02.2022

Newsletter febbraio 2022

 

Il litisconsorzio previsto dall’art. 140, comma 4, cod. ass. è solo processuale, ovvero facoltativo iniziale e necessario solo in relazione alle modalità del suo svolgimento                             

Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 42073 del 30 dicembre 2021

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta la tematica dell’interpretazione dell’art. 140, co. 4, primo periodo, del Codice delle assicurazioni private, che disciplina il litisconsorzio esistente in caso di sinistro stradale coinvolgente più danneggiati.

 

La Suprema Corte ritiene che diverse siano le ragioni, testuali e sistematiche [...] che militano in favore della lettura della norma nel senso che dalla stessa emerga l'indicazione di un litisconsorzio necessario (solo) processuale - ossia [...] facoltativo iniziale e necessario solo in relazione alle modalità del suo svolgimento - e nel solo caso in cui venga proposta da alcuna delle parti espressa domanda di accertamento, positivo o negativo, di incapienza del massimale assicurativo e di conseguente riduzione proporzionale degli indennizzi.

 

A tal proposito, la Cassazione osserva che l'art. 102 c.p.c., comma 1 è a ragione considerata una norma in bianco. La previsione [...] stabilisce che vi è litisconsorzio necessario ogni volta in cui la decisione debba essere resa nel contraddittorio di tutti i soggetti coinvolti in una determinata situazione sostanziale: lascia, però, indeterminati i presupposti di applicazione dell'istituto, in quanto non indica quali siano le situazioni plurisoggettive nelle quali la decisione deve essere effettivamente assunta nei confronti di più parti; il comma 2, a sua volta, dà per presupposta l'individuazione dei casi in cui tale situazione si verifichi e si limita ad avvertire che, ove essa sussista e i soggetti in essa coinvolti non siano stati chiamati in giudizio, il vizio dell'integrità del contraddittorio potrà e dovrà essere sanato con ordine del giudice.

 

Secondo i giudici di legittimità, l'art. 140 cod. ass., comma 4, per la sua testuale formulazione ed anche per la sua collocazione topografica e la ratio sottesa, non è norma in grado di riempire il rinvio postulato dall'art. 102 c.p.c in quanto:

- non dice che la domanda del danneggiato, quando ricorra l'ipotesi di pluralità di danneggiati nello stesso sinistro (o quando, ricorrendo tale ipotesi, si prospetti anche un problema di eventuale supero del massimale) la domanda giudiziale, da chiunque proposta e dunque anche se da o nei confronti di uno solo dei danneggiati, "deve" essere estesa anche nei confronti di tutti oltre che dell'impresa assicuratrice e del responsabile;

- […] dà per presupposto che un giudizio sia stato proposto (qui la rilevanza dell'uso del participio passato "giudizi promossi") e che lo sia stato nei confronti di più danneggiati (qui la rilevanza dell'uso del plurale "persone danneggiate")[…];

- in tale contesto è dunque da escludere che ricorra un litisconsorzio necessario iniziale[...];

- ne discende anche che l'affermata "sussistenza" di "litisconsorzio necessario" e la prevista "applicazione" dell'art. 102 c.p.c. [...] altro non possono significare se non l'indicazione della necessità che il successivo svolgimento del processo litisconsortile assicuri la partecipazione di tutti i soggetti (già) in esso coinvolti: una situazione dunque di litisconsorzio facoltativo iniziale, cui la norma si collega qualificandola quale ipotesi di litisconsorzio necessario c.d. processuale, che, come noto, si configura quando più soggetti, non litisconsorti necessari ab origine e una volta divenuti "parti" di un processo, debbono rimanere tali in tutte le sue fasi.

 

Secondo la Suprema Corte, al presupposto soggettivo del coinvolgimento nel processo di più danneggiati è necessario che si aggiunga anche quello oggettivo della proposizione di una domanda di accertamento, positivo o negativo, del superamento del limite di massimale e di riduzione proporzionale degli indennizzi. Ciò in quanto il litisconsorzio necessario, anche nella sua configurazione processuale, legata e discendente al modo in cui la domanda è proposta e funzionale al successivo sviluppo del processo nelle sue fasi e gradi, costituisce pur sempre un limite alla libertà di agire in giudizio e come tale va soggetta, per le ragioni dette, a restrittiva interpretazione. In quanto tale esso intanto può giustificarsi in quanto risponda ad apprezzabili e concrete ragioni che rendano appunto necessario che si giunga ad un accertamento unitario nei confronti di tutti i soggetti inizialmente coinvolti nel giudizio, e tali ragioni, nell'ipotesi di giudizio promosso da o contro alcuni danneggiati a seguito di sinistro stradale nei confronti della compagnia assicuratrice del responsabile, possono ravvisarsi solo nel caso in cui si faccia anche questione dell'eventuale superamento del massimale assicurato.

 

In conclusione, la Cassazione enuncia il seguente principio di diritto: "l'art. 140 cod. ass., comma 4, primo periodo, conformemente all'esigenza di interpretare restrittivamente le previsioni di litisconsorzio necessario in quanto introducenti restrizioni alla libertà di azione, va inteso nel senso che il litisconsorzio necessario ha natura solo processuale e non sostanziale; esso dunque presuppone che il processo sia promosso da o contro o più danneggiati (oltre che nei confronti dell'assicuratore e del responsabile civile) o in esso intervenga uno o più altri danneggiati - litisconsorzio facoltativo iniziale - e sussiste solo se venga proposta da alcuna delle parti domanda di accertamento, positivo o negativo, di incapienza del massimale assicurativo e di conseguente riduzione proporzionale dell'indennizzo".

 

 

I poteri del consulente tecnico d’ufficio ed i casi di nullità dell'elaborato peritale

Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza 3086 del 1° febbraio 2022                                     

 

Con la sentenza in commento le Sezioni Unite della Corte di Cassazione chiariscono quali sono i poteri esercitabili dal consulente tecnico d’ufficio, evidenziando i casi di nullità assoluta e relativa della C.T.U. ed i termini perentori per la contestazione della relativa nullità in giudizio.

 

La Suprema Corte, nel chiarire quali siano i poteri esercitabili dal C.T.U., cui il giudice demanda le indagini che si rendono necessarie ai fini del giudizio, afferma i seguenti principi di diritto: il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell'osservanza del contraddittorio delle parti, può:

-  accertare tutti i fatti inerenti all'oggetto della lite il cui accertamento si rende necessario al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non si tratti dei fatti principali che è onere delle parti allegare a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti fatti principali rilevabili d’ufficio [...];

-  acquisire, anche prescindendo dall'attività di allegazione delle parti, non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a carico delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che essi non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e, salvo quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d'ufficio;

- in materia di esame contabile ai sensi dell'art. 198 c.p.c., [...] acquisire, anche prescindendo dall'attività di allegazione delle parti, tutti i documenti che si rende necessario acquisire al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, anche se essi siano diretti a provare i fatti principali posti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni.

 

Chiarito ciò, le Sezioni Unite affermano che l’accertamento, da parte del consulente tecnico d’ufficio: - di fatti diversi dai fatti principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d'ufficio, o l'acquisizione nei predetti limiti di documenti che il consulente nominato dal giudice accerti o acquisisca al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli in violazione del contraddittorio delle parti è fonte di nullità relativa rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all'atto viziato o alla notizia di esso.

- di fatti principali diversi da quelli dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d'ufficio, che il consulente nominato dal giudice accerti nel rispondere ai quesiti sottopostigli dal giudice viola il principio della domanda ed il principio dispositivo ed è fonte di nullità assoluta rilevabile d'ufficio o, in difetto, di motivo di impugnazione da farsi a valere ai sensi dell'art. 161 c.p.c.

 

 

Il conducente ed il terzo danneggiato sono legittimati ad agire ex art. 144 cod.ass anche se il veicolo su cui circolano non è assicurato al momento del sinistro stradale                    

Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 1179 del 17 gennaio 2022

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta la tematica della legittimazione ad agire ex art. 144 cod.ass. da parte del conducente e del terzo trasportato nel caso in cui il veicolo su cui tali soggetti circolano al momento del sinistro stradale non sia coperto da valida polizza assicurativa.

 

La Suprema Corte afferma che l'art. 122 non incide sulla legittimazione all'esercizio dell'azione diretta di cui all'art. 144. La norma, infatti, detta un obbligo relativo al mettere in circolazione un veicolo; ciò però non significa che il soggetto "danneggiato per sinistro causato dalla circolazione di un veicolo" trovi, se intenda esercitarla, l'azione dell'art. 144, "sbarrata" dall'inammissibilità, essendosi su due piani evidentemente diversi. Infatti, sottolinea la Cassazione, qualora il legislatore avesse inteso deprivare un danneggiato dalla fruizione dell'azione ex art. 144, perché il veicolo su cui circolava quando avvenne il sinistro e/o di cui era il proprietario non era stato assicurato, avrebbe dovuto prevedere in modo inequivoco una siffatta, pesante sanzione, tale da comportare l'esclusione dalla, per così dire, certezza economica del risarcimento, la quale è l'origine dell'assicurazione obbligatoria r.c.a.

 

La Cassazione osserva che, se per il trasportato "occasionale", privo di qualunque specifico rapporto con la proprietà e/o l'utilizzo del veicolo, ciò sarebbe contrario ad ogni principio di uguale tutela, come sancito nel più alto livello normativo, per il proprietario e il conducente comunque si tratterebbe di una deminutio di tale calibro da rendere appunto necessaria una scelta espressa da parte del legislatore, considerato che, tra l'altro, un'assoluta inammissibilità impedirebbe di fruire degli effetti del contratto assicurativo dell'altro veicolo anche nel caso in cui questo rivesta il ruolo di responsabile civile in misura completa, senza alcun concorso di colpa riconducibile a chi però in tal modo non sarebbe legittimato ad agire ex art. 144, pervenendo così a un'assoluta illogicità nel bilanciamento dei valori e delle correlate tutele normative.

 

 

La domanda risarcitoria è improponibile se il danneggiato non consente all’assicuratore l’ispezione del mezzo                                                                                                                       

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 1756 del 20 gennaio 2022

 

Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia sulla proponibilità di una domanda di risarcimento a seguito di sinistro stradale nel caso in cui il danneggiato non metta a disposizione dell’assicurazione il proprio veicolo per l’ispezione e la successiva perizia dei danni.

 

La Suprema Corte osserva che l'art. 145 del Codice delle assicurazioni, come anche affermato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 111/2012), ha un chiaro intento deflattivo, essendone evidente la finalità di razionalizzazione del contenzioso giudiziario, notoriamente inflazionato, nella materia dei sinistri stradali, anche da liti bagatellari, intento il cui raggiungimento, tuttavia, non è affidato soltanto alla prevista dilazione temporale (invero modesta) di sessanta/novanta giorni per la proposizione della domanda risarcitoria, ma - soprattutto - al procedimento ex art. 148 Codice assicurazioni private, che, nel prescrivere una partecipazione attiva dell'assicuratore alla trattativa ante causam, mira a propiziare una conciliazione precontenziosa.

 

La Cassazione, richiamando un proprio precedente orientamento (Cass. n. 1829/2018), afferma che, affinché la procedura di risarcimento descritta dall'art. 148 cod. ass. possa operare è indispensabile che la compagnia assicuratrice sia posta in condizione di adempiere al dovere impostole e, cioè, di formulare un'“offerta congrua”; perché ciò sia possibile è necessario sia un presupposto formale, ovvero la trasmissione di una richiesta contenente elementi (indicati nella stessa norma), sufficienti a permettere all'assicuratore di accertare le responsabilità, stimare il danno e formulare l'offerta, sia un requisito sostanziale, e ciò in quanto la collaborazione tra danneggiato e assicuratore della r.c.a., nella fase stragiudiziale, impone correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.).

 

Secondo i giudici di legittimità, viene meno a tale dovere di collaborazione - subendone, come conseguenza, l'improponibilità della domanda risarcitoria - il danneggiato che si è sottratto all'ispezione del mezzo, attività utile alla ricostruzione della dinamica dell'incidente e alla formulazione di una congrua offerta risarcitoria. Pertanto, non può dubitarsi del fatto che l'esito dell'improcedibilità della domanda - quale conseguenza del rifiuto a consentire di ispezionare (per poi periziare) il mezzo incidentato, in particolar modo quando la pretesa risarcitoria […] abbia ad oggetto i soli danni al veicolo - sia conforme a quell'interpretazione "teleologica" dell'art. 145 cod. ass. (v. anche Cass. n. 15445/2021).

 

 

La volontà di rinunciare da parte dell’assicuratore all’effetto sospensivo dell’assicurazione per mancato pagamento del premio non può essere desunta dalla mera accettazione del tardivo pagamento del premio ma richiede una volontà negoziale, ricognitiva del diritto all’indennizzo e abdicativa del favorevole effetto di legge                                                                 

Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 4357 del 10 febbraio 2022

 

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione, dopo aver chiarito che l’eccezione di sospensione dell'assicurazione per mancato pagamento del premio consiste in una mera eccezione in senso lato, torna ad interessarsi della questione se l'accettazione senza riserve da parte dell'assicuratore di una rata di premio costituisca comportamento incompatibile con la volontà dell'assicuratore di avvalersi della sospensione.

 

I giudici di legittimità rilevano che, sul punto, sono presenti in giurisprudenza due orientamenti contrapposti. Secondo un primo orientamento l'accettazione senza riserve del premio pagato tardivamente costituisce rinuncia alla sospensione dell'efficacia del contratto; mentre, secondo un altro indirizzo più rigoroso, la volontà di rinunciare all'effetto sospensivo, che può essere manifestata anche per facta concludentia, deve essere chiara ed inequivoca. A tal proposito la Cassazione aveva affermato che la rinunzia agli effetti della sospensione non può essere desunta dall'aver l'assicuratore accettato il tardivo pagamento del premio, ma deve manifestarsi con una specifica espressione di rinunzia da parte dell'assicuratore. Secondo tale indirizzo la volontà di rinunciare all'effetto sospensivo richiede un comportamento dell'assicuratore che implichi una volontà negoziale, ricognitiva del diritto all'indennizzo ed abdicativa del favorevole effetto di legge, volontà quindi che non può essere desunta dalla mera accettazione del tardivo pagamento del premio, trattandosi di circostanza di per sé equivoca (Cass. n. 9554/2002; Cass. n. 2383/1990).

 

La Suprema Corte, ribadendo quanto già affermato con ordinanza n. 38216 del 3 dicembre 2021, condivide il secondo orientamento, ritenendolo più coerente con la disciplina legale del mancato pagamento del premio. A tal proposito, evidenzia che l'art. 1460, comma 2, e l'art. 1901 c.c., operano su piani diversi. Mentre l'art. 1901 c.c., incide sull'efficacia del contratto assicurativo, ossia l'idoneità a produrre effetti giuridici ("l'assicurazione resta sospesa"), l'art. 1460 c.c., riguarda l'esecuzione del contratto. Mentre la prima norma contempla la paralisi dell'effetto negoziale determinata dalla legge, la seconda norma attiene all'attuazione del contratto a cura della parte. L'esecuzione che dovrebbe essere prestata in base alla buona fede (art. 1460, comma 2) concerne quindi non il contratto meramente inadempiuto dalla controparte, ma il contratto i cui effetti sono sospesi ex lege per la rilevanza che l'ordinamento attribuisce al premio quale compartecipazione del singolo assicurato alla comunione dei rischi. Il darvi quindi esecuzione, in ottemperanza al dovere della buona fede oggettiva, presuppone che, a fronte del tardivo pagamento del premio, sia intervenuta una manifestazione negoziale, da parte dell'assicuratore, abdicativa dell'effetto sospensivo dell'efficacia dell'assicurazione. Soltanto in presenza di tale volontà negoziale sarebbe contrario a buona fede non dare esecuzione al contratto di assicurazione per il quale è intervenuto il tardivo pagamento del premio.

 

Alla luce di ciò, la Cassazione enuncia i seguenti principi di diritto:

“La sospensione dell'assicurazione per mancato pagamento del premio costituisce l'oggetto di eccezione in senso lato”. “La volontà di rinunciare all'effetto sospensivo dell'assicurazione per mancato pagamento del premio richiede un comportamento dell'assicuratore che implichi una volontà negoziale, ricognitiva del diritto all'indennizzo ed abdicativa del favorevole effetto di legge, e non può essere desunta dalla mera accettazione del tardivo pagamento del premio”.

 

 

La mora dell’assicuratore della R.C.A. nei confronti del danneggiato in un sinistro stradale

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 4668 del 14 febbraio 2022                               

 

Nell'ordinanza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema della mora debendi dell’assicuratore della r.c.a. nei confronti della vittima di un sinistro stradale.

 

La Suprema Corte innanzitutto ricorda che l'assicuratore della r.c.a. è debitore in via diretta d'una obbligazione risarcitoria nei confronti del terzo danneggiato (art. 144 cod. ass.), la quale va adempiuta nel termine stabilito dalla legge, che nel caso di morte o lesioni personali causate da persona assicurata da una impresa assicuratrice in bonis è di 90 giorni decorrenti da quello in cui la vittima ha richiesto per iscritto il risarcimento (art. 148 cod. ass.). Superato questo termine legale di adempimento anche l'assicuratore della r.c.a. - come qualsiasi altro debitore inadempiente - va incontro agli effetti della mora, a meno che non dimostri che il ritardo sia dovuto a causa a lui non imputabile, ex art. 1218 c.c. (Cass. n. 28811/2019; Cass. n. 1083/2011).

 

La Cassazione osserva che la mora dell'assicuratore della r.c.a. nei confronti del danneggiato ha conseguenze diverse a seconda che il massimale sia capiente o incapiente. Sino a quando il massimale resti capiente rispetto al danno causato dall'assicurato al terzo, la mora dell'assicuratore è giuridicamente irrilevante, perché resta assorbita dalla mora dell'assicurato. Quest'ultimo infatti, in quanto autore di un fatto illecito, è tenuto al pagamento degli interessi (compensativi) di mora dal giorno dell'illecito, ai sensi dell'art. 1219 c.c., comma 2, n. 1, interessi che costituiscono una delle voci del risarcimento spettante al terzo. L'assicuratore della r.c.a. ha l'obbligo di pagare al terzo danneggiato il medesimo risarcimento a quegli dovuto dall'assicurato: sia a titolo di capitale, sia a titolo di interessi. Pertanto, gli interessi compensativi dovuti dall'assicurato al danneggiato ai sensi dell'art. 1219 c.c. sono ipso facto dovuti anche dall'assicuratore, e vanno calcolati secondo i criteri stabiliti da Cass. SS. UU., sent. n. 1712/1995.

 

Quando, invece, il danno causato dall'assicurato eccede il massimale, l'obbligazione dell'assicuratore nei confronti del terzo danneggiato ha per oggetto l'intero massimale e, dal momento che esso è una somma di denaro certa, liquida ed esigibile, l'obbligazione di pagarlo interamente è un'obbligazione di valuta. In caso di mora, l'assicuratore sarà tenuto al pagamento degli interessi legali dal giorno della mora, ed eventualmente del maggior danno di cui all'art. 1224 c.c., comma 2. Quando l'assicuratore della r.c.a. sia tenuto al pagamento dell'intero massimale, e non adempia nei termini di legge, non può ovviamente più pretendere che le conseguenze della (sua) mora restino contenute nel limite del massimale. Quel limite, infatti, concerne una garanzia per fatto altrui, e cioè il risarcimento del danno causato dall'assicurato; ma se l'assicuratore della r.c.a. debba versare alla vittima […] l'intero massimale e non lo faccia nei termini di legge, tale ritardo sarà imputabile a lui, non al fatto dell'assicurato. Pertanto in virtù del principio di autoresponsabilità (per effetto del quale ciascuno deve sopportare le conseguenze giuridiche delle proprie azioni od omissioni) l'assicuratore in mora nel pagamento dell'intero massimale sarà tenuto a sopportare gli effetti della mora stessa senza limiti di sorta. In questo caso infatti le conseguenze della mora scaturiscono dall'inadempimento dell'assicuratore, e non dall'illecito dell'assicurato (Cass. n. 22054/2017; Cass. 2525/1998; Cass. n. 6356/1980). L'assicuratore che ritardi il pagamento dell'intero massimale va incontro alle conseguenze cui si espone il debitore che non adempia una obbligazione di valuta e sarà, dunque, tenuto al pagamento degli interessi di mora al saggio legale (art. 1224 c.c., comma 1). Se poi il creditore lo chieda e lo dimostri, gli spetterà il risarcimento del "maggior danno" di cui all'art. 1224 c.c., comma 2.

 

Per quanto riguarda il come l'assicuratore possa liberarsi degli effetti della mora, la Cassazione osserva che il legislatore, con valutazione a ante, ha ritenuto che tre mesi sono di norma sufficienti a chi esercita una impresa di assicurazioni per accertare le responsabilità, stimare il danno e risarcire la vittima. Se quel termine viene superato, diventa onere dell'assicuratore vincere la presunzione di colpa posta a suo carico dall'art. 1218 c.c. Tale presunzione può essere vinta dal debitore dimostrando la causa non imputabile, e cioè l'assenza di colpa, la quale va giudicata col criterio di cui all'art. 1176 c.c., ossia valutando se il debitore abbia o non abbia tenuto una condotta conforme a quella che avrebbe tenuto, nelle medesime circostanza, un debitore di media diligenza. Poiché l'assicuratore della r.c.a. non è un debitore qualsiasi, ma un debitore qualificato dalla veste professionale […], deve adempiere le proprie obbligazioni non già con la diligenza esigibile da qualunque persona di media avvedutezza, ma con la axacta diligentia esigibile da chiunque eserciti professionalmente un'attività economica, ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2.

 

In conclusione, la Cassazione enuncia i seguenti principi di diritto:

“L'assicuratore della r.c.a. è in mora, nei confronti della vittima, una volta spirato il termine di cui all'art. 148 cod. ass., commi 1 o 2. L'assicuratore in mora è tenuto:

a) se il debito è inferiore al massimale al pagamento degli stessi interessi compensativi dovuti dal responsabile ex art. 1219 c.c., calcolati al saggio e sul montante stabiliti da Cass. S. U. 1712/95;

b) se il debito è superiore al massimale al pagamento degli interessi di mora sul massimale stesso, ex art. 1224 c.c., commi 1 o 2”.

“L'assicuratore della r.c.a., quando sia scaduto lo spatium deliberandi di cui all'art. 148 cod. ass., può evitare gli effetti della mora o attraverso l'offerta reale o secondo gli usi; o attraverso il deposito liberatorio di cui all'art. 140 cod. ass.; oppure dimostrando che l'inadempimento è dipeso da causa non imputabile. Né la difficoltosa ricostruzione della dinamica del sinistro; né l'intervento di assicuratori sociali; né la mancanza di prona di alcune delle voci di danno richieste dalla vittima costituiscono, di per sé cause di esclusione della mora dell'assicuratore”.

 

 

 

Scontro con un animale selvatico all’interno di un Parco Nazionale: chi è il legittimato passivo?

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 1869 del 21 gennaio 2022                                

 

Con l'ordinanza in esame la Corte di Cassazione chiarisce a quale soggetto spetti la legittimazione passiva nel giudizio instaurato da un automobilista per i danni materiali riportati dal veicolo a seguito di uno scontro con un animale selvatico, qualora il sinistro avvenga all’interno di un Parco Nazionale.

 

La Suprema Corte ricorda che legittimato sostanziale passivo, rispetto ad una domanda di risarcimento del danno causato dalla fauna selvatica, può essere la Regione solo quando il danneggiato invochi nei confronti di essa la presunzione di cui all'art. 2052 c.c. (Cass. n. 8206/2021). Quando, invece, a fondamento della domanda sia invocato il generale precetto di cui all'art. 2043 c.c. [...], la responsabilità - e la conseguente legittimazione passiva - può spettare alternativamente o cumulativamente sia alla Regione, sia "agli enti a cui sarebbe in concreto spettata, nell'esercizio delle funzioni proprie o delegate, l'adozione delle misure che avrebbero dovuto impedire il danno", a seconda che l'una, gli altri, o tutti e due, siano venuti meno a regole di comune prudenza idonee a prevenire danni a terzi prevedibili ed evitabili, e sempre che tali condotte colpose siano state tempestivamente allegate e debitamente provate.

 

A tal proposito, i giudici di legittimità ribadiscono i principi già espressi nella pronuncia della Suprema Corte n. 7969/2020, ove si è affermato che:

a) la responsabilità per danni causati dalla fauna selvatica incombe sulla Regione, se il danneggiato invoca la presunzione di cui all'art. 2052 c.c.;

b) la responsabilità per danni causati alla fauna selvatica può invece incombere sulla Regione o sugli altri enti locali, se il danneggiato invoca l'ordinaria responsabilità di cui all'art. 2043 c.c.; in tal caso, la responsabilità degli enti diversi dalla Regione sussiste se essi, non adempiendo alle funzioni a loro assegnate dalla legge (senza distinzione tra funzioni proprie o funzioni delegate), hanno trascurato di adottare le misure minime esigibili anche alla stregua dell'ordinaria diligenza per prevenire il danno.

 

Per quanto riguarda i Parchi Nazionali, la Cassazione osserva che essi sono enti di diritto pubblico, sottratti al controllo delle Regioni e sottoposti al controllo del Ministero dell'Ambiente, e che la legge riserva all'ente parco qualsiasi decisione ed iniziativa in tema di controllo della fauna selvatica e prevenzione della sua proliferazione; pertanto, alla Regione non compete né il controllo della fauna selvatica esistente all'interno del Parco Nazionale, né la prevenzione dei danni da essa causati.

 

 

Caduta su un tombino: la disattenzione del danneggiato costituisce caso fortuito

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 2071 del 25 gennaio 2022                                

 

Con l'ordinanza in commento la Corte di Cassazione chiarisce il concetto di caso fortuito previsto ex art. 2051 c.c., in caso di caduta in un tombino posto a margine di una strada statale di proprietà dell’Anas.

 

La Suprema Corte afferma che nella nozione di caso fortuito rientra altresì il concorso di colpa del danneggiato, con la conseguenza che la cosiddetta prova liberatoria di cui il ricorrente lamenta l'assenza è stata invece fornita, attraverso [...] la dimostrazione della colpa del danneggiato, che avrebbe dovuto avvedersi della buca e, di conseguenza, evitarla. Secondo la Cassazione, dunque, nel caso di specie, il danno è stato ritenuto da attribuirsi alla condotta della ricorrente, non essendovi, per contro, alcuna contestazione quanto alla rilevanza causale del concorso del danneggiato e dunque quanto alla incidenza di tale condotta sulla determinazione del danno.

 


Danni da cose in custodia: non basta ad escludere la responsabilità del custode il mero accertamento di una condotta colposa della vittima

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 3041 del 1° febbraio 2022                                

 

Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di onere della prova della imprevedibilità e non evitabilità dell’insidia in un giudizio promosso ex art. 2051 c.c..

 

La Suprema Corte afferma che la Corte d'appello, confermando la pronuncia di primo grado con la quale era stata rigettata la domanda attorea sul presupposto dell'insussistenza dell'intrinseca pericolosità del dislivello (indicato dalla danneggiata come causa della caduta a terra), e ciò non essendo stata provata l'imprevedibilità dell'insidia, in tal modo, ha posto a carico della ricorrente - tenuta alla prova del solo nesso causale tra res ed evento dannoso - un onere che non le incombeva, non essendo chi agisce ex art. 2051 c.c. tenuto a fornire la prova dell'imprevedibilità e non evitabilità dell'insidia o del trabocchetto.

 

La Cassazione ribadisce l’orientamento per cui, con riferimento ai danni ex art. 2051 c.c. originati da cadute dovute alla presenza di buche e disconnessioni sulla sede stradale [...] "non risulta predicabile la ricorrenza del caso fortuito a fronte del mero accertamento di una condotta colposa della vittima (la quale potrà invece assumere rilevanza, ai fini della riduzione o dell'esclusione del risarcimento, ai sensi dell'art. 1227 c.c., commi 1 o 2), richiedendosi, per l'integrazione del fortuito, che detta condotta presenti anche caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno" (Cass. n. 26524/2020). Pertanto, una volta accertata una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima del danno da cose in custodia, ciò non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode, essendo la stessa esclusa dal caso fortuito, ovvero da un evento che praevideri non potest.

 

 

Per la liquidazione dei danni da cose in custodia non sono applicabili le tabelle di cui all’art. 139 cod. ass. nemmeno se subiti quando si è alla guida di un veicolo                                        

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 4509 del 11 febbraio 2022

 

Con l'ordinanza in commento la Corte di Cassazione chiarisce quali tabelle debbano essere applicate in caso di danni riportati dal conducente di un veicolo a causa dell'urto con delle lastre di travertino abbandonate sulla sede stradale.

 

Nel caso di specie, la Corte d’appello aveva accolto la domanda di risarcimento proposta dall’attrice, procedendo ad una liquidazione del danno sulla base delle tabelle di cui all’art. 139 del D. Lgs. n. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private); secondo la danneggiata, invece, i giudici avrebbero dovuto fare riferimento alle tabelle predisposte dal Tribunale di Roma ai fini della liquidazione del danno alla persona.

 

La Suprema Corte osserva che il Codice delle assicurazioni private è una fonte normativa destinata a trovare applicazione unicamente nei casi di "danni alla persona derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione di veicoli a motore e di natanti" […]. Tuttavia, è necessario distinguere questa ipotesi da quella in cui il danno derivi non già dalla verificazione di un sinistro conseguente alla circolazione di veicoli a motore, bensì, ai sensi dell'art. 2051 c.c., dal legittimo uso, da parte del danneggiato, di un bene (la strada pubblica) custodito dall'ente convenuto.

 

Al riguardo, la Cassazione sottolinea come, là dove si faccia questione di danni asseritamente derivanti dalla circolazione stradale, la circostanza dell'avvenuto danneggiamento di un soggetto impegnato in detta circolazione non assuma di per sé alcun rilievo determinante, occorrendo, ai fini della qualificazione della causa del danno (come segnatamente derivante dalla circolazione stradale), che nella ridetta circolazione stradale sia piuttosto impegnato il danneggiante, sì che possa senza alcun dubbio ricondursi la causa efficiente del pregiudizio denunciato a quella specifica fonte di danno.

 

 

 

Garza dimenticata nell’addome di un paziente: il chirurgo a capo dell’équipe è sempre responsabile della verifica finale del campo operatorio                                 

Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 392 del 11 gennaio 2022

 

Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione definisce i profili di responsabilità in capo al chirurgo in caso di lesioni cagionate da una garza dimenticata nell’addome di un paziente nel corso di un intervento chirurgico.

 

Nel caso di specie, secondo la difesa, non sarebbe stato possibile ascrivere al chirurgo alcun rimprovero, posto che, da un lato, il compito di riconteggio delle garze, secondo le previsioni di cui alla Raccomandazione Ministeriale n. 2/2008 del Ministero della Salute, è affidato in modo esclusivo al personale infermieristico, dall'altro, il riconteggio aveva - nel caso di specie - dato un esito di parità fra le garze introdotte e quelle estratte dal campo operatorio, sicché l'errore compiuto dal personale infermieristico non era riconoscibile e quindi non imponeva al chirurgo quelle attività previste dalla Raccomandazione per l'ipotesi di discordanza del riconteggio.

 

La Suprema Corte osserva che la Raccomandazione del Ministero della Salute n. 2 del 2008 [...] trova applicazione in tutte le sale operatorie e da parte di tutti gli operatori sanitari coinvolti nelle attività chirurgiche; essa delinea una procedura che scandisce i momenti e le operazioni e precisa che il conteggio ed il controllo dello strumentario deve essere effettuato dal personale infermieristico (strumentista, infermiere di sala) o da operatori di supporto, preposti all'attività di conteggio, mentre il chirurgo verifica che il conteggio sia stato eseguito e che il totale di garze utilizzate e rimanenti corrisponda a quello delle garze ricevute prima e durante l'intervento.

 

Secondo la Cassazione, da essa è possibile evincere che tutti gli operatori coinvolti nell'atto chirurgico sono tenuti ad assicurare l'adempimento degli oneri di controllo rivolti a scongiurare l'evento avverso. In particolare, al chirurgo compete di assicurarsi con certezza dell'assenza di ritenzione interna al sito chirurgico di garze o strumenti, prima di procedere alla sua chiusura. Siffatto onere non consiste solo nel mero controllo formale dell'operato altrui, ovverosia nel controllo dell'esecuzione del conteggio affidata all'infermiere (ferrista) e del risultato di parità, ma attiene ad un dovere proprio del chirurgo di evitare il prodursi di un evento avverso connesso alla ritenzione di materiale nel corpo del paziente, derivante dalla posizione di garanzia che egli assume con l'atto operatorio.

 

Secondo i giudici di legittimità, nel quadro della collaborazione continua fra i componenti dell'equipe spicca il ruolo del soggetto che la coordina e che assume il compito di guida del lavoro collettivo, al quale compete sempre non solo il dovere di dirigere l'azione operatoria e di farla convergere verso il fine per il quale viene intrapresa, ma quello di costante e diligente vigilanza sul progredire dell'operazione e dei rischi ad essa connessi. La ripartizione del lavoro di controlli fra i membri dell'equipe deve intendersi come rivolta ad assicurare un fattore di sicurezza ulteriore che integra e non sostituisce il dovere di diligenza di colui che è tenuto a coordinare il gruppo ed a vigilare su ciascuna delle attività che i membri dell'equipe pongono in essere. Non può, invero, immaginarsi alcuna segmentazione degli interventi delle diverse competenze che esima il coordinatore dagli obblighi che gli sono propri. Si è, infatti, sostenuto che "il principio di affidamento non trova applicazione nei confronti della figura de capo equipe" (Cass. n. 33329/2015). Ciò, nondimeno, non significa affatto ricondurre la sua responsabilità ad una forma di responsabilità oggettiva per l'opera altrui, ma semplicemente ricondurre il controllo finale del campo operatorio alla diligenza che l'ordinamento rimette al capo équipe.

 

Per questa ragione, secondo la Cassazione, il chirurgo è tenuto a compiere una verifica finale del campo operatorio, che consenta la sua chiusura in sicurezza, posto che il risultato di parità, pur significativo indice dello sgombro del sito chirurgico, non cautela l'errore di calcolo nell'introduzione delle garze e degli strumenti operatori, né l'eventuale frammentazione delle prime nel corso dell'intervento, il cui verificarsi conduce agli stessi risultati che i protocolli mirano ad evitare. La responsabilità di siffatto finale accertamento, al quale deve tendere l'operato di tutti gli operatori sanitari coinvolti nelle attività chirurgiche, compete da ultimo al capo che guida l'equipe il quale è tenuto - in forza della sua posizione di garanzia verso il paziente - a verificare che il totale di garze utilizzate e rimanenti corrisponda a quello delle garze ricevute prime e durante l'intervento, non potendo far affidamento solo sull'operato dei collaboratori (Cass. n. 54573/2018; Cass. n. 53453/2018).

 

 

La responsabilità del medico in caso di errore nella trasfusione del sangue                    

Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 4323 del 8 febbraio 2022

 

Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in un caso di responsabilità medica di un medico e di un infermiere per il decesso di un paziente, nel corso di una trasfusione, a causa dell'erroneo abbinamento, da parte dell’infermiera di turno, di una sacca ematica contenente un gruppo sanguigno incompatibile con quello del paziente. In particolare, la Cassazione chiarisce quali sono i profili di responsabilità in capo al medico qualora questi non sia presente al momento dell’allacciamento della sacca all’ago cannula posto al braccio del paziente, perché allontanatosi per svolgere altre incombenze.

 

La Cassazione fa proprie le osservazioni della Corte d’appello secondo cui le procedure operative per l'esecuzione di pratiche sanitarie sono rivolte ad evitare errori non di tipo valutativo, ma appunto nella fase dell'esecuzione materiale, e l'aver previsto la compartecipazione del medico alla fase all'inizio della trasfusione, la cui materiale esecuzione spetta appunto all'infermiere, è precauzione rivolta a ottenere proprio un controllo esterno sull'individuazione del paziente, della sacca e della compatibilità del gruppo sanguigno.

 

Secondo i giudici di legittimità, dunque, poiché le raccomandazioni ministeriali sanciscono che la trasfusione è eseguita sotto la responsabilità del medico, sussiste il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l’evento morte, in quanto, in caso di condotte colpose indipendenti, non può invocare il principio di affidamento l'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità (Cass. n. 50038/2017; Cass. n. 6018/1982).

 

 

L’elemento soggettivo nei reati di fuga e di omessa assistenza ex art. 189, commi 6 e 7 del Codice della strada

Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 4143 del 7 febbraio 2022                                   

 

Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in relazione ai reati di fuga e di omessa assistenza di cui all’art. 189, commi 6 e 7 del Codice della strada, concentrandosi, in particolare, sull’elemento soggettivo richiesto per la configurazione degli stessi.

 

La Suprema Corte rileva che, secondo il prevalente orientamento maturato in sede di legittimità, il reato di fuga previsto dall'art. 189 C.d.S., comma 6, è un reato omissivo di pericolo, per la cui configurabilità è richiesto il dolo, che deve investire essenzialmente l'inosservanza dell'obbligo di fermarsi in relazione all'evento dell'incidente concretamente idoneo a produrre ripercussioni lesive alle persone, e non anche l'esistenza di un effettivo danno per le stesse (Cass. n. 34335/2009). I giudici di legittimità osservano che, come tutte le norme incriminatrici volte alla tutela avanzata d'interessi, la concretezza dell'evento che giustifica la previsione non può giungere sino ad un'effettiva constatazione del tipo di nocumento procurato. Non a caso, infatti, la previsione utilizza il termine aspecifico di "danno", volutamente ignorando il più preciso riferimento a quello di "lesione".

 

Per quanto riguarda, poi, il comma 7, la Cassazione rileva che esso sanziona una condotta ulteriore e diversa rispetto a quella repressa dal comma precedente: quella del conducente che, coinvolto in un incidente stradale, comunque ricollegabile al suo comportamento, non ottemperi all'obbligo di prestare l'assistenza occorrente alle persone ferite. Secondo i giudici di legittimità, in tale ultima evenienza non basta la consapevolezza che dall'incidente possano essere derivate conseguenze per le persone, occorrendo che un tale pericolo appaia essersi concretizzato, almeno sotto il profilo del dolo eventuale, in effettive lesioni dell'integrità fisica.

 

Pertanto, la Suprema Corte ritiene che il reato di mancata prestazione dell'assistenza occorrente dopo un investimento [...] esiga un dolo meramente generico, ravvisabile in capo all'utente della strada il quale, in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento ed avente connotazioni tali da evidenziare in termini di immediatezza la concreta eventualità che dall'incidente sia derivato danno alle persone, non ottemperi all'obbligo di prestare la necessaria assistenza ai feriti (Cass. n. 33294/2008). Dolo che [...] può ben configurarsi anche come eventuale (Cass. n. 33772/2017).

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