Newsletter aprile 2022
Le domande o le eccezioni non riproposte in sede di precisazione delle conclusioni si intendono rinunciate
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 10767 del 4 aprile 2022
Con l’ordinanza in commento, la Cassazione torna ad occuparsi della tematica dell’omessa riproposizione delle domande e delle eccezioni formulate nel corso del procedimento in sede di precisazione delle conclusioni.
Nello specifico, la Corte richiama il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, in forza del quale la parte che si sia vista rigettare dal giudice le proprie richieste istruttorie ha l'onere di reiterarle, in modo specifico, quando precisa le conclusioni, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, le stesse devono ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in sede di impugnazione. Tale principio deve essere esteso anche all'ipotesi in cui sia stato il giudice d'appello a non ammettere le suddette richieste, con la conseguenza che la loro mancata ripresentazione al momento delle conclusioni preclude la deducibilità del vizio scaturente dall'asserita illegittimità del diniego quale motivo di ricorso per cassazione. (Cass., 10 novembre 2021, n. 33103).
Tuttavia nell’ottica di un’interpretazione costituzionalmente orientata ed improntata alla tutela del diritto di difesa, ritenendo che tale principio debba essere necessariamente coordinato con altri principi affermati dalla giurisprudenza, la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: la parte che si sia vista rigettare dal giudice le proprie richieste istruttorie ha l'onere di reiterarle, in modo specifico, quando precisa le conclusioni, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, le stesse devono ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in sede di impugnazione; resta salva però la possibilità per il giudice di merito di ritenere superata tale presunzione qualora dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l'esame degli scritti difensivi: valutazione complessiva, dei cui risultati il giudice del merito è chiamato a dar conto, sia pur sinteticamente, in motivazione.
Il vizio di extrapetizione della sentenza di secondo grado
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 11923 del 13 aprile 2022
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione individua i casi in cui la pronuncia del Giudice di merito possa ritenersi affetta da vizio di extrapetizione.
Nello specifico, la Corte ha affermato che l'appello è una revisio prioris instantiae e non un novum iudicium, "con effetto devolutivo generale ed illimitato", e che la necessità dell'indicazione, da parte dell'appellante, delle argomentazioni da contrapporre a quelle contenute nella sentenza di primo grado serve proprio ad incanalare entro precisi confini il compito del giudice dell'impugnazione, consentendo di comprendere con certezza il contenuto delle censure, il tutto senza inutili formalismi e senza richiedere all'appellante il rispetto di particolari forme sacramentali.
Con riferimento al vizio di extrapetizione, la Corte ha, dunque, rilevato come lo stesso ricorra soltanto quando il giudice abbia pronunciato oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, attribuendo ad una di esse un bene della vita non richiesto (o diverso da quello domandato), mentre spetta al giudice di merito il compito di definire e qualificare, entro detti limiti, la domanda proposta dalla parte", cosicché "tale compito appartiene non soltanto al giudice di primo grado, ma anche a quello d'appello, che resta a sua volta libero di attribuire al rapporto controverso una qualificazione giuridica difforme da quella data in prime cure con riferimento all'individuazione della "causa petendi", dovendosi riconoscere a detto giudice il potere - dovere di definire l'esatta natura del rapporto dedotto in giudizio onde precisarne il contenuto e gli effetti in relazione alle norme applicabili, con il solo limite di non esorbitare dalle richieste della parti e di non introdurre nuovi elementi di fatto nell'ambito delle questioni sottoposte al suo esame".
Pertanto, il giudice d’appello non incorre nel vizio di extrapetizione se, nell'ambito delle questioni riproposte con il gravame, qualificando il rapporto dedotto in giudizio in modo diverso rispetto a quanto prospettato dalle parti o ritenuto dal giudice di primo grado, non introduce nel tema controverso nuovi elementi di fatto, lasciando inalterati il "petitum" e la "causa petendi".
L’infezione da SARS-COv-2 soddisfa la definizione di infortunio e, pertanto, risulta tecnicamente indennizzabile
Tribunale di Torino, sezione IV, sentenza n. 184 del 19 gennaio 2022
Con la sentenza in commento, il Tribunale di Torino si è pronunciato in merito alla possibilità di qualificare l’evento infezione da SARS-COv-2 come infortunio tecnicamente indennizzabile ai sensi di polizza.
Il Tribunale di Torino, analizzando i presupposti previsti per la individuazione del “fatto infortunio” nella polizza invocata dall’assicurato, ha, dunque, ritenuto che l’infezione da Covid-19 soddisfasse la definizione di infortunio contemplata dalle condizioni generali del contratto di assicurazione quale evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna.
Il Giudice di merito ha affermato che l'infezione da SARS-CoV-2 risulta quale condizione determinata, innanzitutto, da causa fortuita, posto che trattasi di atto assolutamente non volontario e causa del tutto estranea ad un'attività consapevole del soggetto infettato, che si è venuto a trovare in sifatta condizione senza sapere in modo alcuno di cosa si trattasse e senza neppure avere la più pallida idea di possibili comportamenti idonei a prevenire l'infezione.
La causa è stata, inoltre, considerata “violenta”, in quanto certamente, come rimarcato dal c.t.u., il contatto non è dilatato nel tempo, ma anche, sia consentito aggiungere, in quanto il contatto determina uno stravolgimento violento delle regole naturali della vita di un organismo che si trovi in situazione normale.
Infine, la causa è stata ritenuta sicuramente “esterna”, proprio perché il virus è un organismo estraneo al corpo umano e che nello stesso viene ad inserirsi proprio quale elemento proveniente dall'esterno: non per nulla il primo e più rudimentale rimedio contro siffatta infezione è costituito dal porto della mascherina, che serve proprio ad evitare il contatto con siffatta causa “esterna”.
Il Giudice ha, dunque, concluso affermando che sia ancora consentito aggiungere che questo Tribunale sposa, toto corde, le pertinentissime osservazioni autorevolmente svolte dal c.t.u. nei confronti dei puntuti rilievi sollevati dal c.t. della parte convenuta in merito alla bizantina distinzione che si vorrebbe porre tra “infortunio” e “malattia”, quasi che contrarre una malattia non costituisse un infortunio (la cui stessa etimologia latina –in-fortunium– squaderna il riferimento ad un evento sfortunato, malaugurato), ma semmai, allora … un colpo di buona sorte! (…). In conclusione - in assenza di specifica esclusione contrattuale– le infezioni acute virulente che provengono dall’esterno soddisfano la definizione di infortunio e, pertanto, risultano tecnicamente indennizzabili”.
Il limite del diritto di surroga dell’INPS nei casi di concorso di colpa della vittima nella produzione dell'evento di danno
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 9002 del 21 marzo 2022
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione si è occupata della tematica del diritto di surroga dell’INPS nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili.
Anzitutto, la Corte, richiamando la sentenza del 23 giugno 2021, n. 17966, ha ribadito che l'istituto della surroga consiste nella sostituzione di un terzo nei diritti del creditore e non permette, pertanto, che il surrogato goda di prerogative superiori a quelle proprie del creditore, cui si sostituisce. Trattasi di successione a titolo particolare nel rapporto obbligatorio, dal lato attivo, il quale non muta a causa della surrogazione.
Nello specifico, in merito alla necessità di operare una decurtazione in proporzione alla misura della colpa della vittima eventualmente accertata in giudizio, la Corte ha chiarito che il diritto di surrogazione dell'INPS nei diritti dell'assicurato verso i terzi responsabili della sua invalidità, in relazione alla quale l'Istituto abbia erogato la prestazione previdenziale, va rapportato, quanto all'ammontare, agli importi concretamente versati, atteso che il meccanismo della surroga, concretando la sostituzione di un terzo nella posizione del creditore, non può ridondare né in danno del debitore né a vantaggio del terzo surrogatosi nel diritto di credito.
Pertanto, la Corte, richiamando una precedente pronuncia sul punto (si veda Cass. civ., 25 gennaio 2018, n. 1834) ha affermato che il diritto dell'assicuratore che agisca in surrogazione nei confronti del terzo responsabile è sottoposto al duplice limite del danno effettivamente da questi causato all'assicurato, da una parte, e dell'ammontare dell'indennizzo pagato dall'assicuratore, dall'altro; ne consegue che, nei casi di concorso di colpa della vittima nella produzione dell'evento, per stabilire il limite della surrogazione, la riduzione per il concorso di colpa dell'assicurato va defalcata dal risarcimento globalmente dovuto dal responsabile, e non dall'indennità corrisposta dall'assicuratore e per il cui recupero l'assicuratore medesimo agisca in surrogazione; e tanto con l'effetto che l'assicuratore può pretendere dal responsabile, a titolo di surrogazione, la minor somma tra l'entità dell'indennizzo concretamente corrisposto all'assicurato e l'entità del risarcimento concretamente dovuto dal responsabile, già al netto della riduzione ascritta al concorso di colpa del danneggiato.
La Corte ha, dunque, concluso ritenendo principio consolidato e condivisibile quello secondo cui "il congegno della surrogazione non può diventare fonte di lucro per chi lo subisce neppure quando il ristoro del danno spetti da parte di soggetti diversi: "tale eventualità è scongiurata, appunto, dal diritto di surrogazione dell'assicuratore per il recupero delle spese effettivamente sostenute e delle indennità eventualmente versate all'assicurato nei confronti del terzo responsabile del fatto dannoso, fino a concorrenza dell'ammontare della somma erogata, ma entro i limiti del quantum liquidato a favore del danneggiato, senza che possa tenersi conto del concorso di colpa di quest'ultimo nella produzione del danno".
L'operatività della polizza assicurativa in favore della vittima, trasportata a bordo del veicolo al momento dell'incidente ed assicurata per la guida di tale veicolo, non è esclusa dalla previsione di una clausola di esclusione della garanzia assicurativa per i danni cagionati dal conducente non abilitato alla guida
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 11246 del 6 aprile 2022
La Corte di Cassazione con la sentenza in esame si pronuncia, in tema di assicurazione per la responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli a motore, con riguardo all’opponibilità o meno al danneggiato/assicurato terzo trasportato della clausola contrattuale che escluda aprioristicamente il diritto alla copertura assicurativa.
La Suprema Corte, richiamando due decisioni della Corte di giustizia, e precisamente la sentenza Candolin (30 giugno 2005, in causa C-537/03) e la sentenza Lavrador (1° dicembre 2011), ha affermato che l'applicazione sistematica, nella fattispecie, di tale formante giurisprudenziale sovranazionale si traduce nel principio per cui la clausola che escluda, aprioristicamente, nei confronti del danneggiato-assicurato, il diritto alla copertura assicurativa – per il caso in cui sia apprezzata, in fatto, la sussistenza, ai sensi dell'art. 1227 c.c., di relativo concorso di colpa –è a questi inopponibile, tenuto conto che alla legislazione nazionale è consentito non già di escludere ipso iure, bensì conformare, proporzionalmente, il quantum del diritto al risarcimento del danno, in forza delle regole della responsabilità civile". (…) Il principio vulneratus ante omnia reficiendus si applica anche in favore dell'assicurato che, al momento del sinistro, è trasportato da un terzo, non distinguendosi la sua condizione da quella di qualsiasi altro passeggero vittima dell'incidente. In questo caso, l'assicuratore non può avvalersi, per negare il risarcimento, di disposizioni legali o di clausole contrattuali, ivi comprese quelle che escludono la copertura assicurativa nelle ipotesi di utilizzo del veicolo da parte di persone non autorizzate o prive di abilitazione alla guida, perché l'unica eccezione al principio sopra menzionato opera quando il veicolo assicurato è condotto da una persona non autorizzata ed il passeggero, vittima dell'incidente, è a conoscenza del fatto che il mezzo è stato oggetto di furto.
In definitiva, la Suprema Corte, applicando la predetta giurisprudenza, ha ribadito il seguente principio di diritto: In tema di assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli a motore, la previsione di una clausola di esclusione della garanzia assicurativa per i danni cagionati dal conducente non abilitato alla guida non è idonea, di per sé, ad escludere l'operatività della polizza assicurativa in favore della vittima, trasportata a bordo del veicolo al momento dell'incidente ed assicurata per la guida di tale veicolo». E tanto, a prescindere dal rilievo per cui «l'assicurato vittima fosse consapevole del fatto che la persona che egli ha autorizzato a guidare il veicolo non era assicurata a tal fine, oppure che fosse convinto che essa fosse assicurata, oppure ancora che si sia posto o non si sia posto domande a tale riguardo.
Il criterio di riparto dell’onere probatorio tra medico e paziente nelle fattispecie di responsabilità medica non sottoposte al regime introdotto dalla Legge n. 24 del 2017 è quello che governa la responsabilità contrattuale
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 10050 del 29 marzo 2022
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione si occupa della tematica del riparto dell’onere probatorio tra Struttura sanitaria e/o medico e paziente nell’ambito delle fattispecie di responsabilità medica non sottoposte al nuovo regime introdotto dalla c.d. Legge Gelli Bianco.
Anzitutto, la Corte osserva che con riguardo alle fattispecie di responsabilità medica non sottoposte al nuovo regime introdotto dalla L. n. 24 del 2017 (la quale non trova applicazione in ordine ai fatti verificatisi anteriormente alla sua entrata in vigore: Cass. 8 novembre 2019, n. 28811), questa Corte, con orientamento consolidatosi sin dagli ultimi anni dello scorso millennio, ha chiarito che, nell'ipotesi in cui il paziente alleghi di aver subito danni in conseguenza di una attività svolta dal medico (eventualmente, ma non necessariamente, sulla base di un vincolo di dipendenza con la struttura sanitaria) in esecuzione della prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio tra quest'ultima e il paziente, tanto la responsabilità della struttura quanto quella del medico vanno qualificate in termini di responsabilità contrattuale. […] Ciò premesso, il criterio di riparto dell’onere della prova in siffatte fattispecie non è pertanto quello che governa la responsabilità aquiliana (nell’ambito della quale il danneggiato è onerato della dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito ascritto al danneggiante) ma quello che governa la responsabilità contrattuale, in base al quale il creditore che abbia provato la fonte del suo credito ed abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto, non è altresì onerato di dimostrare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore, spettando a quest’ultimo la prova dell’esatto adempimento.
Da ciò consegue che, con precipuo riferimento alle fattispecie di inadempimento delle obbligazioni professionali - tra le quali si collocano quelle di responsabilità medica - questa Corte ha da tempo chiarito che è onere del creditore-attore dimostrare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), l'esistenza del nesso causale, provando che la condotta del professionista è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", la causa del danno lamentato, mentre è onere del debitore dimostrare, in alternativa all'esatto adempimento, l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inadempimento (o l'inesatto adempimento) è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza.
Nell'ambito delle prestazioni sanitarie il perimetro del contratto con efficacia protettiva dei terzi deve essere circoscritto alle relazioni contrattuali intercorse tra la gestante e la struttura sanitaria (o il professionista) che ne segua la gestazione e il parto
Cassazione civile, sez. III, sentenza n. 11320 del 7 aprile 2022
Con la sentenza in commento la Suprema Corte individua i casi in cui il contratto di spedalità che si instaura tra paziente e Struttura sanitaria si configura come contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi.
La Corte afferma che il rapporto contrattuale che si instaura tra il paziente e la struttura sanitaria ha efficacia "ultra partes" allorché costituisce fonte di obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione. Viene in considerazione, in particolare, il contratto stipulato dalla gestante, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza […]oppure l'accertamento, e correlativa informazione, di eventuali patologie del concepito, anche in funzione del consapevole esercizio del diritto di autodeterminarsi in funzione dell'interruzione anticipata della gravidanza medesima […]Al di fuori di queste specifiche ipotesi, poiché l'esecuzione della prestazione che forma oggetto della obbligazione sanitaria non incide direttamente sulla posizione dei terzi, torna applicabile anche al contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria la regola generale secondo cui esso ha efficacia limitata alle parti (art. 1372 c.c., comma 2); pertanto, per un verso non è predicabile un "effetto protettivo" del contratto nei confronti di terzi, per altro verso non è identificabile una categoria di terzi (quand'anche legati da vincoli rilevanti, di parentela o di coniugio, con il paziente) quali "terzi protetti dal contratto".
La Suprema Corte, tuttavia, chiarisce che ciò non vuol dire che i prossimi congiunti del creditore, ove abbiano subito in proprio delle conseguenze pregiudizievoli, quale riflesso dell'inadempimento della struttura sanitaria (cc.dd. danni mediati o riflessi), non abbiano la possibilità di agire in giudizio per ottenere il ristoro di tali pregiudizi. Il predetto inadempimento, tuttavia, potrà rilevare nei loro confronti esclusivamente come illecito aquiliano ed essi saranno dunque legittimati ad esperire, non già l'azione di responsabilità contrattuale (spettante unicamente al paziente che ha stipulato il contratto), ma quella di responsabilità extracontrattuale, soggiacendo alla relativa disciplina, anche in tema di onere della prova. La legittimazione all'azione di responsabilità contrattuale residua per i prossimi congiunti nel caso in cui facciano valere pretese risarcitorie iure hereditario, già consolidatesi nella sfera del loro dante causa quali crediti derivanti dall'inadempimento contrattuale e da questi trasmesse mortis causa ai suoi eredi.
Pertanto, la Corte afferma che mentre il paziente, in quanto titolare del rapporto contrattuale di spedalità, è legittimato ad agire per il ristoro dei danni cagionatigli dall'inadempimento della struttura sanitaria con azione contrattuale, al contrario, fatta eccezione per il circoscritto ambito dei rapporti afferenti a prestazioni inerenti alla procreazione, la pretesa risarcitoria vantata dai congiunti per i danni da essi autonomamente subiti, in via mediata o riflessa, in conseguenza del medesimo contegno inadempiente, rilevante nei loro confronti come illecito aquiliano, si colloca nell'ambito della responsabilità extracontrattuale ed è soggetta alla relativa disciplina.
L’incertezza in ordine ai concreti termini della convivenza dei coniugi incide nella valutazione del risarcimento del danno da lesione del vincolo parentale
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 9010 del 21 marzo 2022
Con la sentenza in esame, la Cassazione si occupa della tematica del risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale nel caso in cui vi sia un’incertezza in merito all’effettivo legame tra moglie e marito al momento del decesso di uno dei due.
Secondo la Corte in tema di liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale, nel caso in cui si tratti di congiunti appartenenti alla cd. famiglia nucleare (e cioè coniugi, genitori, figli, fratelli e sorelle) la perdita di effettivi rapporti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto può essere presunta in base alla loro appartenenza al medesimo "nucleo familiare minimo", nell'ambito del quale l'effettività di detti rapporti costituisce tuttora la regola, nell'attuale società, in base all'id quod plerumque accidit, fatta salva la prova contraria da parte del convenuto. Naturalmente, anche la prova contraria può essere fornita sulla base di elementi presuntivi, tali da far venir meno la presunzione di fatto derivante dall'esistenza del mero legame coniugale o parentale (nel qual caso sarà onere del danneggiato dimostrare l'esistenza del suddetto vincolo in concreto, sulla base di precisi elementi di fatto), ovvero, quanto meno, da attenuarla considerevolmente (nel qual caso delle relative circostanze dovrà tenersi conto ai fini della liquidazione dell'importo del risarcimento, che dovrà essere inferiore a quello riconosciuto nei casi "ordinari", come eventualmente previsto su base tabellare).
In particolare, con riguardo alla perdita del rapporto coniugale, la Corte ritiene elementi idonei a far ritenere attenuata ovvero addirittura del tutto superata la presunzione di perdita di effettivi rapporti di reciproco affetto e solidarietà con il coniuge defunto, sotto il profilo dinamico-relazionale, aspetti quali la separazione, legale e/o di fatto, tra i coniugi stessi […]ovvero l'assenza di convivenza, la quale, benché non costituisca, in generale, connotato minimo ed indispensabile per il riconoscimento del danno da perdita del rapporto parentale […] è certamente rilevante almeno ai fini della determinazione del quantum debeatur.
È responsabile l’avvocato che trattiene il denaro ricevuto in nome e per conto del cliente
Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 11168 del 6 aprile 2022
Con la sentenza in commento le Sezioni Unite si pronunciano in tema di responsabilità dell’avvocato individuando le ipotesi in cui il professionista può trattenere, a titolo di compenso, le somme riscosse per conto della parte assistita.
La Corte anzitutto evidenzia che in materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative del precetto legislativo che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all'ordinamento generale dello Stato, e come tali sono interpretabili direttamente dalla Corte di legittimità (Cass. Sez. U. 20 dicembre 2007, n. 26810; sulla natura normativa, ancorché integrativa, delle richiamate disposizioni, cfr. pure: Cass. Sez. U. 25 marzo 2019, n. 8313; Cass. Sez. U. 7 luglio 2009, n. 15852).
La Corte ha, dunque, continuato rilevando che l'art. 44 del non più vigente codice deontologico (applicabile ratione temporis e riprodotto, nella parte che interessa, dall'art. 31 del codice approvato il 31 gennaio 2014) prevede che l'avvocato abbia diritto di trattenere le somme ricevute a titolo di onorario, imputandole a compenso, in tre ipotesi soltanto: quando vi sia il consenso del cliente e della parte assistita; quando si tratti di somme liquidate giudizialmente a titolo di compenso a carico della controparte e l'avvocato non le abbia già ricevute dal cliente o dalla parte assistita; quando il professionista abbia già formulato una richiesta di pagamento del proprio compenso espressamente accettata dal cliente. Tale disposizione non si presta a estensioni analogiche. Essa propone, difatti, specifiche eccezioni alla regola del divieto, fatto al professionista, di ritenere le somme da lui ricevute: e del resto, coerentemente a tale opzione prescrittiva, il capoverso dell'articolo dispone che in presenza di situazioni diverse da quelle indicate l'avvocato è tenuto a mettere immediatamente a disposizione della parte le somme riscosse per conto di questa.
Le Sezioni Unite hanno, dunque, escluso che l'operatività della norma disciplinare venga meno in presenza dei presupposti per la compensazione legale come, invece, affermato dal ricorrente riferendo che la previsione della condotta dell'avvocato consistente nella mancata messa a disposizione del cliente delle somme riscosse per conto dello stesso (in base al vigente art. 31 del codice deontologico) è considerata, da una parte della dottrina, come ipotesi rientrante nella previsione dell'art. 1246 c.c., n. 5, secondo cui la compensazione non opera in presenza di un divieto stabilito dalla legge. Ma anche a prescindere dalla individuazione di un preciso punto di intersezione tra la disciplina codicistica e quella deontologica, è da osservare che l'istituto della compensazione non potrebbe mai escludere l'illecito di cui qui si dibatte. La deontologia forense è retta da precetti speciali suoi propri, che definiscono la correttezza e la lealtà dell'operato dell'avvocato: precetti consistenti nell'imposizione di condotte, positive o astensive, che le norme dell'ordinamento giuridico generale possono in concreto non richiedere, siccome non preordinate all'obiettivo di assicurare l'etica dei comportamenti del professionista; ciò vale, in particolare, per le norme civili sulla compensazione: istituto, questo, che assolve a funzioni sue proprie, tra cui, primariamente, quella di assecondare una elementare esigenza di economicità del sistema. In tal senso, la disciplina deontologica e quella codicistica sulla compensazione riflettono una diversa vocazione: sicché, pure astraendo dalla precisa estensione applicativa delle regole sulla compensazione, deve negarsi che queste possano far venir meno l'illecito disciplinare di cui all'art. 44 cit..
La liquidazione del danno morale
Cassazione civile, sezione VI – 3, ordinanza n. 12060 del 13 aprile 2022
Con l'ordinanza in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di liquidazione del danno morale subito in conseguenza di un incidente stradale.
Anzitutto, la Corte rileva che la sofferenza patita dalla sfera morale del soggetto leso, si verifica nel momento stesso in cui questo l'evento dannoso si realizza e ciò pur dovendosi tener conto della natura istantanea o permanente dell'illecito o della sua reiterazione, sicchè la liquidazione del danno deve far riferimento al momento dell'evento dannoso ed alle caratteristiche indicate, mentre non vi incidono fatti ed avvenimenti successivi, quali la morte del soggetto leso (Cass. n. 10980/2001).
Inoltre, rispetto al danno alla salute, la voce di danno morale mantiene la sua autonomia, non essendo conglobabile, visto che il secondo si sostanzia nella «rappresentazione di uno stato d'animo di sofferenza interiore, che prescinde del tutto (pur potendole influenzare) delle vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato […] ovvero proprio quelle vicende che sono destinate, per definizione, a proiettarsi nel futuro, non potendo pertanto prescindere dall'effettiva permanenza in vita del soggetto danneggiato.
La Corte ha, dunque, continuato affermando che Il danno morale[…] deve liquidarsi secondo «un attendibile criterio logico-presuntivo che si fonda sulla corrispondenza, su di una base di proporzionalità diretta, della gravità della lesione rispetto all'insorgere di una sofferenza soggettiva, giacché "tanto più grave" risulterà la"lesione della salute, tanto più il ragionamento inferenziale consentirà di presumere l'esistenza di un correlato danno morale inteso quale sofferenza interiore, morfologicamente diversa dall'aspetto dinamico relazionale conseguente alla lesione stessa".
La Corte di Cassazione ha, quindi, concluso ritenendo applicabile il principio secondo il quale la liquidazione del danno morale, quale sofferenza interiore patita dalla vittima dell'illecito, deve effettuarsi con riferimento al momento dell'evento dannoso ed alle caratteristiche dello stesso, mentre non incidono su di essa fatti ed avvenimento successivi, quale la morte del soggetto leso.
Integra il reato di lesioni personali la condotta anti doverosa del sanitario che determini l'aumento del periodo di tempo necessario alla guarigione o alla stabilizzazione dello stato di salute del paziente
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 8613 del 15 marzo 2022
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione nel valutare nel caso di specie la configurabilità del delitto di lesioni personali ha preliminarmente definito il concetto di malattia penalmente rilevante.
Sul punto, la Corte ha rilevato anzitutto che, ai fini della configurabilità del delitto di lesioni personali, la nozione di malattia non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì solo quelle da cui derivi una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l'aggravamento di esso ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa (cfr. sez. 5, n. 33492 del 14/5/2019, Gattuso, RV. 276930, in fattispecie relativa ad aggressione consistita in una "tirata di capelli", nella quale la Corte ha annullato con rinvio la decisione di merito che si era limitata a dar conto del referto medico che riportava, quale conseguenza a carico della vittima, "dolore in regione occipitale guaribile in giorni due"), il concetto di "malattia" penalmente rilevante merita tuttavia di essere ulteriormente definito.
Il giudice di legittimità ha già chiarito che il legislatore, misurando la durata della malattia in termini di tempo necessario alla guarigione o al consolidamento definitivo degli esiti della lesione dalla quale è derivata, ha assegnato al tempo un "peso" che incide sulla "quantità della sanzione", ponendo all'interno della risposta dell'ordinamento penale l'intervallo necessario per il raggiungimento di un nuovo stato di stabile benessere della persona offesa, ancorché degradato.
Gli Ermellini hanno, dunque, ritenuto condivisibile la conclusione che ogni condotta colposa che intervenga sul tempo necessario alla guarigione, pur se non produca ex se un aggravamento della lesione e della perturbazione funzionale, assume rilievo penale ove generi una dilatazione del periodo necessario al raggiungimento della guarigione o della stabilizzazione dello stato di salute.
In definitiva, la Suprema Corte ha ribadito il seguente principio di diritto: in tema di responsabilità medica, integra il reato di lesioni colpose la condotta anti doverosa del sanitario che determini l'aumento del periodo di tempo necessario alla guarigione o alla stabilizzazione dello stato di salute del paziente.
Omicidio stradale: l’applicazione della revoca della patente di guida va sempre motivata
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 13747 dell’11 aprile 2022
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla possibilità o meno per il giudice di applicare, in caso di omicidio stradale, la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, in luogo della sospensione.
La Corte ha affermato che in tema di omicidio stradale, il giudice che, in assenza delle circostanze aggravanti della guida in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, applichi la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, in luogo di quella, più favorevole, della sospensione, deve dare conto, in modo puntuale, delle ragioni che lo hanno indotto a scegliere il trattamento più sfavorevole sulla base dei parametri di cui all'art. 218 C.d.S., comma 2, (Sez. 4, n. 13882 del 19/2/2020, Viva/d/, Rv. 279139). Sotto altro profilo, poi, va ribadito che, nei casi di applicazione, da parte del giudice, della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, prevista dall'art. 222 C.d.S., la determinazione della durata di tale sospensione deve essere effettuata non in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.p., ma in base ai diversi parametri di cui all'art. 218, comma 2, medesimo codice, sicché le motivazioni relative alla misura della sanzione penale e di quella amministrativa restano autonome e non possono essere raffrontate ai fini di un'eventuale incoerenza o contraddittorietà intrinseca del provvedimento (sez. 4, n. 4740 del 18/11/2020, dep. 2021, Di Marco, Rv. 280393).
Tale principio è stato ritenuto dalla Corte valido, peraltro, anche nei casi, come quello di specie, in cui la sanzione applicata sia quella della revoca, dovendo, dunque, il giudice fare riferimento alla entità del danno, alla gravità della violazione e alla tutela della collettività, in relazione al pericolo che il perdurare della circolazione possa arrecare alla sicurezza della stessa.
Alla stregua di tali valutazioni, nel caso di specie, la Corte, rigettando il ricorso, ha ritenuto che il giudice abbia congruamente motivato l'operata scelta discrezionale, avendo valorizzato, da un lato, criteri espressamente previsti dalla norma richiamata, operando, dall'altro, anche la prognosi di pericolosità proprio alla stregua della particolare gravità della violazione posta in essere, tale che solo la misura più afflittiva è stata ritenuta idonea a salvaguardare la sicurezza pubblica. In ogni caso, i criteri di cui alla norma richiamata costituiscono meri parametri di riferimento per orientare la decisione giudiziale, sottraendola all'arbitrio e consentendo il relativo controllo giudiziale su di essa.
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