Newsletter agosto 2022
In sede di legittimità, la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del c.t.u. deve specificamente individuare le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo i punti salienti delle critiche mosse alla consulenza tecnica
Cassazione civile, sez. III, sentenza n. 22532 del 18 luglio 2022
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione ha specificato quali siano gli oneri di allegazione spettanti alla parte in sede di legittimità qualora la stessa lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni raggiunte dal c.t.u. nella propria relazione peritale.
Anzitutto, la Corte ha ribadito un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale l'allegazione, nel ricorso per cassazione, di un mero dissenso scientifico avverso le valutazioni effettuate dal consulente tecnico, che non attinga un vizio nel processo logico seguito dalla Corte territoriale, si traduce in una inammissibile domanda di revisione nel merito del convincimento del giudice (tra le molte, cfr. Cass. n. 282/2009; Cass. n. 12703/2015; Cass. n. 23594/2017).
Per gli Ermellini la parte che in sede di legittimità lamenti l'acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del c.t.u. non può infatti limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l'operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l'onere d'indicare specificamente le circostanze e gli clementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l'apprezzamento dell'incidenza causale del difetto di motivazione (cfr. tra le più recenti Cass. civ., Sez. III, ord., 13/07/2021, n. 19989).
Infine, la Corte ha stabilito che per infirmare, sotto il profilo della insufficienza argomentativa, la motivazione della sentenza che recepisca le conclusioni di una relazione di consulenza tecnica d'ufficio di cui il giudice dichiari di condividere il merito, è necessario che la parte alleghi di avere rivolto critiche alla consulenza stessa già dinanzi al giudice "a quo", e ne trascriva, poi, per autosufficienza, almeno i punti salienti, onde consentirne la valutazione in termini di decisività e di rilevanza, atteso che, diversamente, una mera disamina dei vari passaggi dell'elaborato peritale, corredata da notazioni critiche, si risolverebbe nella prospettazione di un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità (Cass. civ., Sez. I, Ord., 15/11/2017, n. 27136; Cass. Sez. I, 3/6/2016, n. 11482).
La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato
Cassazione civile, sezione VI, sentenza n. 22761 del 20 luglio 2022
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha affrontato la tematica del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, previsto e disciplinato dall’art. 112 c.p.c., individuando i casi in cui il Giudice può incorrere nel vizio di ultrapetizione o extrapetizione.
La Corte ha ritenuto che una siffatta violazione è riscontrabile soltanto quando il giudice abbia pronunciato oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, attribuendo ad una di esse un bene della vita non richiesto (o diverso da quello domandato). Ma spetta al giudice di merito il compito di definire e qualificare la domanda proposta dalla parte, dovendosi riconoscere a detto giudice il potere-dovere di individuare l'esatta natura del rapporto dedotto in giudizio per precisarne il contenuto e gli effetti in relazione alle norme applicabili, con il solo limite di non esorbitare dalle richieste delle parti e di non introdurre nuovi elementi di fatto nell'ambito delle questioni sottoposte al suo esame (cfr., tra le altre, Cass. 12 ottobre 2001, n. 12471; Cass., 20 dicembre 2006, n. 27285).
I Giudici di legittimità hanno, poi, ricordato che il vizio dedotto di ultrapetizione o extrapetizione ricorre quando il giudice del merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri gli elementi obiettivi dell'azione (petitum e causa petendi) e, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), ovvero attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato) (Cass., 21 marzo 2019, n. 8048; Cass., 11 aprile 2018, n. 9002).
Viceversa la Corte ha ritenuto che il vizio di extrapetizione non ricorre nel caso in cui il giudice di merito che abbia esercitato il proprio doveroso compito di interpretazione della domanda - senza esser necessariamente condizionato dalla formula adottata dalla parte e tenendo invece opportunamente conto del contenuto sostanziale della pretesa, come desumibile dalla situazione dedotta in causa e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del giudizio - e si sia poi, nel pronunciare su di essa, attenuto ai limiti della domanda medesima, come sopra interpretata (cfr., Cass., Sez. U., 21 febbraio 2000, n. 27; e Cass. 24 settembre 1999, n. 10493).
La condizione di proponibilità della domanda giudiziale è soddisfatta se vi sia coincidenza soggettiva fra i partecipanti al tentativo di conciliazione e le parti del successivo giudizio e coincidenza oggettiva tra le domande formulate dalla parte attrice e quelle sulle quali si è svolto il tentativo di conciliazione
Cassazione civile, sez. III, ordinanza n. 23072 del 25 luglio 2022
Con l’ordinanza in esame la Cassazione ha indicato quali requisiti debba valutare il Giudice al fine di ritenere soddisfatta la condizione di proponibilità della domanda giudiziale, nelle materie per le quali la legge impone alle parti il tentativo di conciliazione.
La Corte, in primo luogo, ha precisato che il tentativo obbligatorio di conciliazione, proprio per la finalità che esso persegue, che è quella di consentire alle parti di raggiungere in via stragiudiziale un accordo che eviti un contenzioso giudiziario, non può prescindere, ma anzi presuppone, la piena conoscenza in capo alla controparte sia dell'oggetto della pretesa avanzata dalla parte che promuove l'esperimento di conciliazione sia delle ragioni di fatto che alla stessa sono sottese; tale conoscenza non può che essere assicurata mediante l'invio di una istanza di conciliazione che contenga l'indicazione specifica del petitum e delle ragioni che la giustificano (causa petendi).
La Corte, sul punto, ha richiamato una precedente pronuncia di legittimità in materia agraria, secondo la quale il giudice investito di una controversia in materia di contratti agrari, al fine di verificare se la domanda sottoposta al suo esame sia o meno proponibile, ossia di valutare se la parte attrice abbia adempiuto all'onere posto a suo carico dall'art. 46 della legge n. 203 del 1982, deve accertare, prescindendo da ogni altra indagine, che esista non solo perfetta coincidenza soggettiva fra coloro che hanno partecipato al tentativo di conciliazione e quanti hanno assunto, nel successivo giudizio, la qualità di parte, ma anche che le domande formulate dalla parte ricorrente (e da quella resistente in via riconvenzionale) siano le stesse intorno alle quali il tentativo medesimo si è svolto (o si sarebbe dovuto, comunque, svolgere ove avesse avuto luogo) (Cass. 28/07/2005, n. 15802; Cass., sez. 3, 10/06/2019, n. 16281).
La Corte, in definitiva, ha ritenuto di condividere l’orientamento dei giudici di merito secondo il quale al fine di verificare se la domanda sia proponibile, deve accertarsi non solo che sussista coincidenza soggettiva, ma anche che le domande formulate dalla parte attrice siano le stesse sulle quali si è svolto il tentativo di conciliazione.
La clausola contrattuale con la quale si pattuisce che il veicolo danneggiato in un sinistro stradale possa essere riparato solamente presso le carrozzerie autorizzate non è da considerarsi clausola limitativa della responsabilità agli effetti dell'art. 1341 c.c.
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 23415 del 27 luglio 2022
Con la sentenza in commento, la Corte si è occupata dell’efficacia della clausola prevista in un contratto di assicurazione per la rc auto prevedente quale modalità di indennizzo la reintegrazione in forma specifica (ad es., mediante riparazione del veicolo presso una carrozzeria autorizzata), in luogo del risarcimento per equivalente.
La Corte, innanzitutto, ha ritenuto di dare continuità al principio secondo il quale, nel contratto di assicurazione contro i danni, la clausola con cui si pattuisce che l'assicurato sia indennizzato mediante la reintegrazione in forma specifica del danno occorsogli in conseguenza di un sinistro stradale (ad es., mediante riparazione del veicolo presso una carrozzeria autorizzata) non è da considerarsi clausola limitativa della responsabilità agli effetti dell'art. 1341 c.c., ma delimitativa dell'oggetto del contratto, in quanto non limita le conseguenze della colpa o dell'inadempimento e non esclude, ma specifica, il rischio garantito, stabilendo i limiti entro i quali l'assicuratore è tenuto a rivalere l'assicurato.
Gli Ermellini hanno ricordato, infatti, che nell'ambito del contratto di assicurazione, sono da considerare limitative della responsabilità, per gli effetti dell'art. 1341 c.c., le clausole che circoscrivono le conseguenze della colpa o dell'inadempimento o che escludono il rischio garantito, mentre, al contrario, attengono all'oggetto del contratto quelle che concernono il contenuto e i limiti della garanzia assicurativa e, dunque, specificano il rischio garantito (tra le altre, Cass. 10/11/2009, n. 23741 e, recentemente, Cass. 04/02/2021, n. 2660, non mass.) motivo per il quale deve escludersi che siano soggette all'obbligo della specifica approvazione preventiva per iscritto le clausole che si limitano a prevedere, in luogo del risarcimento per equivalente, l'obbligo, per l'assicuratore, di provvedere alla riparazione in forma specifica (eventualmente, come nella specie, attraverso la previsione della riparazione del veicolo presso una carrozzeria convenzionata), la quale costituisce una forma di risarcimento o di indennizzo che consente al danneggiato di ottenere il ristoro del pregiudizio subito mediante la diretta rimozione delle conseguenze dannose e la restitutio in integrum del medesimo bene che costituiva il punto di riferimento oggettivo dell'interesse leso.
Infine, la Corte ha precisato che con siffatta clausola non viene imposto al contratto di assicurazione un peso che rende eccessivamente difficoltosa la realizzazione del diritto dell'assicurato né si consente all'assicuratore di sottrarsi in tutto o in parte alla sua obbligazione o si assoggetta la soddisfazione dell'assicurato all'arbitrio dell'assicuratore e ai tempi da questo imposti per la definitiva liquidazione della somma dovuta; piuttosto, senza determinare alcun significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto di assicurazione (ma, anzi, attraverso una libera stipulazione intesa ad ottenere specifici vantaggi contrattuali a fronte dell'assunzione dell'impegno di rivolgersi ad una carrozzeria convenzionata con l'assicuratore), viene specificato l'oggetto del contratto stesso e vengono pattuite le modalità e la forma con cui l'assicuratore è tenuto a rivalere l'assicurato del danno prodottogli dal sinistro; la clausola in questione, pertanto, non rientra tra quelle limitatrici della responsabilità dell'assicuratore e non richiede per la sua efficacia la specifica approvazione per iscritto del contraente per adesione ai sensi dell'art. 1341 c.c..
La clausola che obbliga l’assicuratore a tenere indenne l’assicurato in relazione a quanto sia tenuto a pagare a titolo di risarcimento di danni causati “in conseguenza di un fatto accidentale” non può essere interpretata nel senso che restino esclusi dalla copertura assicurativa i fatti colposi
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 23762 del 29 luglio 2022
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si è occupata dell’interpretazione della clausola inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile, nella quale si stabilisca che l’assicuratore si obbliga a tenere indenne l’assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare a titolo di risarcimento di danni causati “in conseguenza di un fatto accidentale”.
La Corte ha chiarito preliminarmente che il rischio che forma l’oggetto dell’assicurazione di responsabilità civile è un perimetro al di fuori del quale stanno, da un lato, i fatti dolosi per espressa previsione di legge (art. 1900 c.c.); e dall’altro i fatti dovuti al caso fortuito, perché da essi non può mai sorgere alcuna responsabilità. Ora, l’aggettivo “accidentale” secondo il più autorevole dizionario etimologico della lingua italiana vuol dire “dovuto al caso, casuale, fortuito; contingente, non necessario, non essenziale; secondario, accessorio” (così Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, vol. I, Torino 1961, ad vocem, 82). Dunque “fatto accidentale”, per la lingua italiana, non è che un sinonimo di “fatto fortuito”. Ma una assicurazione della responsabilità civile che descrivesse il rischio assicurato limitandolo ai casi fortuiti sarebbe una assicurazione senza rischio, e perciò nulla ex art. 1895 c.c., giacché da un caso fortuito mai nessuna responsabilità dell’assicurato potrebbe sorgere.
Gli Ermellini hanno ricordato, inoltre, la massima giurisprudenziale secondo la quale la clausola di un contratto di assicurazione che preveda la copertura del rischio per danni conseguenti a “fatti accidentali” va interpretata nel senso che essa si riferisce semplicemente alla condotta colposa, anche se volontaria, in contrapposizione ai fatti dolosi, in quanto “secondo la terminologia giuridica tradizionalmente accettata senza contestazioni, il fatto accidentale è equivalente a fortuito o forza maggiore; di conseguenza appare evidente la contraddizione della previsione del risarcimento dovuto all'assicurato quale civilmente responsabile per danni prodotti a terzi in dipendenza di un fatto accidentale” (ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 4799 del 26/02/2013, Rv. 625316 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 7766 del 30/03/2010, Rv. 612323 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 5273 del 28/02/2008, Rv. 601755 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 4118 del 10/04/1995, Rv. 491716 - 01).
La Corte ha, dunque, ritenuto di non voler dare continuità all’unico precedente di segno contrario (si veda Cass. 4 febbraio 1992 n. 1214) secondo il quale, premesso che “ben possano darsi eventi non dolosi e non accidentali”, ha ammesso la validità della clausola in esame osservando che “l'accidentalità non richiede l'imprevedibilità dell'evento dannoso, ma l'incertezza della sua specificità, sicché si configura quando, pur essendo astrattamente possibile il verificarsi di una evenienza, sia incerto il complesso di fattori che concorrono a produrla secondo le modalità materiali e temporali concretamente verificatasi”.
Tale orientamento è stato, infatti, ritenuto muovere da un presupposto erroneo, poiché è indiscutibile che possano darsi eventi “non dolosi e non fortuiti”: ma un evento non doloso e non fortuito non è altro che un fatto colposo, come tale necessariamente ricompreso nell’oggetto dell’assicurazione della responsabilità civile e sviluppare un argomento oggi divenuto insostenibile, là dove afferma che i “fatti colposi” sono quelli dovuti a colpa del responsabile; mentre quelli “accidentali” sarebbero quelli dovuti al concorso della condotta del responsabile e di un fattore estranee ad esso [..]alla luce del principio, ripetutamente affermato da questa Corte in tema di causalità giuridica, secondo cui il concorso del fatto umano col fatto naturale non esclude né riduce il nesso di causalità tra condotta (colposa) e danno (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618880 - 01).
Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha concluso formulando il seguente principio di diritto: “la clausola inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile, nella quale si stabilisca che l’assicuratore si obbliga a tenere indenne l’assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare a titolo di risarcimento di danni causati “in conseguenza di un fatto accidentale” non può essere interpretata nel senso che restino esclusi dalla copertura assicurativa i fatti colposi, giacché tale interpretazione renderebbe nullo il contratto ai sensi dell’articolo 1895 c.p.c. per l’inesistenza del rischio”.
Non può escludersi in via automatica la rilevanza del nesso parentale fra fratelli ai fini del diritto al risarcimento del danno da sofferenza in ragione della sola lontananza spaziale dal de cuius
Cassazione civile, sezione VI-3, sentenza n. 22397 del 15 luglio 2022
Con la sentenza in commento la Cassazione si è pronunciata in tema di onere della prova del danno da perdita del rapporto parentale da parte dei prossimi congiunti in caso di lontananza spaziale dal de cuius.
La Corte ha, innanzitutto, rilevato che nel giudizio risarcitorio instaurato dagli eredi nonché prossimi congiunti (nella specie madre e fratelli) di un lavoratore deceduto a seguito di infortunio sul lavoro, la prova del danno non patrimoniale da sofferenza interiore per la perdita del familiare può essere fornita mediante presunzione fondata sull'esistenza dello stretto legame di parentela riconducibile all'interno della famiglia nucleare, superabile dalla prova contraria, gravante sul danneggiante, imperniata non sulla mera mancanza di convivenza (che, in tali casi, può rilevare al solo fine di ridurre il risarcimento rispetto a quello spettante secondo gli ordinari criteri di liquidazione), bensì sull'assenza di legame affettivo tra i superstiti e la vittima nonostante il rapporto di parentela.».Pertanto, in tal modo si dà rilievo all'esistenza del rapporto come tale rovesciando sul preteso danneggiante la prova della sua svalutazione nel caso concreto.
Gli Ermellini hanno,dunque, richiamato l'ordinanza n. 18284 del 2021 della Suprema Corte con la quale era stato statuito che in tema di danno non patrimoniale risarcibile derivante da morte causata da un illecito, il pregiudizio risarcibile conseguente alla perdita del rapporto parentale che spetta "iure proprio" ai prossimi congiunti riguarda la lesione della relazione che legava i parenti al defunto e, ove sia provata l'effettività e la consistenza di tale relazione, la mancanza del rapporto di convivenza non è rilevante, non costituendo il connotato minimo ed indispensabile per il riconoscimento del danno.
Secondo la Corte, tuttavia, il ritenere che la estrema lontananza fra fratelli deponga automaticamente, come ha opinato la corte territoriale, nel senso della mancanza di effettività della relazione di fratellanza e, dunque, nel senso di escluderne una dimensione tale da giustificare la sussistenza della sofferenza per la perdita di un fratello o di una sorella, appare nella sostanza affermazione enunciata dalla corte di merito desumendo da un fatto noto, la lontananza geografica, in questo caso estrema (altro continente) per un fratello ed una sorella, meno consistente (relativa al nostro Paese per l'altro fratello), quella di un fatto ignoto, cioè l'assenza di effettività della relazione parentale.
La Corte ha, quindi, concluso affermando che la mera lontananza geografica fra fratelli non sembra apprezzabile, si crede con riferimento a tutti i contesti di provenienza, come idonea a dimostrare la mancanza di effettività. Poteva esserlo i tempi remoti, nei quali le comunicazioni fra persone distanti erano difficili se non impossibili, sicché il vivere in contesti geografici diversi per un tempo consistente, poteva giustificare il ragionamento della sentenza impugnata. Invece, nei tempi attuali, una volta che si consideri che i mezzi di comunicazione odierni consentono di mantenere vivi rapporti familiari anche se a distanza considerevole attraverso le varie tecniche di trasmissione e della voce e delle immagini, il detto ragionamento appare privo di giustificazione inferenziale.
L’obbligo per il veicolo di circolare sulla parte destra della carreggiata viene meno nel caso in cui il margine destro non sia percorribile per motivi di sicurezza
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 23057 del 25 luglio 2022
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha evidenziato i limiti di applicabilità dell’art. 143 del Codice delle Assicurazioni prevedente l’obbligo per il veicolo di circolare il più vicino possibile al lato destro della carreggiata.
In primo luogo, la Corte ha ricordato che l'art. 143 C.d.S., indica quale deve essere la " Posizione dei veicoli sulla carreggiata" e al comma 1 prescrive che " 1. I veicoli devono circolare sulla parte destra della carreggiata e in prossimità del margine destro della medesima, anche quando la strada è libera."
Gli Ermellini, hanno, tuttavia, evidenziato che l'obbligo di marcia in prossimità del margine destro della strada è un concetto necessariamente relazionale, ovvero il contenuto esatto dell'obbligo di tenere la destra e del comportamento esigibile dal conducente del veicolo nel caso di specie deve conformarsi, previo accertamento in fatto, allo stato dei luoghi, non essendo esigibile dal conducente che marci il più possibile a destra nelle situazioni in cui il margine destro non è percorribile con sicurezza (es. per la presenza di veicoli illegittimamente parcheggiati sulla sede stradale; per la presenza in quel punto di buche o dossi atti a minare la stabilità del veicolo, per la presenza di rami sporgenti o di materiale inerte quale il brecciolino sulla sede stradale, pericoloso in particolare per la stabilità di un veicolo a due ruote).
La Corte ha, dunque, concluso ritenendo che la Corte di Appello non aveva correttamente applicato la predetta norma laddove ha posto a carico del conducente del veicolo che precede l'obbligo incondizionato di posizionarsi il più vicino possibile al margine destro della carreggiata, in quanto questo obbligo, che corrisponde ad una regola di sicurezza per tutti gli utenti della strada, deve pur sempre relazionarsi alla situazione concreta dei luoghi. Deve escludersi quindi che l'obbligo dell'automobilista o del motociclista di tenere la destra comporti la necessità di marciare in prossimità al margine destro anche laddove risulti accertata la presenza, sulla sede stradale in corrispondenza del margine destro, di un elemento estraneo atto a minare la sicurezza e la stabilità del veicolo (accertamento che deve essere compiuto avendo riguardo all'idoneità di quanto si trova sulla sede stradale a costituire un pericolo in particolare per il tipo di mezzo coinvolto nell'incidente.
Il principio dell’affidamento nell’ambito della circolazione stradale
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 29361 del 25 luglio 2022
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione penale ha delineato i confini del c.d. principio dell’affidamento nell’ambito della circolazione stradale.
In primo luogo, la Corte ha evidenziato che, in tema di circolazione stradale, il principio dell'affidamento trova un temperamento, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, nell'opposto principio secondo il quale l'utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della prevedibilità (Sez. 4, n. 27513 del 10/05/2017, Mulas, Rv. 269997; Sez. 4, n. 5691 del 2/2/2016, Tettamanti, Rv. 265981). Nell'ambito della circolazione stradale tale principio è sotteso ad assicurare la regolarità della circolazione, evitando l'effetto paralizzante di dover agire prospettandosi tutte le altrui possibili trascuratezze. Il principio di affidamento, d'altra parte, sarebbe da connettere pure al carattere personale e rimproverabile della responsabilità colposa, circoscrivendo entro limiti plausibili ed umanamente esigibili l'obbligo di rapportarsi alle altrui condotte.
La Corte ha, quindi, concluso affermando che la possibilità dì fare affidamento sull'altrui diligenza viene meno quando l'agente e gravato da un obbligo di controllo o sorveglianza nei confronti dì terzi; o, quando, in relazione a particolari contingenze concrete, sia possibile prevedere che altri non si atterrà alle regole cautelari che disciplinano la sua attività. Si registra in ambito stradale, la tendenza ad escludere o limitare al massimo la possibilità dì fare affidamento sull'altrui correttezza. Non può essere escluso del tutto che contingenze particolari possano rendere la condotta inosservante non soggettivamente rimproverabile a causa, ad esempio, della imprevedibilità della condotta di guida dell'altro soggetto coinvolto nel sinistro. Tuttavia, tale ponderazione non può essere meramente ipotetica, congetturale, ma deve di necessità fondarsi su emergenze concrete e risolutive, onde evitare che l'apprezzamento in ordine alla colpa sia tutto affidato all'imponderabile soggettivismo del giudice. (Cass., Sez. 4, n. 42100 del 14 ottobre 2021, Lascano; non mass mata).
L’esame dell’etilometro può essere valido solo se vengono rispettati i requisiti previsti dal d.P.R. n. 495/1992
Tribunale di Bolzano, sezione penale, sentenza n. 381 del 25 luglio 2022
Con la sentenza in esame, il Tribunale di Bolzano ha chiarito quali siano i requisiti che devono rispettare gli etilometri secondo l’art. 379, co. 5, 6, 7 e 8 del D.P.R. n. 495/1992 (Regolamento di esecuzione del Codice della Strada) al fine di garantire l’affidabilità dei risultati forniti dagli stessi.
Anzitutto, il Tribunale ricorda che dai commi 5, 6, 7 e 8 dell’art. 379 d.P.R. n. 495 del 1992 (regolamento di esecuzione del codice della strada) si desume che: a) gli etilometri devono rispondere ai requisiti stabiliti con disciplinare tecnico approvato con decreto del Ministero dei Trasporti e della Navigazione di concerto con il Ministro della Sanità (comma 5); b) essi sono soggetti alla preventiva omologazione da parte della direzione generale della M.T.C. che vi provvede sulla base delle verifiche e prove effettuate dal Centro Superiore Ricerche e Prove Autoveicolo (c.d. CSRPAD) in modo tale da verificarne la rispondenza ai requisiti prescritti (comma 6); c) i medesimi apparecchi, prima della loro concreta utilizzazione, devono essere sottoposti a verifiche e prove presso il citato CSRPAD, da cui deriva la necessità della loro sottoposizione ad una visita preventiva (comma 7) secondo le procedure stabilite dallo stesso Ministero dei Trasporti, che si risolve, in effetti, nella c.d. taratura obbligatoria annuale, il cui esito positivo deve essere annotato sul libretto dell’etilometro, con la precisazione che, in caso di esito negativo e prove, l’etilometro è ritirato dall’uso (comma 8). Questo complesso normativo deve essere poi, raccordato con le prescrizioni relative al disciplinare tecnico richiamato dal comma 5 dell’esaminato art. 379 d.P.R. n. 495 del 1992, che venne precedentemente approvato con decreto del Ministero dei Trasporti n. 196 del 22 maggio 1990. Esso sancisce all’art. 4- che ogni elemento deve essere accompagnato dal libretto metrologico che contiene dati identificativi dell’apparecchio misuratore (costruttore, matricola, conformità, omologazione) e la registrazione delle operazioni di controllo subite dall’apparecchio presso il Centro prove del Ministero dei trasporti. Al riguardo si aggiunga che l’allegato al citato D.M., art. 2, comma 10, dispone che l’apparecchio deve essere dotato di dispositivo che permette di verificare se lo strumento resti calibrato. È, poi importante ,mettere in risalto come lo stesso allegato, art. 3, comma 8, (intitolato verifica di buon funzionamento) stabilisca che: la verifica di un numero soddisfacente di elementi interni dello strumento; la verifica del giusto svolgimento del ciclo di misura; la verifica della giusta calibratura. Gli strumenti devono procedere automaticamente alla verifica del buon funzionamento prima di ogni misura visualizzandone il risultato e dopo ogni misura che abbia portato ad un risultato superiore al valore massimo consentito (Cass. sez. 4, n. 3920 del 17/12/2020, Aliberti).L’omologazione, rilasciata dal Ministero dei trasporti – Direzione generale della M.T.C., a domanda del costruttore o di un suo mandatario (art. 3, comma 1, D.M. 196/1990) è valida solo a nome del richiedente e non è trasmissibile a soggetti diversi (art. 192 d.P.R. n. 495 del 1992). Ogni etilometro deve riportare su una targhetta inamovibile, oltre agli estremi dell’omologazione conseguita e del numero di identificazione dell’apparecchio, l’indicazione del nome e del costruttore (art. 4 comma 1 D.M. cit.).
Nel caso di specie, il Tribunale di Bolzano ha ritenuto che vi erano delle difformità e dei vizi tali da inficiare l’affidabilità ed il valore probatorio dei risultati dei test effettuati con l’apparecchio, ritenendo spettare al PM l’onere di fornire la prova dell’omologazione dell’etilometro e della sua sottoposizione alle verifiche periodiche previste dalla legge, nel caso in cui l’imputato abbia assolto all’onere di allegazione avente ad oggetto la contestazione del buon funzionamento dell’apparecchio (cfr. Cass. Sez. 4, n. 3201 del 12/12/2019, Rv. 278032 – 01 “In tema di guida in stato di ebbrezza, è configurabile a carico del pubblico ministero l’onere di fornire la prova dell’omologazione dell’etilometro e della sua sottoposizione alle verifiche periodiche previste dalla legge nel caso di contestazione da parte dell’imputato del buon funzionamento dell’apparecchio.
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