06.2022

Newsletter giugno 2022

 

 

Il valore della causa, in caso di aggiunta di una clausola di stile quale l'espressione "o di quella maggiore o minore che si riterrà di giustizia", deve essere dichiarato indeterminabile

Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 11213 del 6 aprile 2022                                         

 

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione chiarisce quale sia il valore da attribuire alla causa nel caso in cui l’attore, pur avendo chiesto la condanna del convenuto al pagamento di una somma determinata, aggiunga una clausola di stile quale l’espressione "o di quella maggiore o minore che si riterrà di giustizia".

 

La Suprema Corte, sul punto, ribadisce l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il valore della causa, che va determinato in base al "disputatum", deve essere considerato indeterminabile quando, pur essendo stata richiesta la condanna di controparte al pagamento di una somma specifica, vi si aggiunga l'espressione "o di quella maggiore o minore che si riterrà di giustizia" o espressioni equivalenti, poiché, ai sensi dell'art. 1367 c.c., applicabile anche in materia di interpretazione degli atti processuali di parte, non può ritenersi, "a priori" che tale espressione sia solo una clausola di stile senza effetti, dovendosi, al contrario, presumere che in tal modo l'attore abbia voluto indicare solo un valore orientativo della pretesa, rimettendone al successivo accertamento giudiziale la quantificazione (Cass. n. 10984/2021; Cass. n. 19455/2018).

 

Il principio di specificità dei motivi d’appello

Cassazione civile, sezione I, ordinanza n. 16605 del 23 maggio 2022                                       

 

Nell’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione, richiamando i propri precedenti arresti giurisprudenziali, si è pronunciata in punto di specificità dei motivi d’appello.

 

La Suprema Corte ha, infatti, evidenziato che sul predetto tema a seguito della modificazione dell'art. 342 c.p.c., operata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, è intervenuto l'arresto delle Sezioni Unite che, con la sentenza n. 27199 del 2017, hanno enunciato il seguente principio "gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l'atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado".

 

I giudici di legittimità ricordano, inoltre, che la successiva giurisprudenza ha precisato che l'appellante che intenda dolersi di una erronea ricostruzione dei fatti da parte del giudice di primo grado può limitarsi a chiedere al giudice di appello di valutare "ex novo" le prove già raccolte e sottoporgli le argomentazioni difensive già svolte in primo grado, senza che ciò comporti di per sé l'inammissibilità dell'appello", e ciò in quanto sostenere il contrario, "significherebbe pretendere dall'appellante di introdurre sempre e comunque in appello un quid novi rispetto agli argomenti spesi in primo grado, il che - a tacer d'altro - non sarebbe coerente col divieto di nova prescritto dall'art. 345 c.p.c." (cfr. Cass. 3115/2018, 24464/2020, 23781/2020,21401/2021e 4128/2022).

 

La sorte dell’eccezione di incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c., nel caso in cui la parte, che l'abbia tempestivamente sollevata, ometta poi di contestare la nullità della testimonianza ammessa è stata rimessa alle Sezioni Unite                                                                                          

Cassazione civile, sezione III, ordinanza interlocutoria n. 18601 del 9 giugno 2022

 

Con l’ordinanza interlocutoria in esame la Corte di Cassazione si è occupata della sorte dell’eccezione di incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c., nel caso in cui la parte, che l'abbia tempestivamente sollevata, ometta poi di contestare la nullità della testimonianza ammessa e assunta nonostante l'opposizione, dopo l'espletamento della prova ai sensi dell'art. 157, c. 2, c.p.c., ritenendo opportuno rimettere la questione alle Sezioni unite.

 

Anzitutto, la Corte ha precisato che l'argomentazione secondo cui la parte che ha sollevato l'eccezione di incapacità, poi respinta dal giudice istruttore, avrebbe l'onere di proporre reclamo immediato ex art. 178 c.p.c., comma 2,diversamente decadendo dalla possibilità di far valere il vizio della testimonianza non solo non appare più attuale, alla luce delle modifiche introdotte dalla L. n. 353 del 1990, che ha abolito la possibilità di reclamo al collegio per la soluzione di questioni istruttorie ma non appare nemmeno fondata in quanto si discosta dall'orientamento maggioritario della giurisprudenza che, nell'ambito della precedente normativa, riteneva che la mancata proposizione del reclamo immediato avverso le ordinanze di ammissione dei mezzi di prova non precludesse il successivo controllo del collegio ex art. 178 c.p.c., comma 1.

 

La Corte ha poi ritenuto che il ragionamento complessivo della Corte non appare neppure del tutto instrinsecamente coerente in quanto […] la proposizione del reclamo, che si colloca anteriormente all'escussione del teste incapace, non avrebbe in realtà alcuna rilevanza al fine di impedire la decadenza.

 

Gli Ermellini, inoltre, evidenziando l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale maggioritario che ricostruisce il vizio della testimonianza resa da incapace in termini di nullità relativa ed altro minoritario che, invece, ritiene che le deposizioni assunte in spregio al divieto di cui all'art.246 c.p.c., siano inefficaci, tali da non poter essere utilizzate dal giudice ai fini della decisione, hanno rilevato come dalla qualificazione del vizio della testimonianza resa dall'incapace derivino conseguenze in ordine alle modalità di deduzione dello stesso vizio, risultando applicabile la decadenza ex art. 157 c.p.c., comma 2, solo ove si ritenga che tale vizio configuri un'ipotesi di nullità

 

La Corte ha, infine, evidenziato che la scelta finale di avvalersi o meno delle dichiarazioni del teste incapace (assunte nonostante l'eccezione) spetterebbe comunque alla parte che ha interesse a sollevare l'eccezione medesima, la quale in sede di precisazione delle conclusioni potrebbe decidere di rinunciare a contestare nuovamente la capacità a testimoniare, ove ritenesse tali dichiarazioni per lei favorevoli.

 

E’ nullo il ricorso ex art. 696 bis c.p.c. promosso in ambito di responsabilità medica che non contenga la chiara indicazione dei fatti (azioni od omissioni ed asserite conseguenze pregiudizievoli) posti a fondamento della pretesa                                                                    

Tribunale di Bolzano, ordinanza del 20 giugno 2022                                                                      

 

Con l’ordinanza in esame, il Tribunale di Bolzano ha specificato quali siano i requisiti di validità di un ricorso per accertamento tecnico preventivo promosso ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c. in ambito di responsabilità medica.

 

Il Tribunale di merito, in particolare, nel caso di specie, ritenendo nullo il ricorso avversario, ha rilevato che ai sensi dell’art. 696 cpc l’istanza volta ad un accertamento tecnico preventivo “si propone con ricorso” il quale secondo l’art. 125 c.p.c. […]deve indicare (tra le altre cose) “l’oggetto e le ragioni della domanda” e che in particolare […]deve contenere la specifica indicazione della obbligazione contrattuale o del fatto illecito sui quali si poggia il diritto dell’istante ed ogni elemento utile a specificare l’attività di determinazione che la stessa intende rimettere al consulente ed in particolare, vertendosi in tema di responsabilità medica, la “chiara indicazione dei fatti (azioni od omissioni ed asserite conseguenze pregiudizievoli) posti a fondamento della pretesa” (cfr. Tribunale Arezzo 27 settembre 2011).

 

Il Tribunale, dunque, in applicazione analogica dell’art.164 c.p.c., ritenuto che tale difetto di allegazione integra un’ipotesi di nullità (rilevabile d’ufficio e non santa dalla costituzione in giudizio del convenuto, cfr. Cass. civ. Sez. III Sent., 19/03/2018, n. 6673 (rv. 648296-01)) da disciplinarsi attraverso l’analogica applicazione di norme del libro I ed anche del libro II del codice di procedura civile, considerando, tuttavia, tale nullità sanabile alla stregua dell’art. 164 comma 5 c.p.c.., ha dato, dunque, un termine perentorio a parte ricorrente per l’integrazione del ricorso (stante la costituzione del convenuto) da parte del ricorrente ove quest’ultimo provvederà ad allegare – in maniera analitica– quali inadempimenti esattamente imputa al convenuto e quali danni ritiene di aver subito.

 

 

Per stabilire se si tratta di contratto di assicurazione contro i danni o sulla vita, il giudice deve valutare di volta in volta lo specifico assetto di interessi raggiunto dalle parti con la stipula della polizza                                                                                                                             

Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 12264 del 14 aprile 2022

 

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione si occupa della questione concernente la riconducibilita di una polizza infortuni (anche mortali) all’interno del tipo di contratto di assicurazione contro i danni ovvero a quello di assicurazione sulla vita.

 

La Corte, dopo aver richiamato alcuni orientamenti giurisprudenziali che riconducono il contratto di assicurazione contro gli infortuni ora al ramo danni ora al ramo vita, ha precisato che le Sezioni Unite della Corte di cassazione (Sez. U., Sentenza n. 5119 del 10/04/2002, Rv. 553633 – 01) hanno ragionevolmente osservato come, in realtà, “l’esame della motivazione delle singole pronunce consente di rilevare che, più che stabilire, in via di principio, per assimilazione teorica, l’inquadramento dell’assicurazione contro gli infortuni nell’ambito di uno dei due tipi di assicurazione legislativamente disciplinati, con conseguente integrale applicazione delle rispettive discipline, la S.C. si è di volta in volta impegnata a valutare se, in relazione alla fattispecie in esame, fosse o meno adattabile all’assicurazione contro gli infortuni, priva di organica disciplina, una determinata norma, dettata per l’assicurazione sulla vita ovvero per l’assicurazione contro i danni”.

 

Di conseguenza, la Corte ha rilevato che nella giurisprudenza di questa S.C. non si rinviene una contrapposizione tra indirizzi che affermano, da un lato, l'integrale applicazione all'assicurazione contro gli infortuni delle norme sull'assicurazione sulla vita, e, da altro lato, la completa soggezione alla disciplina dell'assicurazione contro i danni, ma piuttosto una analitica ricerca, ad opera delle singole decisioni, della compatibilità con l'assicurazione contro gli infortuni di norme proprie di entrambi i tipi legalmente disciplinati. Inoltre, è stato evidenziato che le Sezioni Unite hanno quindi proceduto ad esaminare la particolare questione alle stesse sottoposta muovendo dal principio che impone la valutazione della compatibilità, allo specifico fatto negoziale oggetto d'esame, della singola norma di volta in volta considerata.

 

In conclusione, la Corte ha ritenuto di affermare che si tratterà di condurre un'indagine in modo del tutto indipendente da un'aprioristica e astratta riconduzione del contratto di assicurazione contro gli infortuni (anche mortali) all'uno all'altro tipo assicurativo (dell'assicurazione contro i danni o dell'assicurazione sulla vita), dovendosi piuttosto giungere alla più coerente e adeguata disciplina del singolo rapporto in ragione dello specifico assetto di interessi che le parti intesero realizzare attraverso la stipulazione della singola polizza considerata.

 

 

 

RC Auto: la circolazione del veicolo nel demanio pubblico è equiparabile a quella avvenuta su strada pubblica                                                                                                        

Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 12554 del 20 aprile 2022

 

Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla possibilità di equiparare un'area demaniale in cui è avvenuto un sinistro stradale ad una strada pubblica.

 

La Corte per risolvere tale questione ha rilevato che la questione ha trovato recente soluzione nomofilattica con Cass., S.U. n. 21983 del 30/07/2021, che ha affermato il principio secondo cui, "ai fini dell'operatività della garanzia per R.C.A., l'art. 122 del codice delle assicurazioni private va interpretato conformemente al diritto dell'Unione Europea e alla giurisprudenza Eurounitaria (Corte Giustizia del 4 settembre 2014 in causa C-162/2013; Corte Giustizia, Grande Sezione, del 28 novembre 2017 in causa C-514/2016; Corte Giustizia del 20 dicembre 2017 in causa C-334/2016; Corte Giustizia, Grande Sezione, del 4 settembre 2018 in causa C-80/2017; Corte Giustizia del 20 giugno 2019 in causa C-100/2018) nel senso che per circolazione su aree equiparate alle strade va intesa quella effettuata su ogni spazio ove il veicolo possa essere utilizzato in modo conforme alla sua funzione abituale".

 

La responsabilità della società gestrice del supermercato per i danni cagionati alle cose contenute all’interno dei suoi locali è di carattere extracontrattuale ai sensi dell’art. 2051 c.c.

Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 16224 del 19 maggio 2022                                    

 

Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione chiarisce la natura giuridica della responsabilità per i danni cagionati ad un cliente all’interno dei locali di un supermercato.

 

Anzitutto, la Corte osserva come la tesi secondo la quale la responsabilità contrattuale della società gestrice del supermercato deriverebbe dall'inadempimento degli obblighi di protezione derivanti dal contratto di vendita, quali obbligazioni accessorie ed ulteriori rispetto a quelle principali, contemplate dall'art. 1476 c.c., sia infondata.

 

A riguardo la Corte ha evidenziato che l'interesse del cliente di un supermercato a conservare la propria integrità fisica dinanzi al fatto dannoso che può verificarsi all'interno dei locali dello stesso, è un interesse che riceve tutela nella vita di relazione a prescindere dall'acquisto delle merci ivi poste in vendita, e la cui lesione costituisce danno ingiusto risarcibile a titolo di responsabilità extracontrattuale. Precisamente, allorché il danno sia cagionato dalle cose che si trovano all'interno dei locali del supermercato, si integra, nel concorso di tutti gli altri elementi costitutivi, l'ipotesi speciale di responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 2051 c.c., con conseguente obbligo risarcitorio in capo al custode delle cose medesime (Cass. 16 gennaio 2009, n. 993; Cass. 24 febbraio 2011, n. 4476; Cass. 16 maggio 2017, n. 12027).

 

Dunque, a parere della Corte, nel caso di specie l’interesse del cliente del supermercato a conservare il bene della propria integrità fisica dinanzi alla potenzialità dannosa delle cose che si trovavano all'interno dei locali (ivi comprese le porte automatiche di chiusura dell'esercizio) trovava tutela nella norma volta a sanzionare la responsabilità extracontrattuale della società convenuta quale custode delle cose medesime, tanto nella fase antecedente quanto nella fase successiva alla stipulazione del contratto di compravendita delle merci acquistate.

 

Danno da cose in custodia: il comportamento imprudente del danneggiato interrompe il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso quando si connota per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 16568 del 23 maggio 2022                                

 

Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione torna ad occuparsi dell’eventuale incidenza causale che può avere la condotta del danneggiato in tema di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c. in caso di comportamento imprudente dello stesso.

 

La Corte, sul punto, ha, dunque, richiamato le precedenti pronunce di legittimità (si veda Cass. 1 febbraio 2018, nn. 2480, 2481, 2482 e 2483) con le quali questa Corte, sottoponendo a revisione i principi sull'obbligo di custodia, ha stabilito […] che in tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell'art. 1227 c.c., comma 1, richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost.. Ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.

 

La Corte, in conclusione, ha rigettato il ricorso ritenendo che tali principi, ai quali la giurisprudenza successiva si è più volte uniformata (v., tra le altre, le ordinanze 29 gennaio 2019, n. 2345, e 3 aprile 2019, n. 9315), potessero essere ribaditi anche nel giudizio in esame nel quale il comportamento del danneggiato era stato ritenuto la causa esclusiva dell’evento di danno lamentato.

 

La responsabilità per i danni cagionati dalla fauna selvatica spetta in via esclusiva alla Regione

Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 18454 dell’8 giugno 2022                                      

 

Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione si pronuncia nuovamente in tema di responsabilità per i danni cagionati dalla fauna selvatica ribadendo, non solo, la risarcibilità dei danni cagionati a norma dell’art. 2052 c.c., ma anche l’esclusiva legittimazione passiva spettante in materia alla Regione.

 

La Corte ha, infatti, ritenuto di dare continuità all’orientamento di legittimità maggioritario in forza del quale i danni cagionati dalla fauna selvatica sono risarcibili dalla P.A. a norma dell'art. 2052 c.c., giacché, da un lato, il criterio di imputazione della responsabilità previsto da tale disposizione si fonda non sul dovere di custodia, ma sulla proprietà o, comunque, sull'utilizzazione dell'animale e, dall'altro, le specie selvatiche protette ai sensi della L. n. 157 del 1992, rientrano nel patrimonio indisponibile dello Stato e sono affidate alla cura e alla gestione di soggetti pubblici in funzione della tutela generale dell'ambiente e dell'ecosistema;

 

Gli Ermellini hanno, inoltre, osservato che nell’azione di risarcimento del danno cagionato da animali selvatici a norma dell’art. 2052 c.c., la legittimazione passiva spetta in via esclusiva alla Regione, in quanto titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonché delle funzioni amministrative di programmazione, di coordinamento e di controllo delle attività di tutela e gestione della fauna selvatica, anche se eventualmente svolte – per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari – da altri enti; la Regione può rivalersi (anche mediante chiamata in causa nello stesso giudizio promosso dal danneggiato) nei confronti degli enti ai quali sarebbe in concreto spettata, nell’esercizio di funzioni proprie o delegate, l’adozione delle misure che avrebbero potuto impedire il danno.

 

La Corte ha, infine, ricordato che è la Regione a dover essere considerata, ex art. 2052 c.c., l’esclusiva responsabile dei danni causati dagli animali, salvo che provi il caso fortuito. Ciò comporta, evidentemente, che sull’attore che allega di avere subito un danno, cagionato da un animale selvatico appartenente ad una specie protetta rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato, graverà sull’attore l’onere di dimostrare la dinamica del sinistro nonché il nesso causale tra la condotta dell’animale e l’evento dannoso subito, oltre che l’appartenenza dell’animale stesso ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla L. n. 157 del 1992, e/o comunque che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato.

 

Il principio di autonomia del danno morale rispetto a quello biologico

Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 15733 del 17 maggio 2022                                    

 

Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione, dopo aver confermato il principio dell’autonomia del danno morale rispetto a quello biologico, ha chiarito l’iter che deve seguire il giudice di merito nel liquidare il complessivo danno non patrimoniale.

 

Anzitutto, la Corte ha ribadito il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità ai sensi del quale il positivo riconoscimento e la concreta liquidazione, in forma monetaria, dei pregiudizi sofferti dalla persona a titolo di danno morale mantengono integralmente la propria autonomia rispetto ad ogni altra voce del c.d. danno non patrimoniale, non essendone in alcun modo giustificabile l'incorporazione nel c.d. danno biologico, trattandosi (con riguardo al danno morale) di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per la compromissione degli aspetti puramente dinamico-relazionali della vita individuale (in tal senso, Sez. 3, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303 - 01, Sez. 3, Sentenza n. 901 del 17/01/2018; Sez. 3, Sentenza n. 28989 del 11/11/2019, Rv. 656223 - 01)

 

Sulla scorta di tale premessa, la Cassazione ha stabilito che il giudice di merito, nel procedere alla liquidazione del danno non patrimoniale, deve: 1) accertare l'esistenza, nel singolo caso, di un eventuale concorso del danno dinamicorelazionale (c.d. danno biologico) e del danno morale; 2) in caso di positivo accertamento dell'esistenza (anche) di quest'ultimo, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano, che prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno, ma pervengono (non correttamente, per quanto si dirà nel successivo punto 3) all'indicazione di un valore monetario complessivo (costituito dalla somma aritmetica di entrambe le voci di danno); 3) in caso di negativo accertamento, e di conseguente esclusione della componente morale del danno (accertamento da condurre caso per caso), considerare la sola voce del danno biologico, depurata dall'aumento tabellarmente previsto per il danno morale secondo le percentuali ivi indicate, liquidando, conseguentemente il solo danno dinamicorelazionale (biologico); 4) in caso di positivo accertamento dei presupposti per la c.d. personalizzazione del danno (biologico), procedere all'aumento fino al 30% del valore del solo danno biologico, depurato, analogamente a quanto indicato al precedente punto 3, dalla componente morale del danno automaticamente (ma erroneamente) inserita in tabella, giusta il disposto normativo di cui al già ricordato art. 138, comma 3 novellato codice delle assicurazioni.

 

È possibile utilizzare tabelle diverse da quelle del Tribunale di Milano purché non si arrivi a risultanze diverse da quelle che sarebbero derivate in caso di applicazione delle stesse

Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 18840 del 10 giugno 2022                     

 

Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione si occupa della questione riguardante l’utilizzabilità di tabelle diverse da quelle adottate dal Tribunale di Milano nella liquidazione del danno non patrimoniale.

 

Anzitutto, la Corte ha affermato che questa Corte ha da tempo effettivamente indicato come scelta preferibile, per uniformità di adozione su base nazionale, al fine di garantire la parità di trattamento dei danneggiati, e fintanto che manchino criteri indicati dalla legge, che la liquidazione equitativa del danno biologico avvenga sulla base delle tabelle adottate dal Tribunale di Milano e periodicamente da esso aggiornate (Cass. n. 12408 del 2011).

 

Tuttavia, ha anche chiarito che nel corso del tempo, in sede di legittimità, si è precisato che l'allegazione di avvenuta applicazione di una tabella diversa da quella milanese non è sufficiente "ex se" ad inficiare il corretto utilizzo, da parte del giudice, del criterio di liquidazione equitativa, dovendo la correlata denuncia essere accompagnata dall'esposizione delle ragioni che, in concreto, hanno determinato l'incongruo ricorso al criterio in parola (Cass. n. 8884 del 2020).

 

Infine, la Corte ha concluso affermando che l'utilizzo di tabelle diverse da quelle milanesi cioè non è in sé precluso, purché non si arrivi a risultanze che si pongano in patente ed ingiustificato contrasto con quelli che sarebbero derivati in caso di applicazione delle tabelle milanesi, ovvero qualora al danneggiato sia riconosciuto senza una idonea giustificazione un importo non compreso nel "range" previsto dalle tabelle milanesi in uso all'epoca della decisione.

 

La liquidazione di qualunque danno, ove la legge non disponga altrimenti, deve avvenire in base alle regole vigenti al momento della liquidazione, e non al momento del fatto illecito

Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 19299 del 15 giugno 2022                                 

 

Con la ordinanza in esame, la Corte, nel confutare alcuni principi di diritto erronei introdotti in ricorso, richiama un criterio valido per la liquidazione di qualunque danno.

La Cassazione, infatti, evidenzia che la liquidazione di qualunque danno, ove la legge non disponga altrimenti, deve avvenire in base alle regole vigenti al momento della liquidazione, e non al momento del fatto illecito. La liquidazione del danno, infatti, non è un elemento della fattispecie astratta "illecito". La liquidazione del danno è un giudizio, e come tutti i giudizi non può che avvenire in base alle regole (di fonte normativa o pretoria) vigenti al momento in cui viene compiuto.

La Corte ricorda poi che tale criterio è stato applicato dai giudici di legittimità numerose volte tra cui -) in tema di danno alla salute causato da colpa medica, che deve avvenire in base ai criteri stabiliti dalla L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 7, comma 4, anche per i fatti avvenuti prima dell'entrata in vigore di tale legge (Sez. 3 -, Sentenza n. 28990 del 11/11/2019, Rv. 655965 - 01); -) in tema di danno ambientale, da liquidarsi in base ai criteri stabiliti dal d.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311, comma 3, anche se l'illecito è stato commesso prima (Sez. 3 -, Sentenza n. 8662 del 04/04/2017, Rv. 643837 - 02); -) in tema di danno non patrimoniale da morte, da liquidarsi in base ai criteri orientativi (c.d. "tabelle) diffusi al momento della liquidazione, e non dell'illecito (Sez. 3 -, Sentenza n. 5013 del 28/02/2017, Rv. 643140 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 7272 del 11/05/2012, Rv. 622506 01); -) in tema di liquidazione del danno alla persona causato da sinistri stradali, proprio come nel caso di specie (Sez. 3 -, Sentenza n. 18773 del 26/09/2016, Rv. 642106 - 01); -) in tema di liquidazione del danno da ingiusta detenzione, che deve avvenire in base al massimale vigente al momento della liquidazione, e non della detenzione (Sez. U pen., Sentenza n. 24287 del 09/05/2001 (dep. 14/06/2001), Rv. 218974 - 01); -) in tema di liquidazione del danno da c.d. occupazione appropriativa (Sez. 1, Sentenza n. 14357 del 21/12/1999, Rv. 532409 - 01).

Pertanto, la Corte conclude osservando che anche il danno alla salute va liquidato in base ai criteri di legge vigenti al momento della decisione, e non al momento del fatto illecito.

 

Guida in stato di ebrezza: la possibilità di procedere, su richiesta della Polizia stradale, all’accertamento del tasso alcolemico in ambito sanitario è subordinata all’esistenza di due presupposti, ovvero al caso di soggetti coinvolti in incidenti stradali e abbisognevoli di cure mediche

Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 22627 del 10 giugno 2022                                  

 

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione affronta la tematica dei limiti alla possibilità prevista dall’art. 186, c. 7, C.d.S. di procedere, su richiesta della Polizia stradale, all’accertamento del tasso alcolemico in ambito sanitario per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche.

 

Anzitutto, la Corte osserva che l’art. 186, comma 5, C.d.S. prevede testualmente la possibilità di procedere all’accertamento del tasso alcolemico da parte delle strutture sanitarie ivi indicate esclusivamente per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche. Pertanto, la possibilità di procedere, su richiesta della Polizia stradale, all’accertamento del tasso alcolemico in ambito sanitario è subordinata dalla legge all’esistenza di due presupposti ben precisi, essendo rigorosamente circoscritta al caso di soggetti coinvolti in incidenti stradali e abbisognevoli di cure mediche (Sez. 4, n. 21885 del 06/04/2017, Danelli, Rv. 270004). Ne consegue che tali due condizioni sono tassative e devono ricorrere congiuntamente, come risulta inequivocabilmente dal tenore testuale della norma. Per quanto attiene, in particolare, al presupposto inerente alla sottoposizione a cure mediche, occorre osservare che l’art. 186 C.d.S., comma 5, delinea una oggettiva condizione di affidamento del soggetto al personale medico per l’apprestamento di cure, nel contesto della quale colloca l’accertamento del tasso alcolemico, a fini probatori, onde da tale presupposto non può più in alcun modo prescindersi (Sez. 4, n. 37395 del 29/05/2014, Felli, non massimata).

 

La Corte conclude poi affermando che, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 186, comma 7, C.d.S., è necessario che il conducente rifiuti non l’accertamento del tasso alcolemico sic et simpliciter ma l’accertamento così come tassativamente previsto dai commi richiamati nella norma che descrive la condotta tipica (Sez. 4, n. 21192 del 14/03/2012, Bellencin, Rv. 252736, in tema di rifiuto di essere accompagnato presso il più vicino ufficio o comando per sottoporsi a test alcolemico vedi anche Sez. 4, n. 10146 del 15/12/2020, dep. 2021, Mingarelli, Rv. 280953, in fattispecie analoga di rifiuto del conducente di un veicolo di sottoporsi ad accertamenti del tasso alcolemico mediante prelievo di liquido biologico presso un ospedale).

 

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