Newsletter Gennaio 2022
Il giudice ha l’obbligo di motivare il rigetto della richiesta di C.T.U.
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 39257 del 10 dicembre 2021
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito all’obbligo in capo al giudice adito di motivare il rigetto della richiesta di disporre una consulenza tecnica cinematica in caso di incidente stradale.
La Suprema Corte ricorda che la consulenza tecnica d'ufficio [...] è un mezzo istruttorio sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso al potere discrezionale del giudice, il cui esercizio incontra il duplice limite del divieto di servirsene per sollevare le parti dall'onere probatorio e dell'obbligo di motivare il rigetto della relativa richiesta. Perciò, a fronte della richiesta delle parti di disporre una consulenza tecnica cinematica, il giudice ha l'obbligo di motivare il rigetto della relativa richiesta, fornendo dimostrazione di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, tutti i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione senza potere, per converso, disattendere l'istanza stessa ritenendo non provati i fatti che questa avrebbe verosimilmente accertato.
In conclusione, secondo la Cassazione, il giudice che non disponga la consulenza richiesta dalla parte è tenuto a fornire adeguata dimostrazione - suscettibile di sindacato in sede di legittimità - di potere risolvere, sulla base di corretti criteri, tutti i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potere, per converso, disattendere l'istanza stessa ritenendo non provati i fatti che questa avrebbe verosimilmente accertato.
L’indicazione "vane le ricerche esperite sul posto" inserita nel processo verbale redatto dall’Ufficiale Giudiziario ex art. 143 c.p.c. è una mera valutazione non assistita dalla efficacia dell'atto pubblico
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 40467 del 16 dicembre 2021
Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione chiarisce quali siano le formalità che deve rispettare l’Ufficiale giudiziario nel procedere alla notificazione a norma dell'art. 143 c.p.c..
La Suprema Corte ribadisce l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini della notificazione ex art. 143 c.p.c., l'ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca ed indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione. Secondo la Cassazione, il ricorso alle formalità di notificazione di cui all'art. 143 c.p.c., per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l'ufficiale giudiziario dia espresso conto, il che significa che l'ufficiale giudiziario deve comunque preliminarmente concretamente accedere nel luogo di ultima residenza nota, al fine - fra l'altro - di attingere, anche nell'ipotesi di riscontrata assenza di addetti o incaricati alla ricezione della notifica, comunque eventuali notizie utili in ordine alla residenza attuale del destinatario della notificazione.
I giudici di legittimità ricordano che la relata di notificazione (effettuata dall’Ufficiale Giudiziario) fa fede, fino a querela di falso, circa le attestazioni che riguardano l'attività svolta dall'ufficiale giudiziario procedente e limitatamente ai soli elementi positivi di essa, mentre non sono assistite da pubblica fede le attestazioni negative, come l'ignoranza circa la nuova residenza del destinatario della notificazione. Secondo la Cassazione, infatti, l'indicazione di "vane le ricerche esperite sul posto", al cospetto dell'accertata residenza anagrafica, evidenzia una carenza del procedimento notificatorio sotto il profilo del requisito della effettività delle ricerche e della specifica indicazione di quali siano state le "effettive" ricerche compiute, rilevante [...] come requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell'atto (art. 156 c.p.c., comma 2). In mancanza, infatti, della specifica indicazione delle effettive ricerche compiute, la generica indicazione di "vane le ricerche esperite sul posto" è inidonea ad integrare un fatto di cui l'ufficiale giudiziario dia conto nel processo verbale, per il quale incomba sulla parte interessata l'onere di proporre querela di falso, ma ha la valenza esclusivamente di una valutazione, non assistita, come è noto, dalla precipua efficacia dell'atto pubblico.
Nei giudizi instaurati prima della modifica dell’art. 115 c.p.c. non opera il principio di non contestazione se si tratta di fatti secondari
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 40756 del 20 dicembre 2021
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta la tematica del principio di non contestazione in caso di giudizio instaurato prima della modifica dell'art. 115 c.p.c., co. 2, c.p.c. ad opera dell’art. 45, co. 14, della legge n. 69 del 2009.
La Suprema Corte osserva che, con riguardo al predetto principio, l'art. 115 c.p.c., co. 2, c.p.c., nella sua nuova formulazione, fa riferimento solo ai "fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita", senza distinguere apparentemente fra fatti primari e fatti secondari.
Viceversa, per i giudizi instaurati prima dell'entrata in vigore della suddetta modifica legislativa, la Corte ha rilevato come la giurisprudenza di legittimità sia granitica nel ritenere che l'onere del convenuto, previsto dall'art. 416 c.p.c., per il rito del lavoro, e dall'art. 167 c.p.c., per il rito ordinario, di prendere posizione, nell'atto di costituzione, sui fatti allegati dall'attore a fondamento della domanda, comporta che il difetto di contestazione implica l'ammissione in giudizio solo dei fatti cosiddetti principali, ossia costitutivi del diritto azionato, mentre per i fatti cosiddetti secondari, ossia dedotti in esclusiva funzione probatoria, la non contestazione costituisce argomento di prova ai sensi dell'art. 116 c.p.c., comma 2.
In conclusione, la Corte ha ritenuto di affermare che nei giudizi instaurati prima dell'entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 14, che ha sostituito l'art. 115 c.p.c., comma 2, comma 2, il principio di non contestazione trova applicazione solo con riferimento ai fatti primari, cioè costitutivi, modificativi, impeditivi od estintivi del diritto fatto valere in giudizio, mentre per i fatti secondari - vale a dire quelli dedotti in mera funzione probatoria - la non contestazione costituisce argomento di prova ai sensi dell'art. 116 c.p.c., comma 2, per cui tali fatti possono essere contestati per la prima volta anche nel giudizio di appello.
In caso di litisconsorzio necessario il termine per impugnare è unico
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 726 del 12 gennaio 2022
Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in merito all’efficacia della notificazione della sentenza ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione in caso di litisconsorzio necessario.
La Suprema Corte afferma che, nei processi con pluralità di parti, quando si verta in ipotesi di litisconsorzio necessario o processuale, è applicabile la regola (propria delle cause inscindibili) dell'unitarietà del termine per proporre impugnazione, con la conseguenza che la notifica eseguita a istanza di una sola delle parti segna, nei confronti della stessa e di quella destinataria della notificazione, l'inizio del termine breve per la proposizione dell'impugnazione contro tutte le altre parti, sicché ove, a causa della scadenza del termine, sia intervenuta la decadenza dall'impugnazione, questa esplica i suoi effetti non solo nei confronti della parte che ha assunto l'iniziativa di notificare la sentenza, ma anche nei confronti di tutte le altre parti.
RC Auto: se nell'incidente stradale è coinvolto un solo veicolo, il terzo trasportato è tenuto ad agire contro il proprietario o il conducente e può avvalersi dell'art. 2054., co. 1, c.c.
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 40558 del 17 dicembre 2021
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione chiarisce quale sia la norma applicabile nel caso in cui, in un incidente stradale, sia coinvolto un solo veicolo ed il terzo trasportato intenda agire per il risarcimento dei danni subiti.
La Suprema Corte afferma che, qualora non vi sia stato il coinvolgimento di altri veicoli nell'incidente, difettano presupposti che giustificano la semplificazione, sul piano dell'onere probatorio, della posizione del terzo trasportato, che consente di richiedergli solo la prova dell'esistenza del danno e dell'essere stato a bordo del veicolo coinvolto nell'incidente nella veste di terzo trasportato. Infatti, l'esigenza di non ritardare il soddisfacimento della pretesa risarcitoria del trasportato e, dunque, di non pregiudicare il principio solidaristico "vulneratus ante omnia reficiendus" ricorre solo quando siano coinvolti almeno due veicoli e, perciò, si renda necessario ricostruire la dinamica del sinistro e accertare le differenti responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti.
Secondo i giudici di legittimità, non v'è da soddisfare tale esigenza quando, invece, il veicolo implicato nel sinistro sia solo quello a bordo del quale viaggiava, in posizione diversa da quella di conducente, il soggetto danneggiato, il quale, tuttavia, può sempre avvalersi, onde giovare di un alleggerimento del proprio onere probatorio, del disposto di cui all'art. 2054 c.c., comma 1, in considerazione del fatto che l'art. 2054 c.c., esprime, in ciascuno dei commi che lo compongono, principi di carattere generale applicabili a tutti i soggetti che da tale circolazione comunque ricevano danni e, quindi, anche ai trasportati, quale che sia il titolo del trasporto, di cortesia ovvero contrattuale, oneroso o gratuito; con la conseguenza che il trasportato, indipendentemente dal titolo del trasporto, può invocare i primi due commi della disposizione citata per far valere la responsabilità extracontrattuale del conducente ed il comma 3, per far valere quella solidale del proprietario.
Proprietario e conducente sono responsabili in solido nei confronti dell’Impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 40592 del 17 dicembre 2021
Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla responsabilità solidale del conducente e del proprietario di un ciclomotore privo di copertura assicurativa nel giudizio di rivalsa promosso ex art. 292 del Codice delle Assicurazioni Private dall’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada.
La Suprema Corte rileva che, dal momento che l'art. 292 cod. ass., accorda all'impresa designata il diritto di rivalsa nei confronti "dei responsabili", [...] la suddetta rivalsa spetterà all'impresa designata nei confronti tanto del conducente, quanto del proprietario.
I giudici di legittimità ricordano, infatti, che, ai sensi dell’art. 2054, co. 3, c.c., il proprietario di un veicolo a motore risponde dei danni causati dalla circolazione del veicolo, in solido col conducente, nei confronti dei terzi danneggiati. Al fine di tutelare il terzo danneggiato, nel caso di sinistro stradale causato dal conducente di un veicolo assicurato, è conforme alla ratio della legge che, dal lato interno dell'obbligazione solidale, al proprietario sia concesso un regresso integrale verso il conducente per le somme pagate al terzo danneggiato. Tuttavia, le conclusioni mutano quando il sinistro sia stato causato da un veicolo non assicurato, e debba discutersi non già dell'obbligazione solidale del conducente e del proprietario verso il terzo danneggiato [...] ma della diversa obbligazione solidale del conducente e del proprietario verso l'impresa designata, ex art. 292 cod. ass.
Infatti, mentre il debito solidale del conducente e del proprietario verso il terzo danneggiato nasce dalla commissione d'un fatto illecito consistito nella guida malaccorta del mezzo, della quale il conducente risponde come autore, e il proprietario come garante ope legis [...], il debito solidale del conducente e del proprietario verso l'impresa designata [...] sorge dalla violazione dell'obbligo assicurativo, violazione la quale è parimenti imputabile tanto al proprietario, quanto al conducente. Secondo la Suprema Corte, pertanto, rispetto a tale obbligazione, in assenza di circostanze specifiche del tutto peculiari (ad es., la simulazione dell'avvenuta stipula della polizza, dimostrata mediante l'esibizione di documenti falsi) [...], l'obbligazione solidale del conducente e del proprietario nei confronti dell'impresa designata dovrà gravare su tutti e due, giacché ciascuno ha dato luogo, con la propria omissione, all'insorgenza del debito comune verso l'impresa designata. Lo stabilire, poi, in che misura debba avvenire il riparto, è questione che andrà valutata ai sensi dell'art. 2055 c.c.
Alle Sezioni Unite la questione sulla possibilità o meno di agire ai sensi dell’art. 141 cod. ass. per il terzo trasportato nel caso in cui non vi sia il coinvolgimento di altri veicoli nell’incidente stradale
Cassazione civile, sezione III, ordinanza interlocutoria n. 40885 del 20 dicembre 2021
Con l’ordinanza interlocutoria in esame la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione se, in tema di risarcimento danni da circolazione di veicoli, sia possibile per il terzo trasportato agire ai sensi dell'art. 141 del Codice delle assicurazioni private (anche) in caso di sinistro nel quale non risultino coinvolti veicoli diversi da quello sul quale viaggiava la persona trasportata deceduta.
Secondo un primo orientamento della Suprema Corte, sarebbe preferibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, che la consideri applicabile a prescindere dalla ripartizione delle responsabilità tra i conducenti dei veicoli, con possibilità di esercizio dell'azione diretta contro la compagnia di assicurazione del vettore in ogni ipotesi - salvo il caso del fortuito - di danno subito dal trasportato sul veicolo: ciò al fine di fornire a quest'ultimo uno strumento di risarcimento più celere e idoneo a coprire la più vasta serie di casi, al riguardo non ostando il riferimento letterale a due diversi enti assicurativi anche ai fini della rivalsa, da intendersi come meramente descrittivo della normalità dei casi e non come preclusivo della domanda qualora nel sinistro sia coinvolto un veicolo non identificato o non coperto da copertura assicurativa ovvero [...] non sussistente, atteso che la norma presuppone soltanto la sussistenza di un sinistro e di un danno subito dal terzo trasportato non dovuto a caso fortuito, non esige altresì che il sinistro si sia verificato a seguito di uno scontro tra due o più automezzi. Al riguardo si è sottolineato che una tale soluzione risponde ad una scelta del legislatore in tema di allocazione del rischio, che ha scelto di privilegiare, nei limiti del massimale minimo di legge, il diritto del trasportato ad ottenere prontamente il risarcimento, agendo nei confronti del soggetto a lui sicuramente noto (la compagnia di assicurazioni del veicolo sul quale è trasportato), senza dover né attendere l'accertamento delle rispettive responsabilità, né tanto meno dover procedere alle ricerche della compagnia assicuratrice del veicolo investitore (Cass. n. 16477/2017).
Un altro orientamento, invece, ha diversamente affermato che ai sensi dell’art. 141 cod. ass., la persona trasportata può avvalersi dell'azione diretta nei confronti dell'impresa di assicurazioni del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro soltanto se in quest'ultimo siano rimasti coinvolti, pur in mancanza di un urto materiale, ulteriori veicoli (Cass. n. 25033/2019). Più recentemente si è pervenuti ad affermare che l'art. 141 cod. ass. non trova applicazione in caso di sinistro in cui risulti coinvolto il solo veicolo del vettore del trasportato essendo in tale ipotesi applicabile l'art. 144 cod. ass., il quale consente al trasportato danneggiato di agire con azione diretta contro l'assicuratore del proprio veicolo chiamando in causa anche il responsabile civile, sicché, "agendo nei confronti dell'impresa di assicurazione del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro, la persona trasportata agisce nei confronti dell'assicuratore del responsabile civile sulla base della fattispecie di cui all'art. 2054 c.c., comma 1" (Cass. n. 17963/2021).
La Suprema Corte rileva che gli oneri probatori previsti, rispettivamente, dall'art. 144 cod. ass. e dall’art. 2054, co. 1, c.c. in capo al danneggiato si appalesano molto diversi, in quanto quest'ultima norma presuppone che venga dal medesimo fornita la prova del fatto costitutivo della pretesa (condotta dolosa o colposa del danneggiante, evento e nesso di causalità che lega quest'ultimo alla prima), mentre per l'esercizio del primo è sufficiente la mera allegazione del trasporto sul veicolo, salva la possibilità per la compagnia assicuratrice di provare il fortuito. Alla luce del contrasto interpretativo venuto a delinearsi sull’argomento, la Cassazione ha, dunque, rimesso la questione al Primo Presidente della Corte.
Danni da cose in custodia: la colpa del danneggiato non basta ad integrare il caso fortuito
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 39965 del 14 dicembre 2021
Nell'ordinanza in esame la Corte di Cassazione affronta il tema del danno da cose in custodia in un giudizio promosso nei confronti del Comune per il risarcimento dei danni riportati dal conducente di un motociclo a seguito di una caduta dovuta ad una buca presente sul manto stradale.
La Suprema Corte ribadisce il consolidato orientamento per cui:
- la responsabilità ex art. 2051 c.c., ha natura oggettiva e discende dall'accertamento del rapporto causale fra la cosa in custodia e il danno, salva la possibilità per il custode di fornire la prova (liberatoria) del caso fortuito, ossia di un elemento esterno che valga ad elidere il nesso causale e che può essere costituito da un fatto naturale e dal fatto di un terzo o della stessa vittima;
- tale essendo la struttura della responsabilità ex art. 2051 c.c., l'onere probatorio gravante sul danneggiato si sostanzia nella duplice dimostrazione dell'esistenza (ed entità) del danno e della sua derivazione causale dalla cosa, residuando a carico del custode -come detto - l'onere di dimostrare la ricorrenza del fortuito;
- nell'ottica della previsione dell'art. 2051 c.c., tutto si gioca dunque sul piano di un accertamento di tipo "causale" (della derivazione del danno dalla cosa e dell'eventuale interruzione di tale nesso per effetto del fortuito), senza che rilevino altri elementi, quali il fatto che la cosa avesse o meno natura "insidiosa" o la circostanza che l'insidia fosse o meno percepibile ed evitabile da parte del danneggiato (trattandosi di elementi consentanei ad una diversa costruzione della responsabilità, condotta alla luce del paradigma dell'art. 2043 c.c.);
- al cospetto dell'art. 2051 c.c., la condotta del danneggiato può quindi rilevare unicamente nella misura in cui valga ad integrare il caso fortuito, ossia presenti caratteri tali da sovrapporsi al modo di essere della cosa e da porsi essa stessa all'origine del danno in via esclusiva.
Secondo i giudici di legittimità, deve ritenersi che, ove il danno consegua alla interazione fra il modo di essere della cosa in custodia e l'agire umano, non basti a escludere il nesso causale fra la cosa e il danno non solo una la condotta lato sensu colposa del danneggiato, richiedendosi anche che la stessa si connoti per oggettive caratteristiche di imprevedibilità ed imprevenibilità che valgano a determinare una definitiva cesura nella serie causale riconducibile alla cosa, ma a maggior ragione una condotta del danneggiato che, senza essere in qualche modo inosservante della normalità dell'esercizio dell'attività esercitata legittimamente sulla cosa […] risulti, e comunque senza che ciò risulti, si profili solo ex post […] tale che, se non fosse stata tenuta nel modo in cui lo è stato, il danno si sarebbe potuto evitare nonostante quella condizione.
In conclusione, secondo la Cassazione, il mero rilievo di una condotta colposa del danneggiato non è automaticamente idoneo a interrompere il nesso causale, che è manifestamente insito nel fatto stesso che la caduta sia originata dalla (prevedibile e prevenibile) interazione fra la condizione pericolosa della cosa e l'agire umano, occorrendo, invece che abbia caratteri tali da farle assumere efficacia causale esclusiva rispetto a quella dello stato della res. Ciò non significa, precisa la Corte, che la condotta del danneggiato - ancorché non integrante il fortuito - non possa assumere rilevanza ai fini della liquidazione del danno cagionato dalla cosa in custodia, ma ciò può avvenire, non all'interno del paradigma dell'art. 2051 c.c., bensì ai sensi dell'art. 1227 c.c. (operante, ex art. 2056 c.c., anche in ambito di responsabilità extracontrattuale), ossia sotto il diverso profilo dell'accertamento del concorso colposo del danneggiato, valutabile sia nel senso di una possibile riduzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa del danneggiato e le conseguenze che ne sono derivate (ex art. 1227 c.c., comma 1), sia nel senso della negazione del risarcimento per i danni che l'attore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza (ex art. 1227 c.c., comma 2), fatta salva, nel secondo caso, la necessità di un'espressa eccezione della controparte.
L'invasione di un cane randagio sulla sede stradale è una circostanza idonea a integrare gli estremi del caso fortuito
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 765 del 12 gennaio 2022
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di danno da cose in custodia, negando la responsabilità dell’ente proprietario della strada statale nel caso in cui un automobilista impatti contro un cane randagio di grossa taglia.
La Suprema Corte osserva preliminarmente come la formulazione dell'art. 2051 c.c. evidenzi chiaramente che:
- la responsabilità ex art. 2051 c.c., postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa;
- ad integrare la responsabilità è necessario (e sufficiente) che il danno sia stato cagionato dalla cosa in custodia, assumendo rilevanza il solo dato oggettivo della derivazione causale del danno dalla cosa, mentre non occorre accertare se il custode sia stato o meno diligente nell'esercizio del suo potere sul bene, giacché il profilo della condotta del custode è […]del tutto estraneo al paradigma della responsabilità delineata dall'art. 2051 c.c.;
- ne consegue che il danneggiato ha il solo onere di provare l'esistenza di un idoneo nesso causale tra la cosa e il danno, mentre al custode spetta di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, nel cui ambito possono essere compresi, oltre al fatto naturale, anche quello del terzo e quello dello stesso danneggiato;
- si tratta, dunque, di un'ipotesi di responsabilità oggettiva con possibilità di prova liberatoria, nel cui ambito il caso fortuito interviene come elemento idoneo ad elidere il nesso causale altrimenti esistente fra la cosa e il danno;
- non può escludersi, invero, che un'eventuale colpa venga fatta specificamente valere dal danneggiato, ma, trattandosi di azione ex art. 2051 c.c., la deduzione di omissioni o violazioni di obblighi di legge, di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode può essere diretta soltanto a rafforzare la prova dello stato della cosa e della sua attitudine a recare danno, sempre ai fini dell'allegazione e della prova del rapporto causale tra la prima e il secondo; né è da escludere che, viceversa, sia il custode a dedurre la conformità della cosa agli obblighi di legge o a prescrizioni tecniche o a criteri di comune prudenza al fine di escludere l'attitudine della cosa a produrre il danno: in entrambi i casi […]si tratta di deduzioni volte a sostenere oppure a negare la derivazione del danno dalla cosa e non, invece, a riconoscere rilevanza al profilo della condotta del custode;
- resta dunque fermo che, prospettato e provato dal danneggiato il nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, la colpa o l'assenza di colpa del custode rimane del tutto irrilevante ai fini dell'affermazione della sua responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c.
Secondo la Cassazione, dunque, ai fini dell'art. 2051 c.c. rileva esclusivamente la sussistenza del nesso causale tra l'uso della strada custodita e il danno, ed eventualmente l'incidenza di un caso fortuito idoneo in via esclusiva a determinarlo, non potendo rilevare l’eventuale mancata apposizione di una recinzione da parte dell’ente proprietario della strada.
I giudici di legittimità ritengono che integri il caso fortuito tutto ciò che non è prevedibile oggettivamente, ovvero tutto ciò che rappresenta un'eccezione alla normale sequenza causale,[…], quale fattore estraneo alla sequenza originaria, avente idoneità causale assorbente e tale da interrompere il nesso con quella precedente, sovrapponendosi ad essa ed elidendone l'efficacia condizionante; ovviamente, anche l'imprevedibilità che vale a connotare il fortuito dev'essere oggettiva - dal punto di vista probabilistico o della causalità adeguata - senza che possa riconoscersi alcuna rilevanza dell'assenza o meno di colpa del custode.
In conclusione, la presenza di un cane su una strada stradale extraurbana, ancorché astrattamente possibile, non può ritenersi concretamente prevedibile o evitabile, ove non sia possibile ravvisare nessuna fonte normativa di carattere legislativo o regolamentare, né alcun principio di comune cautela che giustifichi l'eventuale ricostruzione, in termini generali e astratti, di un principio di regolarità causale che, sulla base dell'id quod plerumque accidit (e dunque […] in forza di una regolarità statistica o di una verosimile probabilità apprezzabile ex ante), valga a rendere ragionevolmente prevedibile ed evitabile l'eventuale sconfinamento di un cane randagio sulla sede stradale.
Le tabelle milanesi previste per la liquidazione del danno da premorienza non garantiscono una liquidazione equa
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 41933 del 29 dicembre 2021
Con l'ordinanza in commento la Corte di Cassazione è chiamata a stabilire se le tabelle milanesi previste per la liquidazione del danno da premorienza siano o meno conformi al parametro dell’equità.
La Suprema Corte, preliminarmente, conferma la correttezza dell’orientamento per cui, in tema di risarcimento del danno biologico, ove la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, l'ammontare del danno spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, in quanto la durata della vita futura, in tal caso, non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica, ma è un dato noto; e, d'altra parte, non è giuridicamente configurabile un danno risarcibile in favore della persona per il tempo successivo alla sua morte.
La Cassazione osserva che le tabelle milanesi, nel dettare i criteri di liquidazione del danno da premorienza, stabiliscono che spetti una liquidazione maggiore se la morte si verifica entro il primo anno o i primi due anni dalla data del sinistro, per poi riconoscere una somma fissa "per ogni ulteriore anno successivo", cioè per ogni anno a partire dal terzo fino al momento della morte. Secondo la Suprema Corte, la premessa per cui il danno è maggiore in prossimità dell'evento per poi decrescere progressivamente fino a stabilizzarsi, non può essere condivisa, in quanto in contrasto con la logica, il diritto e la medicina legale.
Le tabelle milanesi, infatti, finiscono con l'applicare al danno biologico, che è lesione permanente e irreversibile del diritto alla salute, un presupposto non dimostrato, e cioè che quel danno si riduca col passare del tempo. Un simile criterio è accettabile in relazione al danno morale inteso come sofferenza giuridicamente rilevante, perché appartiene alla natura dell'essere umano la capacità di adattarsi (entro certo limiti) anche alle più gravi perdite; per cui si può dire che il dolore diminuisce a mano a mano che l'evento dannoso si allontana nel tempo. Il danno biologico, invece, è per sua natura destinato a permanere e si calcola, col sistema del punto, proprio come invalidità permanente.
I giudici di legittimità osservano che gli anni nei quali il soggetto premorto è sopravvissuto col suo carico di invalidità non possono essere liquidati con una somma minore rispetto ai medesimi anni vissuti da un'altra persona che, viceversa, sia sopravvissuta fino al termine del giudizio e sia morta, magari, molti anni dopo. Per questo motivo, la Suprema Corte ritiene che la tabella milanese sul danno da premorienza si dimostri non equa e, come tale, non possa costituire un utile strumento per la liquidazione del relativo danno.
Nel permanere dell'inerzia del legislatore circa le tabelle di cui all'art. 138 del Codice delle assicurazioni private, la Cassazione si propone, allora, di indicare un criterio alternativo, secondo cui il danno da premorienza deve essere calcolato considerando come punto di partenza (dividendo) la somma che sarebbe spettata al danneggiato, in considerazione dell'età e della percentuale di invalidità, se fosse rimasto in vita fino al termine del giudizio; rispetto a tale cifra, assumendo come divisore gli anni di vita residua secondo le aspettative che derivano dalle tabelle dell'ISTAT, dovrà essere calcolata la cifra dovuta per ogni anno di sopravvivenza, da moltiplicare poi per gli anni di vita effettiva, in modo da pervenire ad un risultato che sia, nei limiti dell'umanamente possibile, maggiormente conforme al criterio dell'equità. Si fa salva, comunque, l’ammissibilità di altri criteri, in particolare di quelli che, ad esempio, applichino il criterio proporzionale soltanto in parte residua, riconoscendo che una quota del risarcimento maturi immediatamente e l'altra in ragione proporzionale al numero di anni effettivamente vissuti.
Gli obblighi di garanzia in capo al medico di pronto soccorso
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 45602 del 13 dicembre 2021
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di accertamento dell'obbligo impeditivo in caso di reato omissivo improprio. In particolare, nel caso di specie, oggetto di accertamento era la condotta tenuta da un medico di pronto soccorso, imputato per il reato di omicidio colposo ex art. 589 c.p., per non aver correttamente valutato lo stato patologico di un paziente ed averlo dimesso senza procedere ad esami ed accertamenti diagnostici, così da cagionarne la morte.
La Suprema Corte afferma, in primo luogo, che l'accertamento dell'obbligo impeditivo è il primo passaggio necessario per individuare il soggetto responsabile del reato omissivo improprio e che l'interprete è tenuto a delimitare l'ambito della posizione di garanzia in modo da imputare al garante i soli eventi che egli sia in grado di dominare. A tal proposito, i giudici di legittimità non condividono l'affermazione secondo la quale il garante, perché risponda dell'evento, debba essere dotato di tutti i poteri impeditivi, essendo richiesto all'agente di porre in essere solo quelli da lui esigibili, osservando che la posizione di garanzia richiede l'esistenza dei poteri impeditivi che […] possono anche concretizzarsi in obblighi diversi (per es. di natura sollecitatoria), e di minore efficacia, rispetto a quelli direttamente e specificamente volti ad impedire il verificarsi dell'evento. Secondo la Cassazione, dunque, l'agente non può rispondere del verificarsi dell'evento se, pur titolare di una posizione di garanzia, non disponga della possibilità di influenzare il corso degli eventi. Per converso, chi ha questa possibilità non risponde se non ha un obbligo giuridico di intervenire per operare la modifica del decorso degli avvenimenti.
Per quanto riguarda, in particolare, l'obbligo di garanzia gravante sul medico di Pronto Soccorso, la Suprema Corte afferma che esso può in generale ritenersi definito dalle specifiche competenze che sono proprie di quella branca della medicina che si definisce medicina d'emergenza o d'urgenza. In tale ambito rientrano l'esecuzione di taluni accertamenti clinici, la decisione circa le cure da prestare e l'individuazione delle prestazioni specialistiche eventualmente necessarie. Correlata a tali doveri può ritenersi la decisione inerente al ricovero del paziente e alla scelta del reparto a ciò idoneo, mentre l'attribuzione della priorità d'intervento, detta triage ospedaliero, è procedura infermieristica. Secondo i giudici, non è esigibile da tale sanitario una competenza diagnostica di livello pari a quella di tutte le altre specializzazioni medico-chirurgiche delle quali si deve occupare trasversalmente nell'intervenire su casi acuti.
La Cassazione, inoltre, precisa che, a fronte della possibilità di una diagnosi differenziale non ancora risolta, costituisce obbligo del medico al quale sia stato sottoposto il caso compiere gli approfondimenti diagnostici necessari per accertare quale sia l'effettiva patologia che affligge il paziente e adeguare le terapie in corso a queste plurime possibilità. Secondo i giudici, l'esclusione di ulteriori accertamenti può […] essere giustificata esclusivamente dalla raggiunta certezza che una di queste patologie possa essere esclusa ovvero, nel caso in cui i trattamenti terapeutici siano incompatibili, che possa essere sospeso quello riferito alla patologia che, in base all'apprezzamento di tutti gli elementi conosciuti o conoscibili, se condotto secondo le regole dell'arte medica, possa essere ritenuto meno probabile, sempre che la patologia meno probabile non abbia caratteristiche di maggiore gravità e possa quindi essere ragionevolmente adottata la scelta di correre il rischio di non curarne una che, se esistente, potrebbe però provocare danni minori rispetto alla mancata cura di quella più grave. In conclusione, fino a quando il dubbio diagnostico non sia stato risolto e non vi sia alcuna incompatibilità tra accertamenti diagnostici e trattamenti medico-chirurgici, il medico che si trovi di fronte alla possibilità di diagnosi differenziale non deve accontentarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente quando non sia in grado, in base alle conoscenze dell'arte medica da lui esigibili (anche nel senso di chiedere pareri specialistici), di escludere patologie alternative, proseguendo gli accertamenti diagnostici e i trattamenti medico-chirurgici necessari.
La responsabilità del professionista sanitario in caso di cooperazione multidisciplinare di più soggetti
Cassazione penale, sezione III, sentenza n. 1 del 3 gennaio 2022
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione chiarisce quali siano i criteri attraverso i quali individuare la responsabilità penale di un professionista sanitario nel caso in cui l'evento morte del paziente sia dovuto ad una pluralità di cause, originate da una cooperazione colposa di più soggetti.
La Suprema Corte ricorda l’orientamento per cui, in tema di colpa professionale, qualora ricorra l'ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario - compreso il personale paramedico - è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all'osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (Cass. n. 24895/2021; Cass. n. 30991/2015).
Secondo la Cassazione, in caso di pluralità di fattori causali, è corretto applicare il principio - accolto sia in sede normativa che dall’ermeneutica giurisprudenziale - dell'equivalenza causale, secondo cui l'azione od omissione dell'agente è considerata causa dell'evento nel quale il reato si concretizza, anche se altre circostanze, di qualsiasi genere - a quello estranee, preesistenti, concomitanti o successive, laddove esse non siano state tali da determinare in maniera autonoma e del tutto indipendente dalle precedenti l'evento - concorrono alla sua produzione perché il comportamento dell'agente ha pur sempre costituito una delle condizioni dell'evento (Cass. n. 2764/1983).
Lesioni colpose gravi o gravissime per violazione delle norme sulla circolazione stradale: confermata la legittimità costituzionale dell’art. 590 bis, co. 1, c.p. che prevede la procedibilità d’ufficio anche se la persona offesa è stata integralmente risarcita
Corte Costituzionale, ordinanza n. 244 del 17 dicembre 2021
Con l’ordinanza in commento la Corte costituzionale si pronuncia sulla questione di legittimità costituzionale dell'art. 590-bis, co. 1, c.p. e del D. Lgs. n. 36/2018, nella parte in cui non prevedono la procedibilità a querela in caso di lesioni colpose stradali gravi o gravissime per le quali la persona offesa risulti integralmente risarcita a seguito dell'evento.
Secondo il giudice rimettente, la disciplina recata dall'art. 590 bis c.p. sarebbe irragionevole, sotto il duplice profilo della carenza di proporzionalità tra mezzi scelti e finalità perseguite e del mancato rispetto del canone di coerenza sistematica dell'ordinamento, in quanto essa prevede la procedibilità d'ufficio anche in relazione alle lesioni stradali gravi nei casi in cui l'autore del fatto abbia integralmente risarcito la vittima e questa abbia scelto di non proporre querela. Ad avviso del giudice a quo, la previsione indiscriminata della procedibilità d'ufficio sia per le lesioni stradali gravi ex art. 590-bis, co. 1, c.p., cui sia seguito il risarcimento del danno in favore della persona offesa, sia per le ipotesi aggravate di cui ai commi successivi della medesima disposizione, realizzerebbe un trattamento omogeneo di situazioni differenti, in contrasto con l'art. 3 Cost., indebitamente equiparando l'automobilista c.d. modello, che abbia sempre rispettato tutte le prescrizioni all'uopo richieste dalla legge e colui il quale circoli ignorando le norme del codice della strada o, in particolare, guidi un mezzo privo di copertura assicurativa.
La Consulta ritiene che le questioni prospettate dal rimettente siano manifestamente infondate, essendo in larga parte analoghe a quelle che sono già state riconosciute non fondate dalla sentenza n. 248/2020. In quell’occasione, la Corte costituzionale, pur riconoscendo che le condotte indicate al primo comma dell'art. 590-bis c.p. sono connotate da “un minor disvalore sul piano della condotta e del grado della colpa” rispetto a quelle contemplate dai commi successivi della disposizione, ha ritenuto che la procedibilità d'ufficio, anche per le prime, non sia manifestamente irragionevole e, pertanto, lesiva dell'art. 3 Cost.
Secondo la Corte, infatti, non può considerarsi “automobilista modello” chi abbia violato, sia pure occasionalmente, le norme attinenti alla circolazione stradale, provocando – in conseguenza di tale violazione – lesioni personali gravi o gravissime a carico di terzi, sicché neppure sotto tale profilo la previsione della procedibilità d'ufficio potrebbe essere ritenuta manifestamente irragionevole, così come non lo è – ancor prima – la scelta legislativa di conferire rilevanza penale a una simile condotta. Per le stesse ragioni non può considerarsi manifestante irragionevole, e pertanto contraria all'art. 3 Cost., la scelta compiuta dal legislatore con il d.lgs. n. 36 del 2018 di confermare la procedibilità d'ufficio del delitto di cui al primo comma dell'art. 590-bis cod. pen., già prevista dalla legge n. 41 del 2016.
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