'art. 696 c.p.c. sul presupposto dell'esplicito riconoscimento della natura cautelare della domanda di istruzione preventiva proposta ai in forza di tale disposizione. Ne deriva che il principio espresso in detta decisione del giudice delle leggi non può essere esteso all’accertamento tecnico preventivo con finalità conciliative laddove difetti quantomeno l’allegazione del periculum in mora.

 

Il Giudice di merito ha, quindi, continuato rilevando come in virtù del carattere tassativo dei mezzi di impugnazione, in assenza di specifica disposizione, non può essere ammessa la reclamabilità di provvedimenti non caratterizzati dal requisito dell’urgenza e quindi privi di natura cautelare in senso stretto, non condividendo il principio affermato dalla pronuncia di legittimità richiamata dal reclamante (Cass. Sez. 3 - , Sentenza n. 23976 del 26/09/2019, Rv. 655103 – 01) che ammette la reclamabilità del provvedimento di rigetto di un’istanza ex art. 696 bis c.p.c. – anche in assenza di periculum in mora – stante la natura “latamente cautelare” di tale procedimento

 

Sulla base di tutto quanto sopra osservato, il Tribunale Bolzano ha, quindi, concluso dando continuità all’orientamento di merito prevalente, ribadito anche successivamente alla pronuncia di legittimità appena richiamata (in particolare, Trib. di Mantova, ordinanza d.d. 26.11.2020; Trib. di Reggio Emilia, ordinanza d.d. 20.2.2020; Trib. di Santa Maria Capua Vetere d.d. 15.6.2020), che esclude l’ammissibilità del reclamo avverso il provvedimento di rigetto di una domanda ex art. 696 bis c.p.c., proposta in assenza di periculum in mora.

 

Nei procedimenti di istruzione preventiva ex art. 696 bis c.p.c., per assolvere al proprio onere deduttivo, il ricorrente deve allegare, alla stregua di quanto previsto per il giudizio di merito, le qualificate inadempienze evidenziandone l’efficienza causale rispetto ai danni patiti.

Tribunale di Napoli, ordinanza del 9 novembre 2022                                     

 

Con l’ordinanza in commento, il Tribunale di Napoli si è occupato di specificare i requisiti di ammissibilità della consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c., indicando quali siano gli oneri deduttivi posti a carico di parte ricorrente.

 

In primo luogo, il Tribunale ha osservato come in ogni ipotesi di istruzione preventiva (il procedimento de quo svolge, seppur in via subordinata, una funzione probatoria), l’ammissibilità della consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis c.p.c. è vincolata all’accertamento della sussistenza del fumus boni iuris, e dunque il ricorrente dovrà provare la probabile esistenza del diritto che potrà essere fatto valere nel giudizio di merito, quantomeno in termini di chiara individuazione degli elementi costitutivi della domanda proponenda nel giudizio di merito.

 

Il Giudice di merito ha, poi, proseguito ricordando come sotto lo specifico profilo deduttivo …. anche di recente chiarito dalla Suprema Corte “nelle obbligazioni di "facere professionale", a differenza che nelle altre obbligazioni, la causalità materiale (e cioè il nesso tra condotta ed evento) non è assorbita dall'inadempimento; l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove malattie, così come la perdita della causa nel caso dell'avvocato, possono non dipendere dalla violazione delle leges artis, ed avere invece una diversa eziologia; è onere, quindi, del creditore (nel caso di specie, il paziente danneggiato) provare, anche attraverso presunzioni, la sussistenza del nesso causale tra inadempimento (condotta del sanitario in violazione delle regole di diligenza) ed evento dannoso (aggravamento della situazione patologica o insorgenza di nuova malattia, cioè lesione della salute); è quindi onere del detto creditore provare il nesso di causalità materiale, in quanto detto nesso (ove venga allegato l'evento dannoso in termini di aggravamento della patologia preesistente o di insorgenza della nuova malattia) è elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio; il creditore cioè deve allegare l'inadempimento (e cioè la negligenza del sanitario ), ma deve provare sia l'evento dannoso (e le conseguenze che ne sono derivate; c.d. causalità giuridica) sia il nesso causale tra condotta del sanitario nella sua materialità (e cioè a prescindere dalla negligenza) ed evento dannoso; una volta che il creditore (paziente) abbia soddisfatto detti oneri, è successivo onere del debitore (sanitario o struttura) provare odi avere esattamente adempiuto o che l'inadempimento sia dipeso da causa a lui non imputabile, e cioè o di avere svolto l'attività professionale con la diligenza richiesta (tenendo presente che, ai sensi dell'art. 2236 cc "la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o colpa grave"), oppure che sia intervenuta una causa esterna, imprevedibile o inevitabile (che abbia reso impossibile il rispetto delle leges artis) (Cass. III sezione civile, ordinanza 26907/2020. Cfr. nello stesso senso anche Cass. Sez. 3 - , Sentenza n. 24073 del 13/10/2017).

 

Il Tribunale ha, dunque, concluso rilevando che ai fini dell’assolvimento dell’onere deduttivo e della prova nei procedimenti di istruzioni preventiva in materia di responsabilità medico-sanitaria, il ricorrente deve allegare, alla stregua di quanto previsto per il giudizio di merito, le qualificate inadempienze evidenziandone l’efficienza causale rispetto ai danni patiti.  Del resto ciò è necessario anche al fine di determinare l'oggetto della stessa consulenza tecnica e per definire l'ambito del tentativo di conciliazione. Invero, la prevenzione di una futura lite postula, ovviamente, che sia conosciuto quale sarà l'oggetto della stessa. (…) Deve ritenersi precipuo onere del ricorrente allegare specificamente quali atteggiamenti terapeutici colpevolmente omessi o ritardati avrebbero avuto una ragionevole probabilità di successo anche in termini di maggiori chance di guarigione e/o sopravvivenza, ciò onde consentire l’accertamento del nesso di causalità – anche a mezzo CTU – secondo il giudizio controfattuale (id est se fosse stata tempestivamente praticata tal terapia, previo tempestivo ricovero, il paziente non sarebbe deceduto).

 

 

Ai fini dell’indennizzo assicurativo, la denuncia in sede penale di determinati fatti delittuosi non è sufficiente a far considerare l'effettivo svolgimento dei fatti così come denunciati e, dunque, a soddisfare l’onere probatorio incombente sull’assicurato ai sensi dell'art. 2697 c.c..

Cassazione civile, sezione IV, ordinanza n. 32637 del 7 novembre 2022                               

 

Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione, in un caso di furto di un autoveicolo, si è occupata di stabilire se la denuncia in sede penale del fatto delittuoso possa essere ritenuta prova sufficiente per la verificazione del rischio assicurato, idonea a far conseguire il diritto al pagamento dell’indennizzo assicurativo.

 

La Corte, ritenendo che il Giudice di merito si fosse attenuto ai principi già enunciati dalla Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha ricordato come nell'assicurazione contro i danni, "poiché il fatto costitutivo del diritto dell'assicurato all'indennizzo consiste in un sinistro verificatosi in dipendenza di un rischio assicurato e nell'ambito spaziale e temporale in cui la garanzia opera, è su di lui che incombe, ai sensi dell'art. 2697 c.c., l'onere di dimostrare che si è verificato un evento coperto dalla garanzia assicurativa e che esso ha causato il danno di cui si reclama il ristoro" (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 21dicembre 2017, n. 30656, Rv. 64712001), ed inoltre che "la denuncia in sede penale di determinati fatti delittuosi non è sufficiente a far considerare l'effettivo svolgimento dei fatti così come denunciati" (Cass. Sez. 3, sent. 10 febbraio 2003, n. 1935, Rv. 560329-01)..

 

Chi agisce per il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 122, co. 2, del Codice delle Assicurazioni Private deducendo di essere stato a bordo del veicolo come terzo trasportato (o gli eredi che agiscano ove il terzo sia venuto a mancare nel sinistro e abbiano dedotto la sua presenza come terzo trasportato), qualora risulti accertata la dedotta presenza a bordo del titolare o dell'affidatario (provvisti di idoneità legale di fatto alla guida), si deve ritenere raggiunta la prova dell'essere stato quel soggetto un terzo trasportato

Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 30723 del 19 ottobre 2022                                                    

 

Con la sentenza in esame, la Cassazione si è occupata dei fatti costitutivi del diritto risarcitorio del terzo trasportato verso l’assicuratore del veicolo sul quale egli sia trasportato, ai sensi dell’art. 122, comma 2 del Codice delle Assicurazioni private.

 

La Corte, in primo luogo, ha rilevato come il comma 2 (dell’art. 122 del C.d.A.) fa riferimento ai "danni alla persona causati ai trasportati, qualunque sia il titolo in base al quale il trasporto è effettuato". La norma, nel fare riferimento ai trasportati, si riferisce alla posizione di costoro verso l'assicuratrice della responsabilità civile del veicolo su cui il trasporto abbia luogo mentre ha rilevato come sia palese che il trasportato a bordo del veicolo che collida con altro veicolo risulta già soggetto tutelato, sebbene a certe condizioni, nei confronti dell'assicuratore di quest'ultimo ai sensi dello stesso art. 122, comma 1. Quando la norma impone l'obbligo assicurativo per la messa in circolazione del veicolo per la responsabilità verso terzi, è palese che la copertura assicurativa non può che concernere anche la responsabilità verso i terzi che si trovino "trasportati" sul veicolo antagonista di quello per cui l'assicurazione è stipulata. Naturalmente la copertura suppone che il sinistro sia imputabile alla responsabilità del conducente del veicolo per cui l'assicurazione è stipulata e non a quello del veicolo su cui trovavasi il trasportato.

 

La Corte ha, dunque, proseguito rilevando come l’interprete che debba definire la nozione di trasportato si trovi a dover svolgere le seguenti considerazioni:

 

  1. agli effetti del comma 1, fra i terzi a beneficio dei quali opera potenzialmente l'assicurazione di un veicolo nel caso di scontro con altro veicolo, vi sono tutti i soggetti lato sensu "trasportati" su quest'ultimo, cioè sia chi si trovi a bordo di esso in quanto condotto da altri e dunque si faccia da altri trasportare, sia chi lo conduce, cioè usi il veicolo come mezzo di trasporto;
  2.  agli effetti del comma 2, cioè quando viene in rilievo l'assicurazione del veicolo su cui abbia luogo il trasporto e, dunque, si voglia far valere una responsabilità in garanzia dell'assicuratore del veicolo (sia nel caso che il danno sia stato cagionato da un sinistro che abbia coinvolto solo il veicolo, sia nel caso in cui il danno sia cagionato in un sinistro che abbia coinvolto altro veicolo e si intenda far valere una responsabilità riconducibile al veicolo traportante), la formulazione della norma - là dove parla di ricomprensione nell'assicurazione "della responsabilità per i danni alla persona causati ai trasportati, qualunque sia il titolo in base al quale è effettuato il trasporto", ed usa il verbo "causare" - poiché evoca sempre la responsabilità ricollegata alla circolazione dei veicoli di cui all'art. 2054 c.c., e segnatamente quella del comma 1, necessariamente, quanto usa il temine "trasportati", allude esclusivamente "a chi risulti trasportato sul veicolo senza essere il conducente".

 

Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto che, agli effetti del comma 2 dell’art. 122, il trasportato è considerato "terzo" rispetto all'assicurazione del veicolo su cui viaggiava solo se il suo trasporto non avvenga come conducente e ciò perché il conducente del veicolo è il soggetto la cui condotta è coperta dall'assicurazione, sicché, dovendo valere l'assicurazione per un comportamento a lui ascrivibile, egli non può essere considerato "trasportato".

 

Secondo la Corte, dunque, chi fa valere un diritto risarcitorio per danni alla persona adducendo di essere stato "trasportato" ai sensi dell'art. 122 del C.d.A., comma 2, contro l'assicuratore del veicolo su cui si trovava trasportato, sia ai sensi dell'art. 141 (caso di scontro con altro veicolo), sia ai sensi dell'art. 144 (sinistro che abbia coinvolto solo il veicolo trasportante), deve dedurre, secondo la consueta rilevanza della fattispecie normativa astratta da cui ritenga originare il diritto azionato, una fattispecie costitutiva concreta, cioè un fatto storico, nelle cui note descrittive deve necessariamente sussistere la deduzione di essere stato a bordo del veicolo in una posizione diversa da quella di conducente.

 

I Giudici di legittimità hanno rilevato poi che, nel caso in cui si alleghi, da parte del preteso trasportato o da chi per lui, la circostanza che a bordo del veicolo vi fosse il soggetto che aveva la disponibilità giuridica del veicolo sinistro o un soggetto cui quello aveva concesso la disponibilità di fatto del veicolo (si pensi al proprietario del veicolo assicurato, che abbia prestato il veicolo ad altri, sia esso un familiare o un terzo) (…) chi agisce come trasportato o i suoi prossimi congiunti ed eredi hanno certamente, nell'indicare i fatti costituenti le ragioni della domanda, l'onere di allegare se quel soggetto era a bordo anche lui come trasportato ed un altro soggetto conducesse il veicolo oppure se conducesse lui il veicolo.

 

La Corte ha proseguito evidenziando come nel caso in cui rimanga, all'esito dell'istruzione, oscuro chi conducesse il veicolo e ciò, naturalmente, nell'ultimo momento in cui risulti una manovra riconducibile alla nozione di circolazione, ivi compresa la sosta (si pensi anche al caso in cui tutti gli occupanti del veicolo siano deceduti e lo stesso veicolo sia stato distrutto completamente sì che non sia possibile comprendere chi lo guidava e nemmeno raggiungere tale prova attraverso altre prove non relative alle sua condizioni; oppure al caso in cui tutti gli occupanti siano deceduti e siano stati sbalzati fuori dal veicolo e, tuttavia, la loro posizione e le condizioni del veicolo non consentano di stabilire chi guidasse e parimenti tale prova non sia conseguibile aliunde; oppure ancora al caso in cui il preteso trasportato sia sopravvissuto al sinistro e tutti gli altri no e nelle situazioni descritte risulti impossibile accertare chi fosse conducente, avendo naturalmente addotto il trasportato di essere stato a bordo in una posizione diversa da quella di conducente) chi introduca il giudizio facendo valere iure proprio e/o iure hereditatis danni derivanti dalla perdita del preteso trasportato si trova di fronte ad un fatto storico, il sinistro, che già nelle note in cui sia stato percepibile come accadimento e, dunque, risulti deducibile ed allegabile con la domanda giudiziale, non permette di stabilire chi conducesse il veicolo e dunque se lo conduceva il titolare della disponibilità dello stesso o colui al quale egli lo aveva affidato, sulla cui presenza a bordo al contrario non vi sia, naturalmente, alcuna incertezza.

 

Secondo la Corte in tutti questi casi, va considerato che, secondo l'id quod plerumque accidit, l'esistenza di una situazione di certezza sulla presenza a bordo (a) del soggetto che aveva la disponibilità del veicolo e, naturalmente, di una altrettale certezza, sia circa il fatto che egli si trovasse nella condizione di idoneità legale a condurre il veicolo (cioè avesse la "patente di guida" in corso di validità), sia circa il fatto che non si trovasse in condizioni fisiche tali da non poter guidare il veicolo, ovvero (b) di un soggetto che da quello titolare della disponibilità del veicolo l'aveva di fatto ricevuta (trovandosi nelle condizioni legali e di fatto necessarie per poter guidare), si presta senza dubbio a giustificare un'inferenza necessaria, in quanto il dato certo che a bordo vi fosse il titolare (in condizioni legali e di fatto di abilità alla guida) o colui (in condizioni legali e di fatto di abilità alla guida) che risulti avere avuto in affidamento da lui il veicolo, si presta a far desumere un'inferenza giustificata ai sensi dell'art. 2729 c.c., comma 3  da interpretarsi nel senso che è da presumere che chi conduceva il veicolo dovesse essere proprio quel soggetto.

 

Sulla scorta di tutto quanto sopra, la Corte ha stabilito che, allorquando un'azione risarcitoria venga esercitata contro l'assicuratore per la r.c.a, deducendo la morte di un soggetto che risulti essere stato a bordo di un veicolo in una situazione nella quale sia certo che a bordo di esso vi era anche il soggetto che aveva la disponibilità giuridica del veicolo stesso e che era idoneo sul piano legale e di fatto alla guida oppure un soggetto parimenti idoneo in questi due sensi, cui chi aveva quella disponibilità l'abbia affidata, qualora, all'esito dell'istruzione, risulti impossibile accertare positivamente chi conduceva il veicolo al momento del sinistro o comunque nell'ultima manovra inerente alla sua circolazione, si deve ritenere che conducente alla stregua dell'art. 2729 c.c., comma 1, fosse il titolare della disponibilità giuridica del veicolo o colui al quale egli l'aveva affidata in fatto. Ne consegue che a favore di chi abbia agito per il risarcimento del danno deducendo di essere stato a bordo del veicolo come terzo trasportato o a favore degli eredi che agiscano per il caso che egli sia venuto a mancare nel sinistro e abbiano dedotto la sua presenza come terzo trasportato, qualora risulti accertata la dedotta presenza a bordo del titolare o dell'affidatario (provvisti di idoneità legale di fatto alla guida), si deve ritenere raggiunta la prova dell'essere stato quel soggetto un terzo trasportato.

 

L'azione diretta proposta dalla vittima di un sinistro stradale nei confronti dell'assicuratore della r.c.a., è proponibile anche se preceduta da una richiesta stragiudiziale non conforme alle prescrizioni dell'art. 148 Codice delle Assicurazioni, quando la difformità non sia stata tale da impedire all’assicuratore di stimare il danno  e formulare l’offerta e se l'assicuratore non si sia avvalso della facoltà di chiederne l'integrazione, ai sensi del comma 5 di tale disposizione.

Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 32919 del 9 novembre 2022                  

 

Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione si è occupata, in primo luogo, di stabilire la sorte della domanda giudiziale di condanna dell'assicuratore della r.c.a. al risarcimento del danno causato a seguito di un sinistro stradale, quando la vittima abbia assolto in modo incompleto l'onere di previa richiesta scritta, come prescritto dall'art. 145 Codice delle assicurazioni. I Giudici di legittimità hanno, poi, valutato se tale richiesta stragiudiziale incompleta possa essere sanata dall’inerzia dell’assicuratore nel richiedere la documentazione integrativa.

 

I Giudici di legittimità hanno risolto la prima questione ritenendo che l'onere di cui all'art. 145 cod. ass. non può dirsi assolto, quando la richiesta stragiudiziale di risarcimento del danno sia incompleta, a meno che gli elementi mancanti siano superflui. Invece, la seconda questione va risolta nel senso che a fronte di una richiesta risarcitoria stragiudiziale incompleta, l'assicuratore della r.c.a. ha l'onere di segnalare al danneggiato l'incompletezza e richiedere l'integrazione. Ove ciò non faccia, l'onere di cui all'art. 145 cod. ass. da parte del danneggiato dovrà ritenersi assolto.

 

Secondo la Corte è possibile pervenire a tali conclusioni tenendo in considerazione che, ai sensi dell’art. 145 del Codice delle Assicurazioni, la vittima di un sinistro stradale, prima di convenire in giudizio l'assicuratore del responsabile (ma la regola vale anche quando intenda convenire il proprio assicuratore, ai sensi dell'art. 149 cod. ass., oppure l'impresa designata ai sensi dell'art. 283 cod. ass., od ancora l'UCI, ai sensi dell'art. 124 cod. ass.) ha l'onere, previsto a pena di improponibilità, di richiedergli per iscritto il risarcimento e di attendere un certo tempo ("spatium deliberandi") stabilito dalla legge e variabile in funzione del tipo di danni di cui chiede il ristoro e della qualità soggettiva dell'ente convenuto.

 

Secondo la Corte, infatti, se scopo dell'onere di previa richiesta scritta di cui all'art. 145 cod. ass. fu, ed e', quello di prevenire le liti, tale onere va assolto in modo coerente con tale scopo,  ovvero quando la richiesta contenga tutti gli elementi essenziali per consentire all'assicuratore della r.c.a. di formulare una offerta risarcitoria, ovvero:a) la descrizione chiara della dinamica del sinistro; b) la prospettazione chiara delle responsabilità; c) l'indicazione chiara e completa dei danneggiati e dei danni di cui chiedono il risarcimento; d) l'allegazione dei documenti idonei a suffragare le richieste di cui sopra.

 

La Corte ha, dunque, ritenuto che da tali premesse discendano due corollari, ovvero il primo corollario è che non soddisfa l'onere di cui all'art. 145 cod. ass. sia la richiesta stragiudiziale generica od ambigua; sia quella che presti ossequio solo formale ai contenuti prescritti dall'art. 148 cod. ass. (ad esempio, allegando tutti i documenti ivi prescritti, ma limitandosi ad allegare l'esistenza di "ingenti danni" non altrimenti precisati) ed il secondo corollario è che una richiesta stragiudiziale di risarcimento incompleta o priva di taluno degli allegati prescritti dall'art. 148 cod. ass. non rende improponibile la successiva azione giudiziaria, se gli elementi mancanti erano inutili ai fini dell'accertamento delle responsabilità e della stima del danno (ad esempio, nel caso in cui il danneggiato non alleghi la denuncia dei redditi, quando non abbia domandato il ristoro del danno da incapacità lavorativa).

 

Con riguardo, invece, alla seconda questione oggetto di attenzione della Corte, i Giudici hanno evidenziato che l’onere a carico dell’assicuratore della r.c.a., introdotto dall’art. 148, co. 5, del Codice delle Assicurazioni, di richiedere l’integrazione documentale va interpretata in modo coerente col suo scopo: e lo scopo di essa - come si desume dai lavori preparatori della L. 57 del 2001, cit. - è favorire la uberrima bona fides del danneggiato e dell'assicuratore nel corso delle trattative stragiudiziali.

 

Secondo la Corte, quindi, la richiesta stragiudiziale incompleta non rende improponibile la domanda giudiziale, se l'assicuratore della r.c.a. non ne chieda l'integrazione. Ciò per due ragioni. La prima ragione è che l'intera procedura di cui all'art. 148 cod. ass., come s'e' detto, è governata dai principi di correttezza e buona fede, e sarebbe contrario a tali principi ammettere che l'assicuratore della r.c.a. possa trarre un vantaggio (l'improponibilità della domanda giudiziale) da una condotta scorretta (non richiedere l'integrazione della richiesta stragiudiziale). La seconda ragione è che se l'assicuratore non chiede l'integrazione documentale, non opera come s'e' accennato il beneficio della sospensione dei termini per formulare l'offerta. Se ne ricava a contrario che, se l'assicuratore non chiede l'integrazione, i termini per la formulazione dell'offerta continuano a decorrere.

 

Viceversa la Corte ha ritenuto paradossale che dinanzi all'inerzia dell'assicuratore i termini per formulare l'offerta continuino a decorrere, mentre la domanda resti improponibile. Gli artt. 145 e 148 cod. ass. vanno dunque letti insieme: quando sono scaduti i termini per l'offerta, la domanda è proponibile; se i termini per l'offerta sono prorogati, è differito altresì lo spatium deliberandi per la proponibilità della domanda; se l'assicuratore non chiede l'integrazione dei documenti, i termini per l'offerta continuano a correre e, con essi, il termine dilatorio della proponibilità della domanda.

 

Sulla scorta quindi di quanto osservato, la Corte ha formulato i seguenti princìpi di diritto:

 

"l'azione diretta proposta dalla vittima di un sinistro stradale nei confronti dell'assicuratore della r.c.a. è proponibile anche se preceduta da una richiesta stragiudiziale non conforme alle prescrizioni dell'art. 148 codice delle assicurazioni, quando la difformità non sia stata tale da impedire all'assicuratore di stimare il danno e formulare l'offerta".

 

"L'azione diretta proposta dalla vittima di un sinistro stradale nei confronti dell'assicuratore della r.c.a. è proponibile anche se preceduta da una richiesta stragiudiziale non conforme alle prescrizioni dell'art. 148 codice delle assicurazioni, se l'assicuratore non si sia avvalso della facoltà di chiederne l'integrazione, ai sensi del comma 5 della norma appena citata".

 

 

 

La riparazione del pregiudizio derivante da una grave lesione della salute attraverso la costituzione di una rendita quale forma privilegiata di risarcimento consente di cogliere appieno la proiezione diacronica di tutte le componenti del danno che, di giorno in giorno, il danneggiato avrebbe subito dal momento dell'evento in poi e, ove venga adottata tale forma risarcitoria, il valore della rendita dovrà essere computato tenendo conto non delle concrete speranze di vita del danneggiato, bensì della vita media futura prevedibile secondo le tavole di mortalità elaborate dall'ISTAT. La scelta di tale forma di liquidazione è rimessa al prudente apprezzamento del Giudice, il quale è libero di optare ex officio per tale strumento.

Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 31574 del 25 ottobre 2022                     

 

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di risarcimento del danno permanente sotto forma di rendita vitalizia.

 

In primo luogo, la Corte ha ricordato come l'art. 2057 c.c. rimetta al prudente apprezzamento del giudice la scelta della forma di liquidazione del danno permanente alla persona, perché capitale e rendita si equivalgono per l'ordinamento civilistico. Il giudice è dunque libero di optare ex officio per lo strumento di cui all'art. 2057 c.c., purché determini la rendita in modo tecnicamente corretto.

 

La Cassazione ha, poi, affermato che l'universo del danno grave alla persona rappresenta (dovrebbe rappresentare) il terreno d'elezione per un risarcimento in forma di rendita - l'unico che consenta di considerare adeguatamente, sotto molteplici aspetti, tra cui quello dell'effettività della tutela e della giustizia della decisione - l'evoluzione diacronica della malattia (ovvero la sua guarigione, se possibile), così che l'antinomia tra l'astratta efficacia di tale strumento risarcitorio e la sua (mancata) applicazione in concreto appare segnata, in premessa, da una sorta di sostanziale quanto non giustificabile "diffidenza" nei suoi confronti.

 

La Corte ha, poi, continuato rilevando come l’applicazione di tale istituto non abbia quale presupposto ex lege l’istanza dell’avente diritto in quanto la norma, difatti, ha configurato la liquidazione della rendita non come un diritto della parte, ma come una facoltà del giudice, il quale può provvedervi, anche in appello, in via autonoma - non integrando tale scelta gli estremi "della questione rilevabile d'ufficio" ex art. 101 comma 2 c.p.c., ma caratterizzandosi soltanto per una diversa determinazione della forma del risarcimento -.

 

Secondo la Corte, attraverso la liquidazione di una rendita, il danneggiante non si avvantaggerebbe delle conseguenze del proprio atto illecito in quanto il capitale e la rendita costituiscono due diverse forme di erogazione del medesimo valore, essendo il denaro un bene per definizione fruttifero, del quale sarà fruibile il valore d'uso (la rendita), ovvero il valore di scambio (il capitale), non diversamente da quanto accade per il godimento di un bene immobile, che potrà essere venduto o locato ricavando redditi diversi, ma che costituiscono pur sempre forme alternative di realizzazione del suo valore.

 

Tuttavia, riparare il pregiudizio derivante da una grave lesione della salute attraverso la costituzione di una rendita quale forma privilegiata di risarcimento consente di cogliere appieno la proiezione diacronica di tutte le componenti del danno che, di giorno in giorno, il danneggiato avrebbe subito dal momento dell'evento in poi.  Ne consegue - va ripetuto - che, ove venga (correttamente) adottata tale forma risarcitoria, il valore della rendita dovrà essere computato tenendo conto non delle concrete speranze di vita del danneggiato, bensì della vita media futura prevedibile secondo le tavole di mortalità elaborate dall'ISTAT, a nulla rilevando che, nel caso concreto, egli abbia speranza di sopravvivere solo per pochi anni, ovvero che non risulti oggettivamente possibile determinarne le speranze di sopravvivenza, qualora tale ridotta speranza di sopravvivenza sia conseguenza dell'illecito.

 

La Cassazione ha, in particolare, ritenuto che il Giudice, valutando comparativamente i pro ed i contro del caso concreto, ben potrà, se non addirittura dovrà, privilegiare una liquidazione del danno in forma di rendita soprattutto in caso di macroinvalidità (specie se comportino la perdita della capacità di intendere e di volere), in quello di lesioni subite da un minore per il quale una prognosi di sopravvivenza risulti estremamente difficoltosa se non impossibile, in quello di lesioni inferte a persone socialmente deboli o descolarizzate (richiedenti asilo, disabili mentali o anche semplicemente macrolesi i quali già prima del sinistro si trovassero in profondo conflitto con i familiari), ovvero ancora con riguardo alle qualità del debitore (una compagnia di assicurazione, piuttosto che un privato o una pubblica amministrazione),  ove sussista il serio rischio che ingenti capitali erogati in favore del danneggiato possano andare colpevolmente o incolpevolmente dispersi, in tutto o in parte, per mala fede o per semplice inesperienza dei familiari del soggetto leso.

 

La Corte ha, infine, affermato come debba ritenersi astrattamente ammissibile anche l'ipotesi di una revisione della rendita, oltre che di proposizione di una nuova e diacronica domanda risarcitoria in presenza di aggravamenti che non fossero accertabili né prevedibili al momento della pronuncia.

 

Sul punto, la Corte ha richiamato la sentenza della Corte di Cassazione n. 27031 del 27 dicembre 2016, con la quale si è affermato che, ai fini dell'instaurazione di un nuovo giudizio, è necessario che la parte individui specificamente " gli elementi idonei (...) a consentire la revisione della liquidazione del danno a causa di aggravamenti successivi e sopravvenuti alla formazione del giudicato ", che sono da ricondurre " (a) ad un'obiettiva impossibilità di accertare, al momento della prima liquidazione, fattori attuali capaci, nell'ambito di una ragionevole previsione, di determinare l'aggravamento futuro; (b) all'impossibilità, ancora con riferimento alla prima liquidazione, di prevederne gli effetti; (c) all'insussistenza di un evento successivo avente efficacia concausale dell'aggravamento " ritenendo, dunque, ammissibile la possibilità di una revisione della rendita vitalizia nei limiti in cui è ammesso adire il giudice in ragione dell'insorgere di danni del tutto imprevedibili e non accertabili al momento del primo giudizio.

 

Il comportamento della madre che celi l’identità del padre biologico al figlio integra una condotta "non jure” sussumibile nella fattispecie della responsabilità civile di cui all'art. 2043 c.c. e che legittima il figlio a richiedere il diritto al risarcimento del danno da perdita della possibilità di conoscere le proprie origini biologiche. Per la liquidazione della predetta voce di danno è possibile un confronto con il danno da rottura del rapporto parentale andandosi a risarcire la sofferenza patita dal figlio che, tenuto all’oscuro dell’identità del proprio padre biologico, non ha potuto sviluppare legami con il genitore e il ramo paterno della famiglia biologica

Corte d’Appello di Venezia, sezione IV, sentenza n. 2173 del 10 ottobre 2022  

 

Con la sentenza in esame, la Corte d’Appello di Venezia si è pronunciata in tema di risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della possibilità di conoscere la vera identità del proprio padre biologico.

 

La Corte ha affermato, in primo luogo, che rientra tra i diritti assoluti e personalissimi conoscere le proprie origini biologiche, rilevando come a proposito del diritto alla conoscenza delle proprie origini del figlio adottivo, la Corte di Cassazione afferma che “il diritto alla conoscenza biologica delle proprie origini segue una logica anzitutto identitaria, rappresentando quello all'identità personale un diritto fondamentale riconosciuto a ciascun essere umano” (Cass., sez. 1, sent. n. 22497 del 9.8.2021) e che il diritto “… ha trovato un sempre più ampio riconoscimento a livello internazionale e sovranazionale (cfr. Corte EDU, 25 settembre 2012, n. 33783, Godelli c. Italia, Corte EDU, n. 42326/2003, Odie'vre c. Francia; Corte EDU, n. 53176/2002, Mikulid c. Croazia), tramite la valorizzazione del disposto dell'art. 8 CEDU, che protegge un diritto all'identità e allo sviluppo.

 

Secondo la Corte, nel caso in cui venga celata al figlio l’identità del padre biologico (nel caso di specie, celata dalla madre), viene pregiudicato l’interesse del figlio a crescere in comunanza di vita e mantenere rapporti con entrambi i genitori biologici dovendo ritenersi, in ogni caso, che l’interesse della madre a non rivelare il nome dell’altro genitore è recessivo rispetto al diritto del figlio di conoscere le proprie origini in quanto la madre non aveva il diritto di negare al figlio l’accesso al padre.

 

La Corte ha, poi, affermato come il caso si differenzia da quello di una madre che non voglia essere nominata al momento del parto perché il diritto all’anonimato della madre è disciplinato dagli artt. 28, 7 co. L. 184/83, 30, 1 co. D.P.R. 396/00 e 93, co. 2 e 3 d.lgs. 196/03 e dall’intervento additivo della Corte Costituzionale con sentenza 278/2013: non si pone il problema di bilanciare (cfr. Cass., s.u., sent. n. 1946 del 25.1.2017) l’accesso del figlio alle notizie sulle sue origini e sull’identità del genitore biologico con la libertà di autodeterminazione della madre biologica a non rivelare la propria identità.

 

Viceversa, i Giudici di merito, richiamando il caso che in qualche modo più si avvicina a quello sub iudice,dell’omessa comunicazione all’altro genitore da parte della madre dell’avvenuto concepimento hanno ricordato che tale comportamento della madre, “ove non risulti giustificat[o] da un oggettivo apprezzabile interesse del nascituro”, anche in assenza di una specifica prescrizione normativa impositiva di un obbligo di condotta, può tradursi “in una condotta "non jure … qualificabile come danno ingiusto, e che viene ad integrare, nel ricorso dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa, la fattispecie della responsabilità civile di cui all'art. 2043 c.c..” (cfr. Cass., sez. 3, sent. n. 8459 del 5.5.2020).

 

La Corte ha, dunque, continuato ritenendo che un eventuale interesse di un padre a non rivelarsi (...) non è accostabile al best interest di un minore e non trova tutela nell’ordinamento giuridico. Ancor meno spetta alla madre proteggere l’interesse del padre all’oblio a fronte di richieste del figlio che possono trovare giustificazione nel rapporto di filiazione. I doveri genitoriali sono ricollegabili non all'effetto giuridico della istituzione della relazione parentale ma al mero fatto-giuridico della procreazione. Non può essere la madre a stabilire se l’intenzione del figlio sia quella in futuro di abusare di un diritto né può essere il presente processo la sede per accertarlo.

 

I Giudici hanno, dunque, riconosciuto un diritto ad un risarcimento del danno non patrimoniale al figlio, richiamando, sotto il profilo della liquidazione di tale danno, come il danno da rottura del rapporto parentale comprende la lesione del “… il diritto all’esplicazione della propria personalità mediante lo sviluppo dei propri legami affettivi e familiari, quale bene fondamentale della vita, protetto dal combinato disposto degli artt. 2, 29 e 30 della Costituzione” (cfr. Cass. Civ., sez. 3, n. 907 del 17.1.18)e, dunque, ritenendo sotto questo profilo possibile un confronto con la sofferenza patita dal figlio che, tenuto all’oscuro dell’identità del proprio padre biologico, non ha potuto sviluppare legami con il genitore e il ramo paterno della famiglia biologica.

 

La Corte ha, però, precisato che la sofferenza patita dal figlio, non è sovrapponibile a quella derivante dalla rottura di un rapporto parentale per l’irrimediabile definitività che contraddistingue la morte, ritenendo che la condizione derivante dalla morte di un congiunto non è equiparabile alla sofferenza del figlio, in considerazione del fatto che abitudini e stile di vita dell’appellante non sono radicalmente cambiati da un evento tragico.

 

Nel caso di danno patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l'età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi futuri in base al coefficiente di capitalizzazione corrispondente all'età della vittima al tempo della liquidazione e la prova di tale danno può essere fornita anche tramito ricorso alla prova presuntiva.

Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 32935 del 9 novembre 2022                

 

Con l’ordinanza in esame, la Cassazione si è pronunciata in tema di liquidazione del danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa in caso di danno subito da soggetto non in età lavorativa.

 

I Giudici di legittimità hanno rilevato che, mentre il danno da perdita o riduzione della capacità lavorativa di un soggetto adulto che al momento dell'infortunio non svolgeva alcun lavoro remunerato va liquidato con equo apprezzamento delle circostanze del caso ai sensi dell'art. 2056 c.c. (cfr. Cass. Sez. 3, 26/05/2020 n. 9682), nel caso in cui il danno sia patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l'età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi futuri in base al coefficiente di capitalizzazione corrispondente all'età della vittima al tempo della liquidazione (Cass. Sez. 3, 12/04/2018 n. 9048).

 

La Corte ha, inoltre, affermato, come nella valutazione del danno da riduzione della capacità di guadagno subito da un minore in età scolare, in conseguenza della lesione dell'integrità psico-fisica, il Giudice possa far ricorso alla prova presuntiva allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro il danneggiato percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell'evento lesivo, tenendo conto delle condizioni economico-sociali del danneggiato e della sua famiglia e di ogni altra circostanza del caso concreto. Ne consegue che, ove l'elevata percentuale di invalidità permanente renda altamente probabile, se non certa, la menomazione della capacità di svolgere qualsiasi attività lavorativa il giudice può accertare in via presuntiva la perdita patrimoniale occorsa alla vittima e procedere alla sua valutazione in via equitativa, pur in assenza di concreti riscontri dai quali desumere i suddetti elementi (Cass. Sez. 3, 15/05/2018 n. 11750).

 

Con riferimento alla responsabilità ex art. 2051 c.c., il problema della cd. causalità costituiva si pone essenzialmente come problema di provare il nesso fra il danno e la cosa in custodia e il relativo onere probatorio grava sulla parte danneggiata.

Corte d’Appello di Venezia, sezione IV, sentenza n. 1465 del 28 giugno 2022                    

 

Con la sentenza in commento, la Corte d’Appello si è pronunciata in tema di responsabilità ex art. 2051 c.c., valutando quale sia la parte processuale su cui grava la c.d. “causa ignota”, ossia la parte che debba subire le conseguenze del mancato accertamento della causa che ha dato origine al danno.

 

La Corte ha rilevato, in primo luogo, come sul tema sia necessario soffermarsi sulla causa, da cui ha avuto origine il danno, distinguendo fra cd. causalità costitutiva e cd. causalità estintiva ed evidenziando come la prova (costituiva) della prima grava sulla parte danneggiata mentre la prova (estintiva-liberatoria) della seconda grava sul danneggiante e, conseguentemente ,come  l’ignoranza riguardante il primo “ciclo” causale gravi sulla parte danneggiata mentre quella riguardante il secondo “ciclo” sul danneggiante.

 

I Giudici di merito hanno, dunque, concluso affermando che con riferimento alla responsabilità ex art. 2051 c.c., il problema della cd. causalità costituiva si pone essenzialmente come problema di provare il nesso fra il danno e la cosa in custodia. La sola prova del rapporto di custodia, infatti, è insufficiente a fondare la responsabilità del custode: occorre anche la prova che il danno lamentato abbia avuto origine dalla cosa in custodia (e non da altre fonti, esterne ad essa) (cfr., ex multis, Cass. sez. 3, sent. n. 13260 del 28/06/2016, secondo cui “[i]n tema di responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c., il danneggiato è tenuto a fornire la prova del nesso causale fra la cosa in custodia e il danno che egli ha subito (oltre che dell'esistenza del rapporto di custodia), e solo dopo che lo stesso abbia offerto una tale prova il convenuto deve dimostrare il caso fortuito, cioè l'esistenza di un fattore estraneo che, per il carattere dell'imprevedibilità e dell'eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale, escludendo la sua responsabilità”).

 

In tema di responsabilità per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale dell’evento dannoso in applicazione dell’art. 1227, c.c. richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 della Costituzione e quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso.

Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 33390 dell’11 novembre 2022                            

 

Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione, in tema di responsabilità da cose in custodia, si è occupata dell’incidenza causale che può avere, ex art. 1227, co. 1, c.c., la condotta del danneggiato nella causazione dell’evento lesivo.

 

La Corte, sul punto ha richiamato alcuni precedenti consolidati in tema di obbligo di custodia (si veda Cass., 1 febbraio 2018, nn. 2480- 2481-2482-2483), in forza dei quali la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell'art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 della Costituzione.

 

Sulla scorta di tali considerazioni, la Cassazione ha, quindi, ritenuto che quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.

 

La responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e se, ove il professionista avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, dovendosi altrimenti ritenere che tale responsabilità difetti.

Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 33442 del 14 novembre 2022                

 

Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di responsabilità omissiva dell’avvocato, andando ad evidenziare i singoli elementi costitutivi della stessa che devono essere valutati dal Giudice al fine del suo accertamento.

 

La Corte ha, dunque, richiamato il proprio consolidato indirizzo giurisprudenziale (tra le tante, Cass., sez. 3, 14/10/2019, n. 25778), secondo il quale il professionista non può garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente, per cui il danno derivante da eventuali sue omissioni, in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione, il risultato sarebbe stato conseguito.

 

Secondo la Cassazione, l’inesistenza di tale obbligazione in capo al professionista comporta che il cliente non può limitarsi a dimostrare la condotta asseritamente colpevole, dovendo dare la prova che, in assenza di quella condotta, si sarebbe probabilmente verificato un esito diverso e favorevole della lite (Cass., sez. 3, 10/11/2016, n. 22882; Cass., sez. 3, 16/05/2017, n. 12038). La responsabilità del prestatore d'opera intellettuale nei confronti del proprio cliente presuppone, quindi, la prova del danno e del nesso causale tra il fatto omesso, conseguente alla negligente condotta del professionista, ed il pregiudizio del cliente.

 

La Corte, dunque, con riguardo all’attività di avvocato, ha ritenuto che l'affermazione di responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita, ribadendo che «in tema di responsabilità professionale dell'avvocato per omesso svolgimento di un'attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", si applica non solo all'accertamento del nesso di causalità fra l'omissione e l'evento di danno, ma anche all'accertamento del nesso tra quest'ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa» (Cass. sez. 3, 24/10/2017, n. 25112; Cass., sez. 3, 20/11/2020, n. 26516; Cass., sez. 2, 12/03/2021, n. 7064).

 

In conclusione, la Corte ha affermato che la responsabilità dell'avvocato non può, quindi, affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e se, ove il professionista avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, dovendosi altrimenti ritenere che tale responsabilità difetti.

 

Il rischio assicurato in caso di c.d. infortunio in itinere è quello che deriva dallo spostamento del lavoratore legato allo svolgimento dell'attività lavorativa a differenza dell’infortunio per il quale requisito per l’indennizzabilità è la sussistenza della causa o, almeno, dell'occasione di lavoro.

Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 29300 del 7 ottobre 2022                                     

 

Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di infortunio in itinere, specificando i requisiti per la sua indennizzabilità.

 

In primo luogo, la Corte ha rilevato che requisito indispensabile per l'indennizzabilità dell'infortunio, ai sensi del D.P.R. n.1124 DEL 30 giugno 1965 art. 2, è la sussistenza della causa o, almeno, dell'occasione di lavoro, è cioè che fra la prestazione lavorativa e l'evento vi sia un nesso di derivazione eziologica quanto meno mediata ed indiretta, essendo l'evento dipendente dal rischio inerente all'attività lavorativa o connesso al compimento di tale attività (v. Cass. n. 774 del 1999).

 

I Giudici di legittimità hanno, infatti, ricordato, come ripetutamente affermato da questa Corte (v. Cass. n. 8538 del 1997; n. 3994 del 1997; n. 10910 del 1996; n. 11172 del 1992), che l'occasione di lavoro, quale elemento costitutivo dell'infortunio indennizzabile, si verifica quando tra l'evento lesivo e la prestazione lavorativa vi sia un nesso di derivazione eziologica, quanto meno mediato e indiretto, e cioè una correlazione che vada al di là della mera concomitanza di tempo e di luogo, per cui anche se l'infortunio non debba essere necessariamente riconducibile ad un rischio proprio insito nelle mansioni svolte dall'assicurato, deve pur sempre essere ricollegabile all'espletamento dell'attività lavorativa, nel senso che il rischio di cui è conseguenza l'infortunio sia astrattamente connesso all'esecuzione dell'attività lavorativa e al perseguimento delle relative finalità (in tal senso v. Cass. n. 774 del 1999, in motivazione).

 

Viceversa, la Corte ha ritenuto diverso il rischio tutelato in caso di infortunio in itinere in quanto il D.P.R. n. 1124 del 1965 art. 2, comma 3,, nel testo risultante dalla modifica introdotta con il D.Lgs. n. 38 del 2000 art. 12, prevede che "salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l'assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro […]" motivo per il quale il rischio assicurato è quello derivante dallo spostamento spaziale del lavoratore eseguito in connessione con lo svolgimento dell'attività lavorativa. La norma tutela il rischio generico, inerente al percorso seguito dal lavoratore per recarsi al lavoro, cui soggiace qualsiasi persona che lavori (così Cass. n. 5814 del 2022, in motivazione; v. anche Cass. n. 11545 del 2012; n. 3776 del 2008).

 

I Giudici di legimittità hanno, dunque, concluso ritenendo che nel caso di specie i giudici di merito avessero sussunto nella previsione di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965 art. 2, comma 3, relativa all'infortunio in itinere, una fattispecie in cui il rischio cui era esposto il lavoratore non era inalcun modo ricollegabile al tragitto percorso, cioè allo spostamento spaziale, bensì pacificamente all'attività lavorativa e alle mansioni svolte, motivo per il quale la sentenza impugnata è stata cassata con rinvio.

 

 

 

L'abrogato art. 3 comma 1 D.L. n. 158 del 2012 si configura come norma più favorevole rispetto all'art. 590 sexies cod. pen. ( introdotto dalla legge 8 marzo 2017 n. 24 c.d. legge Gelli Bianco)  sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve per imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto.

Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 39015 del 21 settembre 2022                                          

 

Con la sentenza in esame, la Cassazione si è pronunciata in tema di responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria nel caso in cui i fatti per cui è processo siano stati posti in essere sotto la vigenza del c.d. Decreto Balduzzi.

 

I Giudici hanno rilevato come il dl. 13 settembre 2012 n. 158 (cd Decreto Balduzzi),convertito nella legge 8 gennaio 2012 n. 189, preveda che l'esercente della professione sanitaria non è punito se, nonostante abbia rispettato le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, versi in colpa lieve.

 

La Corte ha, dunque, ricordato come tale disciplina, come noto, è stata sostituta dalla legge 8 marzo 2017 n. 24 (c.c1 legge Gelli Bianco) che ha introdotto l'art. 590 sexies cod. pen. a norma del quale «qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che ovviamente le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto».

 

La Corte ha richiamato, infine, l'insegnamento delle Sezioni Unite, secondo il quale l'abrogato art. 3 comma 1 D.L. n. 158 del 2012 si configura come norma più favorevole rispetto all'art. 590 sexies cod. pen. sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve per imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto (Sez.U, n. 8770 del 21/12/2017, dep. 2018, Mariotti, Rv. 27217401; sez. 4, n. 53453 del 15/11/2018, Di Marco, cit., Rv. 274499-02; n. 23283 del 11/5/2016, Denegri, Rv. 266903).

 

Il conducente di un veicolo è tenuto, in base alle regole della comune diligenza e prudenza, ad esigere che il passeggero indossi la cintura di sicurezza e, in caso di sua renitenza, anche a rifiutarne il trasporto.

Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 39136 del 18 ottobre 2022                                

 

Con la sentenza in commento, la Cassazione si è pronunciata in relazione all’obbligo incombente sul conducente di esigere che il passeggero utilizzi le cinture di sicurezza.

 

I Giudici di legittimità, richiamando i propri precedenti arresti giurisprudenziali, hanno ricordato che è peraltro principio consolidato quello per il quale il conducente di un veicolo è tenuto, in base alle regole della comune diligenza e prudenza, ad esigere che il passeggero indossi la cintura di sicurezza e, in caso di sua renitenza, anche a rifiutarne il trasporto o ad omettere l'intrapresa della marcia e ciò a prescindere dall'obbligo e dalla sanzione a carico di chi deve fare uso della detta cintura (ex plurimis, Sez. 4, n. 32877/2020, Rv. 280162 - 01), regola di comportamento pacificamente violata; e ciò a prescindere dall'obbligo e dalla sanzione a carico di chi deve fare uso della detta cintura (vedasi ‘anche la più risalente, ma ancora attuale Sez. 4, n. 9904/1996, Rv. 206266-01; Sez. 4, n. 9311 del 29/1/2003, Sulejmani, Rv. 224320).          

 

In tema di circolazione stradale, il conducente di un veicolo è tenuto ad osservare, in prossimità degli attraversamenti pedonali, la massima prudenza e a mantenere una velocità particolarmente moderata, tale da consentire l'esercizio del diritto di precedenza, spettante in ogni caso al pedone che attraversi la carreggiata nella zona delle strisce zebrate, essendo al riguardo ininfluente che l'attraversamento avvenga sulle dette strisce o nelle vicinanze.

Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 43074 del 14 novembre 2022                           

 

Con la sentenza in esame, la Cassazione si è pronunciata in relazione alla regola cautelare prevista dall’art. 191 C.d.S. che prevede uno specifico obbligo di attenzione per il conducente di un veicolo in corrispondenza degli attraversamenti pedonali, al fine di avvistare tempestivamente il pedone e porre efficacemente in essere gli opportuni accorgimenti, atti a prevenire un rischio di investimento.

 

Secondo la Corte, si tratta di un dovere di attenzione che si sostanzia negli obblighi di "ispezionare" la strada percorsa, di mantenere un costante controllo del veicolo, di prevedere tutte le situazioni di pericolo, comprese le imprudenze e le trasgressioni degli altri utenti della strada.

 

I Giudici di legittimità hanno stabilito che, nel caso di specie, Il Giudice di appello avesse correttamente rinvenuto il nesso di causa tra la violazione delle contestate regole cautelari e l'evento dell'investimento, così facendo corretta applicazione del consolidato principio secondo il quale, in tema di circolazione stradale, il conducente di un veicolo è tenuto ad osservare, in prossimità degli attraversamenti pedonali, la massima prudenza e a mantenere una velocità particolarmente moderata, tale da consentire l'esercizio del diritto di precedenza, spettante in ogni caso al pedone che attraversi la carreggiata nella zona delle strisce zebrate, essendo al riguardo ininfluente che l'attraversamento avvenga sulle dette strisce o nelle vicinanze (Sez. 4, n. 47290 del 09/10/2014, S., Rv. 261073).

 

 

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