12.2021

Newsletter dicembre 2021

 

 

 

È nulla la sentenza deliberata senza assegnare alle parti i termini ex art. 190 c.p.c. ovvero senza attendere la loro scadenza                                           

Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza n. 36596 del 25 novembre 2021

 

Con la sentenza in commento le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale esistente circa la sussistenza o meno della nullità della sentenza per il solo fatto che la stessa sia stata deliberata prima della scadenza anche di uno solo dei termini concessi ai sensi dell’art. 190 c.p.c.

 

Le Sezioni Unite, risolvendo il contrasto giurisprudenziale, hanno affermato il seguente principio di diritto: la parte che proponga l'impugnazione della sentenza d'appello deducendo la nullità della medesima per non aver avuto la possibilità di esporre le proprie difese conclusive ovvero per replicare alla comparsa conclusionale avversaria non ha alcun onere di indicare in concreto quali argomentazioni sarebbe stato necessario addurre in prospettiva di una diversa soluzione del merito della controversia; la violazione determinata dall'avere il giudice deciso la controversia senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ovvero senza attendere la loro scadenza, comporta di per sé la nullità della sentenza per impedimento frapposto alla possibilità dei difensori delle parti di svolgere con completezza il diritto di difesa, in quanto la violazione del principio del contraddittorio, al quale il diritto di difesa si associa, non è riferibile solo all'atto introduttivo del giudizio, ma implica che il contraddittorio e la difesa si realizzino in piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo.

 

 

Le spese di a.t.p. vanno sempre poste a carico del ricorrente                                 

Cassazione civile, sezione VI-2, ordinanza n. 35510 del 19 novembre 2021

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia sulla regolamentazione delle spese nel giudizio di accertamento tecnico preventivo, stabilendo in capo a quale parte debbano essere poste le spese relative al compenso del consulente tecnico d’ufficio.

 

La Suprema Corte ricorda il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il procedimento di accertamento tecnico preventivo ex art. 696 c.p.c. e segg. si conclude con il deposito della relazione di consulenza tecnica, cui segue la liquidazione del compenso al consulente nominato dal giudice, senza che possa essere adottato alcun altro provvedimento relativo al regolamento delle spese tra le parti, stante la mancanza dei presupposti sui quali il giudice deve necessariamente basare la propria statuizione in ordine alle spese ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c. Ne consegue che il provvedimento di liquidazione delle spese a carico (anche) di una parte diversa dal ricorrente tenuto ad anticiparle - non è previsto dalla legge, ha natura decisoria e carattere definitivo, e può perciò essere impugnato con ricorso straordinario per cassazione.

 

Secondo la Cassazione, dunque, essendo il regolamento delle spese ancorato alla valutazione della soccombenza in giudizio, in quanto presuppone l'accertamento della fondatezza o meno della pretesa fatta valere dall'attore, che esula dalla funzione dell'accertamento tecnico preventivo e resta di esclusiva competenza del giudizio di merito, [...] le spese dell'accertamento tecnico preventivo devono essere poste, a conclusione della procedura, a carico della parte richiedente, e saranno prese in considerazione, nel successivo giudizio di merito ove l'accertamento tecnico sarà acquisito, come spese giudiziali, da porre, salva l'ipotesi di compensazione, a carico del soccombente.

 

 

Limiti di ammissibilità dei capitoli di prova testimoniale valutativi o formulati negativamente

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 35146 del 18 novembre 2021                         

 

Nell'ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di prova testimoniale, in particolare con riferimento ai requisiti di ammissibilità dei capitoli di prova orale nel caso in cui gli stessi abbiano ad oggetto circostanze formulate negativamente o che richiedono ai testimoni la formulazione di valutazioni.

 

La Suprema Corte afferma che è erroneo ritenere inammissibile la prova per testi perché avente ad oggetto circostanze "formulate negativamente". Infatti, nessuna norma di legge e nessun principio desumibile in via interpretativa impedisce di provare per testimoni che un fatto non sia accaduto o non esista. Secondo la Cassazione, l'inaccettabile opinione che il capitolo di prova testimoniale debba essere formulato in modo positivo, [...] oltre che erronea in diritto è anche manifestamente insostenibile sul piano della logica [...]. Chiedere, infatti, a taluno di negare che un fatto sia vero equivale, sul piano della logica, a chiedergli di affermare che quel fatto non sia vero. Sicché l'opinione che non ammette la possibilità di formulare capitoli di prova testimoniale in modo negativo perviene al paradosso di ammettere o negare la prova non già in base al suo contenuto oggettivo, ma in base al tipo di risposta che si sollecita dal testimone [...] e si pone in contrasto con il millenario canone logico della reciprocità, secondo cui affermare che A non esiste è affermazione equivalente a negare che A esista.

 

La Corte di Cassazione afferma, inoltre, che è incongruo, sul piano della logica, ritenere valutativa l’istanza con cui si chiede di provare per testimoni che un ciclomotore sia finito in una buca e sia caduto. Secondo i giudici di legittimità, infatti, "valutativa" deve definirsi l'istanza istruttoria intesa a sollecitare dal testimone un giudizio. Ma riferire se un oggetto reale fosse visibile o non visibile non è un giudizio, è una percezione sensoriale, ed i testimoni, secondo la giurisprudenza costante, possono essere ammessi a deporre su circostanze cadenti sotto la comune percezione sensoria, essendo loro precluso solo di esprimere giudizi di natura tecnica. Dunque, il testimone può, in determinati casi, anche esprimere giudizi, quando si tratti di apprezzamenti di assoluta immediatezza, praticamente inscindibili dalla percezione dello stesso fatto storico. [...] Resterà comunque sempre ferma, per il giudice, la possibilità, all'esito della prova, di reputarne irrilevante il contenuto, quando la deposizione testimoniale non abbia saputo indicare i dati obiettivi e modalità specifiche della situazione concreta, che possano far uscire la percezione sensoria da un ambito puramente soggettivo e trasformarla in un convincimento scaturente obiettivamente dal fatto. Questo, però, ex post, dopo avere raccolto la deposizione, e non già ex ante, in sede di valutazione dell'ammissibilità della prova.

 

 

RC Auto: il terzo trasportato all’interno del veicolo danneggiato non può testimoniare           

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 35552 del 19 novembre 2021

 

Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla capacità a testimoniare del terzo trasportato nel giudizio instaurato dal proprietario del veicolo danneggiato a seguito di un sinistro stradale.

 

La Suprema Corte ricorda che, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, l'incapacità a deporre prevista dall'art. 246 c.p.c. si verifica quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c., tale da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia in discussione.

 

A tale riguardo, la Cassazione osserva che il terzo trasportato all'interno di un veicolo danneggiato dal sinistro stradale dedotto in giudizio dal proprietario del medesimo veicolo, in quanto chiamato a testimoniare in ordine alla effettiva verificazione di un fatto nel quale è stato personalmente e direttamente coinvolto e ad attestarne le conseguenti occorrenze materiali, non possa non considerarsi portatore di un interesse (misurabile alla stregua di quello previsto dall'art. 100 c.p.c.) pienamente idoneo a legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, dovendo ritenersi limitata, l'eventuale dedotta inesistenza attuale di alcun danno a carico di detto terzo, all'eventuale riscontro della fondatezza nel merito della prospettabile pretesa avanzabile in sede di partecipazione al giudizio, e non già al riscontro della legittimazione a detta partecipazione, cui sola è riferita la previsione di cui all'art. 246 c.p.c.

 

 

RC Auto: nell’azione diretta ai sensi dell’art. 149 del D. Lgs. n. 209 del 2005 il responsabile civile è litisconsorte necessario                                                                                             

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 37566 del 30 novembre 2021

 

Con l'ordinanza in commento la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in merito alla necessità di integrare il contraddittorio nei confronti del responsabile civile in caso di azione diretta del danneggiato, nell'ambito di un sinistro stradale, nei confronti della propria compagnia di assicurazione, ai sensi dell’art. 149 del D. Lgs. n. 209 del 2005.

 

La Suprema Corte ribadisce quanto dalla stessa già affermato nella pronuncia n. 21896/2017, secondo la quale in caso di azione diretta del danneggiato, nell'ambito di un sinistro stradale, nei confronti della propria compagnia di assicurazione, ai sensi del D. Lgs. n. 209 del 2005, ex art. 149, sussiste il litisconsorzio necessario anche nei confronti del responsabile civile poiché: "(...) il litisconsorzio risulta essere necessario al fine di evitare che il danneggiante responsabile possa affermare l'inopponibilità, nei suoi confronti, dell'accertamento giudiziale operato verso l'assicuratore del danneggiato, posto che i due assicuratori dovranno necessariamente regolare tra loro i relativi rapporti (D. Lgs. n. 209 del 2005, art. 149, comma 3)".

 

Secondo la Cassazione, tale conclusione si giustifica in considerazione dell'art. 144 Codice delle Assicurazioni private, comma 3, il quale dispone che quando la vittima propone l'azione diretta nei confronti dell'assicuratore del responsabile ha l'obbligo di convenire, altresì, quale litisconsorte necessario, il responsabile del sinistro, identificato nel proprietario del mezzo. Del resto, l'azione che la legge offre al danneggiato nei confronti del proprio assicuratore [...] non è diversa da quella regolata dall'art. 144 cit.; ne dà conferma in tal senso l'art. 149, comma 6, che attribuisce alla vittima la stessa azione regolata dalla norma precedente. Ciò rende necessaria la partecipazione al giudizio anche del responsabile del danno (da sinistro stradale) all'origine della pretesa risarcitoria, a tanto non ostando il fatto che essa fosse diretta, ai sensi dell'art. 149 cod. ass., nei confronti della società assicuratrice dello stesso danneggiato. Ed invero, anche nella procedura di indennizzo diretto disciplinata dalla norma da ultimo citata, il responsabile civile deve essere convenuto in giudizio, quale litisconsorte necessario.

 

In conclusione, nel caso di specie è stato ritenuto applicabile il principio secondo il quale quando risulta integrata la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto l'integrazione del contraddittorio, né da quello di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell'art. 354 c.p.c., comma 1, resta viziato l'intero processo, pertanto s'impone l'annullamento delle pronunce emesse ed il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure.

 

 

Il pagamento del premio assicurativo della polizza r.c. auto, in un momento successivo all’irrogazione della sanzione amministrativa ex art. 193 C.d.s., non ha effetti retroattivi

Cassazione civile, sezione VI-2, ordinanza n. 32191 del 5 novembre 2021                           

 

Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in merito all’effetti retroattivi del pagamento del premio assicurativo di una polizza per la rc auto nel caso in cui al contraente assicurato venga irrogata una sanzione ex art. 193 C.d.s. nel periodo di sospensione della copertura.

 

Nel caso di specie, la Polizia locale aveva contestato alla ricorrente la mancata copertura assicurativa dell'auto parcheggiata, con conseguente irrogazione di una sanzione amministrativa. La donna, subito dopo aver ricevuto tale contestazione, nella medesima giornata aveva pagato il premio con retrodatazione della decorrenza della copertura assicurativa ed aveva, in seguito, proposto opposizione al verbale di accertamento, deducendo la presenza della copertura assicurativa dell'auto e chiedendo, dunque, l'annullamento del predetto verbale.

 

La Suprema Corte innanzitutto premette che è irrilevante che il veicolo di proprietà della ricorrente fosse semplicemente parcheggiato e ribadisce che, in tema di assicurazione obbligatoria della R.C.A., la sospensione della copertura può essere invocata dall'assicuratore nei confronti del danneggiato in caso di mancato pagamento del premio o della rata del premio inerente al periodo successivo alla scadenza del certificato, come nel caso in cui il premio successivo al primo sia stato pagato dopo la scadenza del periodo di tolleranza di quindici giorni di cui all'art. 1901 c.c., comma 1, richiamato nella L. n. 990 del 1969, art. 7.

 

Del resto, la Cassazione ricorda che, in tema di infrazioni al codice della strada, l'illecito previsto dall'art. 193 C.d.S., comma 2 (circolazione senza la copertura dell'assicurazione) ricorre anche nel caso in cui sia sospesa la copertura assicurativa del veicolo, in quanto la sospensione non riguarda i soli rapporti di natura contrattuale tra assicurato ed assicuratore, ma anche la posizione degli eventuali terzi danneggiati.

 

Secondo i giudici di legittimità, il pagamento del premio da parte della ricorrente senza dubbio non ha esplicato effetti retroattivi, in quanto non rileva, con riferimento al sinistro accaduto nel periodo in cui la garanzia assicurativa sia sospesa, il pagamento del premio successivamente effettuato, stante che la mancanza della copertura assicurativa al momento del verificarsi del sinistro ha irrevocabilmente prodotto la irrisarcibilità dello stesso da parte dell'assicuratore.

 

 

RC Auto: la richiesta di risarcimento formulata dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore del responsabile civile è sempre valida se idonea ad accertare le responsabilità, stimare il danno e formulare l’offerta

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 36142 del 23 novembre 2021                         

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito ai requisiti che deve soddisfare la richiesta di risarcimento formulata dal danneggiato nei confronti della compagnia assicurativa avversaria a pena di improponibilità della domanda giudiziale prevista dall’art. 145 del cod.ass.

 

La Suprema Corte osserva che secondo il recente insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la richiesta di risarcimento che la vittima di un sinistro stradale deve inviare all'assicuratore del responsabile, a pena di improponibilità della domanda giudiziale ex art. 145 cod. ass., è idonea a produrre il suo effetto in tutti i casi in cui contenga gli elementi necessari e sufficienti perché l’assicuratore possa accertare le responsabilità, stimare il danno e formulare l'offerta, essendo pertanto irrilevante, ai fini della proponibilità suddetta, la circostanza che la richiesta sia priva di uno o più dei contenuti previsti dall'art. 148 cod. ass., qualora gli elementi mancanti siano superflui ai fini della formulazione dell'offerta risarcitoria da parte dell'assicuratore.

 

Secondo i giudici di legittimità, in questo caso è necessario propendere per un’interpretazione che tenga conto della collaborazione tra danneggiato e assicuratore della r.c.a., nella fase stragiudiziale, che impone correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.), e del fatto che il nostro intero ordinamento civile è permeato da un assetto teleologico delle forme, in virtù del quale sia in ambito sostanziale, sia in ambito processuale, nessuna nullità o invalidità è predicabile quando l'atto abbia comunque raggiunto il suo scopo. Di conseguenza, anche il combinato disposto degli artt. 145 e 148 cod. ass. [...] va interpretato alla luce del principio della validità degli atti comunque idonei al raggiungimento dello scopo, e per quanto detto è sempre idonea al raggiungimento dello scopo la richiesta stragiudiziale di risarcimento quando sia priva di elementi che, pur espressamente richiesti dalla legge, siano nel caso concreto da ritenere superflui al fine di accertare le responsabilità e stimare il danno.

 

 

L'accettazione senza riserve del pagamento tardivo del premio non rappresenta una rinuncia alla sospensione della copertura assicurativa

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 38216 del 3 dicembre 2021                             

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito all’efficacia della garanzia in caso di accettazione da parte dell’assicuratore senza riserve del pagamento del premio oltre la scadenza prevista ai sensi dell'art. 1901 c.c.

 

Nel caso di specie, l’assicurata sosteneva che l'assicuratore, accettando il pagamento tardivo del premio, non avesse affatto rinunciato implicitamente alla sospensione della garanzia, ma piuttosto che incassato il premio senza riserve, avrebbe per ciò solo tacitamente rinunciato alla sospensione dell'efficacia del contratto previsto dall'art. 1901 c.c.

 

La Suprema Corte ricorda che nei contratti di assicurazione con rateizzazione del premio, una volta scaduto il termine di pagamento delle rate successive alla prima, l'efficacia del contratto resta sospesa a partire dal quindicesimo giorno successivo alla scadenza, ai sensi dell'art. 1901 c.c., senza che rilevi l'accettazione, da parte dell'assicuratore, di un pagamento tardivo. Quest'ultimo, infatti, non costituisce una rinunzia, da parte dell'assicuratore, alla sospensione della garanzia assicurativa, ma impedisce solo la risoluzione di diritto del contratto. Di una "rinuncia" dell'assicuratore agli effetti della sospensione potrebbe parlarsi solo quando tale rinuncia avvenga in modo espresso o, se tacito, inequivoco.

 

Del resto, osserva la Corte, nel nostro ordinamento il solo silenzio che può produrre effetti giuridici è il silenzio circostanziato, cioè accompagnato dal compimento di atti o fatti che rendono inequivoco il significato del silenzio: come nel caso del creditore che rifiuti il pagamento e restituisca la quietanza. Ma colui il quale accetta il pagamento tardivo, senza nulla aggiungere, non tiene affatto una condotta inequivocamente dimostrativa della volontà di rinuncia alla sospensione degli effetti del contratto.

 

In conclusione, alla luce di queste premesse, la Corte di Cassazione enuncia il seguente principio di diritto: non è indennizzabile il sinistro avvenuto dopo lo spirare del termine previsto dall'art. 1901 c.c., a nulla rilevando che l'assicuratore abbia accettato senza riserve il pagamento tardivo del premio.

 

 

Il ritardo nella diagnosi può ledere il diritto all’autodeterminazione del paziente

Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 34813 del 17 novembre 2021

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione nel caso di ritardata diagnosi della malattia infausta da parte dei sanitari.

 

La Suprema Corte innanzitutto ribadisce che sul tema ciò che rileva non è la lesione del bene salute o della perdita di chance, quanto la lesione di un bene autonomo di per sé risarcibile in quanto tutelato dalla Costituzione. Secondo i giudici di legittimità, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, bisogna valutare se nonostante l'inutilità della diagnosi precoce ai fini dell'evitabilità dell'evento infausto, questa avrebbe consentito alla paziente di autodeterminare il suo tempo rimanente con coscienza e consapevolezza. Infatti, il mancato accertamento del nesso causale tra la condotta del sanitario e il decesso della paziente può fondare la non risarcibilità del danno non patrimoniale correlato al decesso della stessa ma non anche la non risarcibilità di un diverso bene giuridico quale per l'appunto la lesione al diritto di autodeterminarsi.

 

La Suprema Corte, richiamando le proprie precedenti pronunce Cass. n. 29983/2019 e Cass. n. 7260/2018, afferma che in caso di colpevoli ritardi nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l'area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, ma include il danno da perdita di un "ventaglio" di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima, ovvero "non solo l'eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all'attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d'indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all'ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine", giacche, tutte queste scelte "appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali" .

 

In conclusione, la Cassazione afferma il principio di diritto per cui in tema di danno alla persona, conseguente a responsabilità medica, integra l'esistenza di un danno risarcibile alla persona l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in quanto essa nega al paziente, oltre che di essere messo nelle condizioni di scegliere "cosa fare", nell'ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all'esito infausto, anche di essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche, in vista e fino a quell'esito.

 

 

Responsabilità dell’avvocato: non è sufficiente il rilascio da parte del cliente della procura al fine di provare l’osservanza dell’obbligo di informazione nel rapporto con la parte assistita

Cassazione civile, sezione VI-2, ordinanza n. 34993 del 17 novembre 2021                         

 

Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di responsabilità professionale dell’avvocato per mancata informazione ai clienti circa la scarsa probabilità di accoglimento della loro domanda.

 

La Suprema Corte ricorda sul punto la consolidata giurisprudenza di legittimità per cui nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c., impone all'avvocato di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole.

 

A tal fine incombe sull’avvocato l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, per la quale è insufficiente il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello "jus postulandi", attesa la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio.

 

 

Il giudice è tenuto a motivare l’applicazione di criteri di liquidazione del danno non patrimoniale diversi da quelli previsti dalle Tabelle di Milano                                                             

Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 38077 del 2 dicembre 2021
 

Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione affronta la tematica dell’obbligo di motivazione da parte del Giudice in caso di liquidazione del danno non patrimoniale attraverso l’applicazione di parametri diversi da quelli contenuti nelleTabelle di Milano.

 

A tal proposito, la Suprema Corte, in sostanza, riafferma la centralità delle tabelle milanesi nella liquidazione del danno non patrimoniale, stabilendo che i parametri delle “Tabelle” predisposte dal Tribunale di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno biologico ovvero quale criterio di riscontro e verifica della liquidazione diversa alla quale si sia pervenuti. Di conseguenza, è da ritenere incongrua la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avendo riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l'adozione dei parametri tratti dalle “Tabelle” di Milano consenta di pervenire.

 

 

Responsabilità da cose in custodia: il riparto delle responsabilità tra l’Ente titolare della strada e la società appaltatrice in caso di presenza di cantieri edili sulla strada                                  

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 32095 del 5 novembre 2021

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di riparto delle responsabilità in caso di caduta del motociclista per la presenza sul suolo stradale di un tombino sconnesso, non segnalato ed appartenente all’impresa che gestisce il servizio idrico.

 

Secondo la Cassazione, anche ammettendo che vi possa essere una qualche responsabilità della società appaltatrice l'appartenenza della strada teatro del sinistro al Comune [...] non consentirebbe comunque a quest'ultimo di andare esente da ogni responsabilità.

 

La Cassazione richiama il proprio orientamento in tema di cantieri edili collocati sul suolo stradale, secondo cui qualora l'area di cantiere risulti completamente enucleata, delimitata ed affidata all'esclusiva custodia dell'appaltatore, con conseguente assoluto divieto su di essa del traffico veicolare e pedonale, dei danni subiti all'interno di questa area risponde esclusivamente l'appaltatore, che ne è l'unico custode. Allorquando, invece, l'area su cui vengono eseguiti i lavori e insiste il cantiere risulti ancora adibita al traffico e, quindi, utilizzata a fini di circolazione, denotando questa situazione la conservazione della custodia da parte dell'ente titolare della strada, sia pure insieme all'appaltatore, consegue che la responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c. sussiste sia a carico dell'appaltatore che dell'ente.

 

Di conseguenza, secondo i giudici di legittimità, la responsabilità della società appaltatrice potrebbe, al più, presentarsi come solidale, potendo il danneggiato tranquillamente chiedere l'integrale risarcimento all’Ente titolare della strada, fatto salvo il diritto di regresso dell’Ente nei confronti della società appaltatrice, in caso di sussistenza dei relativi presupposti.

 

 

Responsabilità da cosa in custodia: è escluso il risarcimento del danno per il passante che negligentemente non si avveda della sconnessione del marciapiede                   

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 38025 del 2 dicembre 2021

 

Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di responsabilità da cose in custodia, chiarendo quali siano gli obblighi gravanti in capo al custode e quali, invece, le cautele che debba adottare il danneggiato.

 

La Suprema Corte ribadisce i principi dalla stessa costantemente affermati in tema di responsabilità da cose in custodia, secondo i quali:

a) il criterio di imputazione della responsabilità fondato sul rapporto di custodia di cui all'art. 2051 c.c. opera in termini rigorosamente oggettivi;

b) il danneggiato ha il solo onere di provare il nesso di causa tra la cosa in custodia (a prescindere dalla sua pericolosità o dalle sue caratteristiche intrinseche) ed il danno, mentre al custode spetta l'onere della prova liberatoria del caso fortuito, inteso come fattore che, in base ai principi della regolarità o adeguatezza causale, esclude il nesso eziologico tra cosa e danno, ed è comprensivo del fatto del terzo e della condotta incauta della vittima;

c) in particolare, il caso fortuito è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode;

d) le modifiche improvvise della struttura della cosa (tra cui ad es. buche, macchie d'olio ecc.) divengono, col trascorrere del tempo dall'accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa, di cui il custode deve rispondere;

e) la deduzione di omissioni, violazione di obblighi di legge, di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell'art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, e a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l'evento dannoso.

 

Alla luce di questi principi, secondo la Cassazione è possibile attribuire la causa dell’incidente unicamente alla condotta incauta della vittima laddove, nel giudizio di merito, si accerti che pur essendo evidente che il ciglio del marciapiede della strada comunale che stava percorrendo era caratterizzato da sconnessioni, rimarchevoli imperfezioni e disomogeneità, quest’ultima, anziché transitare sulla restante parte dello stesso, lo aveva ugualmente impegnato, senza però al contempo osservare la particolare prudenza in tal caso necessaria, secondo la comune diligenza, al fine di evitare di inciampare nelle relative anomalie.

 

 

RC Auto: il modulo di constatazione amichevole non è vincolante per il giudice che accerti l’incompatibilità oggettiva tra il fatto ivi descritto e le conseguenze del sinistro accertate in giudizio

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 37752 del 1 dicembre 2021                                             

 

Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in merito al valore probatorio da attribuire al modulo di constatazione amichevole in materia di responsabilità da sinistro stradale.

 

La Suprema Corte afferma che in materia di responsabilità da sinistro stradale, ogni valutazione sulla portata confessoria del modulo di constatazione amichevole d'incidente deve ritenersi preclusa dall'esistenza di un'accertata incompatibilità oggettiva tra il fatto come descritto in tale documento e le conseguenze del sinistro come accertate in giudizio, in specie tra l'entità dei danni riportati dal veicolo, la situazione dei luoghi e complessivamente la dinamica del sinistro descritta nel medesimo modello di constatazione amichevole invocato.

 

 

Responsabilità derivante dall’esercizio di attività sportiva: è irrilevante l’occasione e la finalità per le quali l’attività è svolta, mentre può rilevare la qualità dell’atleta danneggiante            

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 35602 del 19 novembre 2021

 

Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di responsabilità derivante dall’esercizio di attività sportiva, nel caso in cui un atleta, durante la prova d'esame di arti marziali, subisca delle lesioni per essere stato erroneamente colpito dal compagno.

 

La Suprema Corte ribadisce il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l'attività agonistica implica l'accettazione del rischio ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano, per cui i danni da essi eventualmente sofferti rientranti nell'alea normale ricadono sugli stessi, onde è sufficiente che gli organizzatori, al fine di sottrarsi ad ogni responsabilità, abbiano predisposto le normali cautele atte a contenere il rischio nei limiti confacenti alla specifica attività sportiva, nel rispetto di eventuali regolamenti sportivi.

 

Secondo la Cassazione, è necessario, tuttavia, distinguere se:

a) il danno è causato pur nel rispetto delle regole del gioco, caso nel quale più che far valere l'attività sportiva in sé come scriminante, vale osservare che il danno si connota in termini di imprevedibilità in ragione dello scopo della norma violata: le regole del gioco infatti possono essere a presidio del gioco stesso, come a presidio della incolumità dell'avversario [...]. In questi casi se lo sportivo procura danno, pur nel rispetto della regola di gioco, il danno può non porsi a carico del danneggiante per difetto di colpa;

b) il danno è causato colpevolmente in violazione delle regole del gioco, e segnatamente di quelle che mirano a tutelare l'incolumità altrui. In questo caso non si tratta di una scriminante, né tipica (consenso dell'avente diritto), né atipica, che altrimenti, l'attività sportiva sarebbe da considerare come illecita, ed invece è attività consentita e socialmente utile. Piuttosto, si tratta di valutare la rilevanza della colpa. In questo secondo caso non è sufficiente dire che lo sportivo accetta il rischio e dunque non può pretendere il risarcimento di alcun danno che derivi dall'attività sportiva: ad esempio, il rischio di condotte dolose dell'avversario. Infatti, è escluso dalla regola dell'accettazione del rischio il fatto doloso o dovuto a colpa particolarmente grave.

 

La Suprema Corte afferma che, ai fini della valutazione della colpa e, quindi, della responsabilità è determinante l'individuazione della norma violata e dello scopo di essa. Nell'accertamento della colpa, potrà rilevare la qualità dell'atleta, nel senso che altro è lo sportivo professionista, da cui è richiesta maggiore attenzione, altro il dilettante in quanto quest'ultimo non ha le capacità tecniche di chi invece esercita l'attività sportiva su basi professionali e che meglio sa conformare la propria condotta alle regole del gioco. Secondo la Cassazione, tale regola vale sia che l'attività sportiva venga svolta in forma agonistica, sia che si tratti di un allenamento o di un esame sportivo: non v'è motivo di distinguere a seconda della "occasione" e delle finalità per cui l'attività sportiva è svolta (se un allenamento, una prova o una competizione), mentre una distinzione rilevante può farsi rispetto ai dilettanti, proprio perché la risarcibilità del danno, come si è detto, dipende dal tipo di difformità del comportamento rispetto alla regola cautelare.

 

 

La responsabilità della società committente ed il c.d. rischio elettivo in caso di infortunio del lavoratore                                                                     

Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza n. 35364 del 18 novembre 2021

 

Con l'ordinanza in esame la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in merito alla responsabilità della società committente per l’infortunio dell’altrui lavoratore in caso di mancata segnalazione della situazione di pericolo e del lavoratore in caso di c.d. rischio elettivo.

 

La Suprema Corte afferma che sussiste la responsabilità della società committente, nella cui disponibilità permane l'ambiente di lavoro, essendo essa obbligata ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell'impresa appaltatrice, misure che consistono nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel predisporre tutte le misure necessarie a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l'appaltatrice nell'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata.

 

Secondo l’ormai consolidato orientamento della Cassazione, invece, del c.d. rischio elettivo e della conseguente responsabilità esclusiva del lavoratore può parlarsi soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, creando egli stesso condizioni di rischio estraneo a quello connesso alle normali modalità del lavoro da svolgere, restando diversamente irrilevante la condotta colposa del lavoratore, sia sotto il profilo causale che sotto quello dell'entità del risarcimento, atteso che la ratio di ogni normativa antinfortunistica è proprio quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia dei lavoratori.

 

 

L'inadempimento degli obblighi di prevenzione da parte al datore di lavoro non è incompatibile con l'esistenza di un comportamento colposo del lavoratore                                            

Cassazione civile, sezione VI-lavoro, ordinanza n. 36865 del 26 novembre 2021

 

Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di infortunio sul lavoro, soffermandosi sulla possibilità di riscontrare il concorso colposo del lavoratore anche in presenza di un inadempimento degli obblighi datoriali di prevenzione.

 

La Suprema Corte ricorda che il lavoratore è onerato della sola prova della "nocività" del lavoro, mentre spetta al datore dimostrare di avere adottato tutte le misure cautelari idonee ad impedire l'evento (Cass. n. 30679/2019). Dal momento che la responsabilità datoriale si fonda pur sempre sulla violazione di obblighi di comportamento, a protezione della salute del lavoratore, imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, purché concretamente individuati (Cass. n. 14066/2019) [...] la regola di diritto è quella per cui una volta addotta ed individuata una cautela (specificamente prevista ex ante da norme o genericamente deducibile dalle vigenti regole di prudenza, perizia e diligenza richiedibili nel caso concreto) che fosse idonea ad impedire l'evento e che non sia stata attuata, ne resta radicata la responsabilità datoriale. Di conseguenza, se la radice causale ultima dell'evento, pur in presenza di un comportamento del lavoratore astrattamente non rispettoso di regole cautelari, si radichi nella mancata adozione, da parte del datore di lavoro, di forme tipiche o atipiche di prevenzione, come detto individuabili e pretendibili ex ante, la cui ricorrenza avrebbe consentito, nonostante tutto, di impedire con significativa probabilità l'evento, la responsabilità rimane radicata esclusivamente in capo al datore di lavoro.

 

Secondo la Cassazione, tuttavia, non si può escludere che il comportamento colposo del lavoratore, autonomamente intrapreso ma non tale da non integrare gli estremi del rischio elettivo, possa determinare un concorso di colpa, da regolare ai sensi dell'art. 1227 c.c. [...] allorquando l'evento dannoso non possa dirsi frutto dell'incidenza causale decisiva del solo inadempimento datoriale, ma derivi dalla indissolubile coesistenza di comportamenti colposi di ambo le parti del rapporto di lavoro. Infatti, l'inadempimento datoriale agli obblighi di prevenzione non è [...] in sé incompatibile con l'esistenza di un comportamento del lavoratore qualificabile come colposo, in quanto di ciò non vi è traccia negli artt. 2087 e 1227 c.c., né in alcuna altra norma dell'ordinamento. Del resto, le norme sanciscono l'obbligo del lavoratore di osservare i doveri di diligenza (art. 2104 c.c.), anche a tutela della propria o altrui incolumità [...] ed è indubbia la sussistenza di tratti del sistema prevenzionistico che coinvolgono anche i lavoratori, così come è scontato che i rapporti interprivati restino regolati anche dal generalissimo principio di autoresponsabilità per le proprie azioni.

 

 

Omicidio stradale: l’assunzione di sostanze stupefacenti non è sufficiente ad integrare l’aggravante di cui all’abrogato comma 4, n. 2 dell’art. 589 c.p., ma è necessario dimostrare l’effettivo stato di alterazione psicofisica del conducente                                                              

Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 40543 del 10 novembre 2021

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in un caso di omicidio stradale avvenuto in epoca antecedente all’introduzione dell’art. 589 bis c.p., soffermandosi, in particolare, sull’applicabilità della circostanza aggravante di cui all’abrogato comma 4, n. 2 dell’art. 589 c.p.

 

Nel caso di specie, la Corte d’appello aveva condannato l’imputato per omicidio colposo, applicando l'aggravante di cui all'art. 589 c.p., comma 4, n. 2, per essersi quest’ultimo posto alla guida in stato di alterazione psicofisica, la prova del quale è stata desunta dall'esito delle analisi volte alla ricerca di positività a sostanze stupefacenti.

 

La Suprema Corte afferma che per la configurabilità di tale circostanza aggravante, non è sufficiente che il guidatore abbia assunto sostanze stupefacenti prima di porsi alla guida ma è necessario che egli intraprenda detta condotta in stato di alterazione psico-fisica determinato dalla assunzione di droghe. A tal proposito, viene richiamata la sentenza n. 19035/2017, secondo cui l'alterazione richiesta per l'integrazione del reato di guida sotto l'influenza di sostanze stupefacenti, previsto dall'art. 187 C.d.S., esige l'accertamento di uno stato di coscienza semplicemente modificato dall'assunzione delle predette sostanze, che non coincide necessariamente con una condizione di intossicazione.

 

Secondo la Cassazione, dunque, ai fini del giudizio di sussistenza della predetta aggravante è necessario provare non solo la precedente assunzione di sostanze stupefacenti ma anche che l'agente abbia guidato in stato d'alterazione causato da tale assunzione, non essendo possibile desumere ciò dai soli elementi sintomatici, ma essendo necessario sia un accertamento tecnico-biologico, sia che altre circostanze provino la situazione di alterazione psico-fisica.

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