Newsletter marzo 2022
Limiti ai rilievi critici e alle contestazioni alla c.t.u. formulate dalle parti per la prima volta in comparsa conclusionale ed in appello
Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza n. 5624 del 21 febbraio 2022
Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite sono state chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale esistente circa l’ammissibilità o meno per la parte di contestare per la prima volta in sede di comparsa conclusionale i risultati della consulenza tecnica d'ufficio, e di riproporre tali contestazioni, una volta considerate tardive in primo grado, in appello, sottraendosi alle preclusioni di cui all'art. 345 c.p.c..
Inoltre, nell’ordinanza di rimessione alla Corte, è stato chiesto alle Sezioni Unite se, in caso di ritenuta ammissibilità della contestazione anche in sede di comparsa conclusionale, l’ammissibilità sia subordinata a una valutazione caso per caso del giudice, se la soluzione valga solo per i processi per cui non trovano applicazione i riformati artt. 191 e 195 c.p.c., ovvero anche per i procedimenti instaurati dopo l'entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, se vi siano conseguenze per la parte, sotto il profilo dell'attribuzione delle spese del giudizio o sotto altri profili. Viceversa, in caso di ritenuta inammissibilità della contestazione, se ciò vada ricondotto all'applicazione del disposto di cui all'art. 157 c.p.c., comma 2, alla generalità dei vizi inerenti alla consulenza tecnica, quale categoria comprensiva anche dei vizi che attengono al contenuto dell'atto, ovvero quale conseguenza della mancata partecipazione della parte alla formazione della consulenza, così come stabilito dal giudice con la fissazione dei termini di cui all'art. 195 c.p.c., e, in quest'ultimo caso, se ciò valga solo per i procedimenti cui si applicano i riformati artt. 191 o 195 c.p.c., ovvero anche per i processi ove il giudice abbia fissato, in virtù dei suoi generali poteri di organizzazione e direzione del processo ex art. 175 c.p.c., un termine per il deposito di osservazioni.
Su tali punti, le Sezioni Unite, hanno enunciato i seguenti principi di diritto:
“Le contestazioni e i rilievi critici delle parti alla consulenza tecnica d’ufficio, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., costituiscono argomentazioni difensive, sebbene di carattere non tecnico giuridico, che possono essere formulate per la prima volta nella comparsa conclusionale e anche in appello, purchè non introducano nuovi fatti costitutivi, modificativi o estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove ma si riferiscano all’attendibilità e alla valutazione delle risultanze della CTU e sono volte a sollecitare il potere valutativo del giudice, in relazione a tale mezzo istruttorio.”
"In tema di consulenza tecnica d'ufficio, il secondo termine previsto dell'art. 195 c.p.c., u.c., così come modificato dalla L. n. 69 del 2009, ovvero l'analogo termine che, nei procedimenti cui non si applica, ratione temporis, il novellato art. 195 c.p.c., il giudice, sulla base dei suoi generali poteri di organizzazione e direzione del processo ex art. 175 c.p.c., abbia concesso alle parti ha natura ordinatoria e funzione acceleratoria e svolge ed esaurisce la sua funzione nel subprocedimento che si conclude con il deposito della relazione da parte dell'ausiliare; pertanto la mancata prospettazione al consulente tecnico di osservazioni e rilievi critici non preclude alla parte di sollevare tali osservazioni e rilievi, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., nel successivo corso del giudizio e, quindi, anche in comparsa conclusionale o in appello".
"Qualora le contestazioni e i rilievi critici delle parti alla consulenza tecnica d'ufficio, non integranti eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., siano stati proposti oltre i termini concessi all'uopo alle parti e, quindi, anche per la prima volta in comparsa conclusionale o in appello, il giudice può valutare, alla luce delle specifiche circostanze del caso, se tale comportamento sia stato o meno contrario al dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c., e, in caso di esito positivo di tale valutazione, trattandosi di un comportamento processuale idoneo a pregiudicare il diritto fondamentale della parte ad una ragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 111 Cost. e, in applicazione dell'art. 92 c.p.c., comma 1, u.p.,può tenerne conto nella regolamentazione delle spese di lite".
Gli effetti della mora dell’assicuratore dell’r.c. auto
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 8676 del 17 marzo 2022
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di mora dell’assicuratore in caso di ritardo nella liquidazione del danno in favore del danneggiato di un sinistro stradale.
La Suprema Corte ha, innanzitutto, rilevato che l’assicuratore della r.c.a. è debitore in via diretta d’una obbligazione risarcitoria nei confronti del terzo danneggiato (art. 144 cod.ass.).Ciò significa che tale obbligazione risarcitoria va adempiuta nel termine stabilito dalla legge, che nel caso di morte o lesioni personali causate da persona assicurata da una impresa assicuratrice in bonis è di 90 giorni decorrenti da quello in cui la vittima ha richiesto per iscritto il risarcimento (art. 148 cod. ass.). Superato questo termine legale di adempimento anche l'assicuratore della r.c.a. - come qualsiasi altro debitore inadempiente - va incontro agli effetti della mora, a meno che non dimostri che il ritardo sia dovuto a causa a lui non imputabile, ex art. 1218 c.c. (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 28811 del 08/11/2019 e, soprattutto, Sez. 3, Sentenza n. 1083 del 18/01/2011, ambedue diffusamente in motivazione).
La mora dell’assicuratore, tuttavia, nei confronti del danneggiato comporta delle conseguenze diverse a seconda che il massimale di polizza sia capiente o meno.
Nel primo caso, la mora resta insignificante poiché assorbita dalla mora dell’assicurato; quest’ultimo, in quanto autore di un fatto illecito, è, infatti, tenuto al pagamento degli interessi (compensativi) di mora dal giorno dell'illecito, ai sensi dell'art. 1219 c.c., comma 2, n. 1, interessi che costituiscono una delle voci del risarcimento spettante al terzo, mentre l’assicuratore della r.c.a. ha l'obbligo di pagare al terzo danneggiato il medesimo risarcimento a quegli dovuto dall'assicurato: sia a titolo di capitale, sia a titolo di interessi. Dunque, sino al limite di capienza del massimale l’assicuratore in mora sarà tenuto a versare all’assicurato gli stessi interessi dovuti all’assicurato, vale a dire gli interessi compensativi. Questa è la ragione per la quale si è affermato che l’obbligazione dell’assicuratore della r.c.a., la quale è una obbligazione di valuta, fino a quando non supera il massimale “si comporta” come una obbligazione di valore per quanto attiene alle conseguenze della mora.
Nel secondo caso, invece, l’obbligazione dell’assicuratore nei confronti del terzo danneggiato ha per oggetto l’intero massimale, la quale essendo oggetto di un’obbligazione di valuta, in caso di inadempimento, comporta l’obbligo per l’assicuratore di dover pagare gli interessi legali dal giorno della mora, oltre all’eventuale maggior danno di cui all’art. 1224, c. 2, c.c.. In tale ipotesi, l’assicuratore non può, infatti, più pretendere che le conseguenze della (sua) mora restino contenute nel limite del massimale.
Tale mora debendi dell’assicuratore nei confronti del terzo danneggiato, tuttavia, non deve essere confusa con l’ipotesi di mala gestio impropria, concepibile unicamente nel rapporto tra assicurato ed assicuratore; la mora è, infatti, l’effetto dell’inadempimento d’una obbligazione di dare, mentre la mala gestio è l’inadempimento di una obbligazione di fare (la cura degli interessi dell'assicurato) potendo quest’ultima esporre l’assicuratore al pagamento di somme eccedenti il massimale non solo a titolo di interessi, ma anche a titolo di capitale.
L’esimente della colpa lieve esclude la responsabilità del sanitario solo quando l'intervento medico è di particolare difficoltà e ove si tratti di imperizia del sanitario
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 4905 del 15 febbraio 2022
Con la sentenza in esame la Cassazione affronta la tematica dell’esimente della colpa lieve del sanitario idonea ad escludere la responsabilità del medico nel caso in cui l'intervento effettuato venga ritenuto di particolare difficoltà.
Sul punto la Cassazione, in accoglimento del relativo motivo di impugnazione, ribadendo la nota regola di questa Corte in tema di colpa lieve: vale ad escludere responsabilità quando l'intervento medico sia di particolare difficoltà e solo ove si tratti di imperizia, non già di negligenza o imprudenza, casi questi ultimi in cui anche la colpa lieve è fondamento di responsabilità (…) ha evidenziato che la colpa è lieve non quando la patologia sia grave, ma quando la sua cura sia difficile. È la difficoltà di intervento che rende la colpa meno grave, giudicabile con minor rigore. L’accertamento della gravità della colpa, dunque avrebbe dovuto svolgersi con riferimento alla difficoltà dell’intervento piuttosto che con riferimento alla gravità della colpa.
Il nesso causale tra omissione sanitaria e il decesso va accertato secondo il criterio del più probabile che non
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 8114 del 14 marzo 2022
Con la sentenza in commento, la Cassazione si occupa, in un caso di responsabilità medica, dei criteri di accertamento da adottare al fine di verificare l’esistenza del nesso causale tra la condotta omissiva del sanitario e il fatto dannoso.
Sul punto, la Corte ha, dunque, richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale in tema di responsabilità civile (sia essa legata alle conseguenze dell'inadempimento di obbligazioni o di un fatto illecito aquiliano), la verifica del nesso causale tra la condotta omissiva e il fatto dannoso si sostanzia nell'accertamento della probabilità (positiva o negativa) del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell'omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del "più probabile che non", conformandosi a uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana) (Sez. 3, Ordinanza n.23197 del 27/09/2018, Rv. 650602 - 01).
Il danno patrimoniale da perdita di chance in un concorso pubblico
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 5231 del 17 febbraio 2022
Con l'ordinanza in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di liquidazione del danno patrimoniale da perdita di chance, derivato dalla impossibilità per una candidata di partecipare ad un concorso bandito dall'Università per il conseguimento di un dottorato di ricerca a causa del ritardo nella consegna di una lettera raccomandata proveniente dalla stessa Università.
La Suprema Corte, sul punto, ha evidenziato come la perdita di chance costituisce un danno patrimoniale risarcibile, quale danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente nella perdita di una possibilità attuale, ed esige la prova, anche presuntiva, purchè fondata su circostanze specifiche e concrete, dell’esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità la sua attuale esistenza; ed ha anche affermato che tale perdita implica la sussistenza ex ante di concrete e non ipotetiche possibilità di conseguire vantaggi economici apprezzabili, la cui valutazione è rimessa al giudice di merito.
Inoltre la Cassazione ha chiarito che nella materia specifica dei concorsi, è stato parimenti affermato che l’espletamento di una procedura concorsuale illegittima non comporta di per sé il diritto al risarcimento del danno da perdita di chance, occorrendo che il dipendente provi il nesso di causalità tra l’inadempimento datoriale ed il suddetto danno in termini prossimi alla certezza, essendo insufficiente il mero criterio di probabilità quantitativa dell’esito favorevole.
È qualificabile come infortunio in itinere la morte del lavoratore causata da un infarto durante un viaggio di lavoro all’estero
Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza n. 5814 del 22 febbraio 2022
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia sulla possibilità di ricomprendere nella nozione di infortunio in itinere anche il caso del lavoratore che deceda a causa di un infarto durante una trasferta di lavoro all’estero.
Come noto, ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. n. 38 del 2000, la tutela assicurativa gestita dall'INAIL è stata estesa all'infortunio che colpisce il lavoratore lungo il percorso che collega l'abitazione al lavoro e viceversa. Il D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 2, comma 3, modificato alla luce del suddetto D.lgs stabilisce, infatti, che salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l'assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, precisando che l'interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all'adempimento di obblighi penalmente rilevanti.
Secondo la Corte la norma tutela, infatti, il rischio generico (quello del percorso) cui soggiace qualsiasi persona che lavori, restando confinato il c.d. rischio elettivo a tutto ciò che sia dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella tipica "legata al c.d. percorso normale" (così in motivazione, Cass. n. 18659 del 2020 e Cass. n. 7313 del 2016) così da realizzare una condotta interruttiva di ogni nesso tra lavoro-rischio ed evento.
Sulla base di tale interpretazione, la Corte ha, dunque, ritenuto che la sussistenza di un rapporto finalistico tra il c.d. percorso normale e l’attività lavorativa è sufficiente a garantire la tutela antinfortunistica.
La Corte ha, inoltre, stabilito che la morte derivata da un infarto acuto possa essere inquadrata, ex se, nell'ambito della causa violenta in quanto in caso di infarto, il carattere violento della causa va individuato nella natura stessa dell'infarto, dove si ha una rottura dell'equilibrio dell'organismo del lavoratore concentrata in una minima frazione temporale (Cass. n.13982 del 2000; Cass. n. 14085 del 2000) configurante infortunio sul lavoro quando eziologicamente collegato ad un fattore lavorativo, non escludibile nemmeno dal contributo causale di fattori preesistenti o contestuali.
Infortunio sul lavoro: l’Inail non risarcisce il danno biologico temporaneo e il danno morale
Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza n. 6503 del 28 febbraio 2022
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione chiarisce quali poste di danno biologico siano risarcibili dall’INAIL a seguito di un infortunio sul lavoro.
La Corte ha, infatti, precisato che in base al D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, e al D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 66, comma 1, n. 2, il danno biologico risarcibile dall'INAIL è solo quello relativo all'inabilità permanente(v. Cass., sez. lav., n. 4972 del 2018; Cass., sez. lav., n. 20392 del 2018; Cass., sez. III, n.
24474 del 2020) postulando, dunque, la concessione del beneficio all'indennizzo D.Lgs n. 46 del 2000, ex art. 13, l‘esistenza di una menomazione permanente dell'integrità psico fisica.
Inoltre, la stessa Corte ha evidenziato che Il D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 (secondo il testo in vigore dal 14.06.2001), al comma 2, stabilisce, in particolare, che "In caso di danno biologico (...) l'INAIL, nell'ambito del sistema d'indennizzo e sostegno sociale, in luogo della prestazione di cui all'art. 66, comma 1, n. 2), del testo unico, eroga l'indennizzo previsto e regolato dalle seguenti disposizioni(...)". 19. mentre a sua volta, l'art. 66 del T.U. (id est: del D.P.R. n. 1124 del 1965) elenca le prestazioni dell'assicurazione, fornite dall'INAIL, nelle seguenti: 1) un'indennità giornaliera per l'inabilità temporanea; 2) una rendita per l'inabilità permanente; 3) un assegno per l'assistenza personale continuativa; 4) una rendita ai superstiti e un assegno una volta tanto in caso di morte; 5) le cure mediche e chirurgiche, compresi gli accertamenti clinici; 6) la fornitura degli apparecchi di protesi.
Sulla base, dunque, del combinato disposto delle due norme di legge la Corte afferma che il danno biologico coperto dall'Istituto si riferisca esclusivamente e soltanto alla menomazione permanente dell'integrità psico fisica, che si protrae, cioè, per tutta la vita, che può essere assoluta o parziale e decorre dal giorno successivo a quello della cessazione dell'inabilità temporanea (art. 74, comma 2, T.U. INAIL). Esulano, dunque, dal sistema assicurativo, sia il "danno biologico temporaneo" che il cd. "danno morale".
La liquidazione del danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica: l’inadeguatezza delle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403 del 1922
Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza n. 7821 del 10 marzo 2022
Con l’ordinanza in commento la Corte si occupa della tematica della liquidazione del danno patrimoniale da incidenza della lesione sulla capacità lavorativa dell'infortunato ed in particolare sull’applicabilità per la predetta liquidazione delle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403/1922.
La Cassazione, richiamando alcune proprie recenti pronunce (si veda Cass., 31 agosto 2020, n. 18093 e Cass. 25 giugno 2019 n. 16913) ha evidenziato l’inadeguatezza del criterio di liquidazione rappresentato dalle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403/1922 e la necessità di garantire l’integrale ristoro del danno attraverso il ricorso a parametri non necessariamente tratti da fonti legislative.
La Corte, quindi, accogliendo il ricorso proposto dal lavoratore infortunato, ha evidenziato l’errore di diritto in cui era incorso il Giudice di secondo grado ponendosi in contrasto con il principio secondo il quale il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in applicazione del principio dell'integralità del risarcimento sancito dall'artt. 1223 c.c., deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell'intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall'altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano.
Danni da cose in custodia: è esclusa la responsabilità del custode in caso di pregressa conoscenza delle condizioni di dissesto del luogo della caduta
Cassazione civile, sezione IV, ordinanza n. 7173 del 4 marzo 2022
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c., in caso di conoscenza da parte del danneggiato delle condizioni di dissesto del luogo della caduta.
La Suprema Corte ha evidenziato che in tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in relazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa dell’art. 1227 c.c., comma 1, richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost.. Ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.
E’ stato, inoltre, evidenziato dalla Corte che l'espressione "fatto colposo" che compare nell'art. 1227 c.c. non va intesa come riferita all'elemento psicologico della colpa, che ha rilevanza esclusivamente ai fini di una affermazione di responsabilità, la quale presuppone l'imputabilità, ma deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, stabilita da norme positive e/o dettata dalla comune prudenza rimesso all’apprezzamento del Giudice del merito.
Danni da cose in custodia: il custode deve avere un effettivo potere sulla cosa da cui consegua un dovere di intervento su di essa
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 8408 del 15 marzo 2022
Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione specifica il significato del concetto di rapporto di custodia in tema di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c.
Sul punto la Cassazione ha osservato che la sussistenza del rapporto di custodia con la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo postula, invero, l’effettivo potere sulla cosa, e cioè la disponibilità giuridica e materiale della stessa che comporti il potere - dovere di intervento su di essa. La disponibilità che della cosa ha l’utilizzatore non comporta, invece, necessariamente il trasferimento in capo a quello della custodia; la relativa indagine, così come più in generale la verifica della sussistenza del nesso di causalità materiale richiesto dall’art. 2043 c.c., in tema di responsabilità extracontrattuale – tra un’azione o un’omissione ed un evento, costituisce accertamento di fatto riservato al giudice di merito (ex multis, Cass. Sez. 2, 17/06/2013, n.15096).
Investimento del pedone: non è responsabile il conducente che investa il pedone il cui comportamento imprevedibile ed anormale ha assunto una efficienza causale esclusiva nel verificarsi del danno
Cassazione civile, sezione VI, ordinanza n. 8940 del 18 marzo 2022
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si è pronunciata in un caso di sinistro stradale che ha visto un pedone, sbucato repentinamente dalla vegetazione in prossimità di un'aiuola spartitraffico, essere attinto da un veicolo.
Oggetto di censura era la statuizione della Corte d’appello, confermante la sentenza di prime cure, con la quale era stato ritenuto che il comportamento del pedone avesse avuto un’efficienza causale esclusiva al verificarsi del danno, avendo egli attraversato in modo talmente repentino ed imprevedibile, lontano dalle strisce pedonali, da non consentire all’automobilista di evitare il danno.
La Corte di Cassazione ha stabilito che la Corte territoriale aveva fatto corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la responsabilità del conducente che investa il pedone è esclusa non solo in ragione dell’attraversamento della strada fuori dalle strisce pedonali, ma solo se sia dimostrata, come nel caso di specie, la ricorrenza di un comportamento imprevedibile ed anormale dell’investito tale che l’investitore non abbia l’oggettiva possibilità di avvistarlo e di evitare l’evento, ricorrendo ad una manovra salvifica, semprechè all’investitore non sia rimproverabile la violazione delle regole della circolazione stradale e quelle di comune prudenza.
Nel caso di specie, inoltre, i Giudici di legittimità hanno evidenziato che non vi è stata da parte del conducente, l’inosservanza delle regole delle regole della circolazione stradale, mentre è emersa la responsabilità esclusiva del pedone, in considerazione della sua condotta anomala, rappresentata dall’essere apparso improvvisamente sulla traiettoria dell’auto investitrice e dall’essergli parato davanti improvvisamente ad una distanza talmente breve da rendere inevitabile l’investimento, ritenendo, dunque, gli Ermellini inesigibile una condotta diversa da parte del conducente dell’auto.
Responsabilità medica: le linee guida sono raccomandazioni di ordine generale prive di carattere precettivo
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 7849 del 3 febbraio 2022
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione si occupa della qualificabilità o meno delle c.d. linee guida come regole cautelari.
Anzitutto, la Suprema Corte chiarisce che, nell’ambito del procedimento penale, per l’indicazione della condotta doverosa in campo sanitario (ossia del comportamento ideale che l’esercente la professione sanitaria dovrebbe tenere in relazione a ciascuna singola attiva) è necessario ricercare le leges artis che contengono le varie raccomandazioni operative per i sanitari in relazione alle diverse tipologie di attività a loro affidate e di cui dev'essere anche valutata la pertinenza inrelazione al singolo caso concreto. Sul punto, la Corte chiarisce che a tal fine ci si avvale tradizionalmente delle opinioni di periti e consulenti, i quali sono chiamati a fornire elementi conoscitivi e chiarimenti in funzione della verifica giudiziale dell'adeguatezza della condotta dell'esercente la professione sanitaria. In definitiva, viene in larga parte affidata al contributo di esperienza e di sapere scientifico di soggetti qualificati l'indicazione, nei singoli casi concreti, del c.d.comportamento alternativo diligente che l'agente modello (ossia, come un tempo comunemente si affermava, il professionista sanitario che agisce "secondo la migliore scienza ed esperienza") avrebbe dovuto tenere nelle medesime condizioni.
Pertanto, lo strumento per definire in modo (per quanto possibile) omogeneo i criteri comportamentali dei sanitari nelle diverse situazioni è costituito da previsioni a carattere generale (ancorchè talora molto articolate e minuziose) elaborate a livello scientifico e/o operativo, variamente definite e caratterizzate: ossia, a seconda dei casi, dalle linee guida, dai protocolli e dalle best practices.
Secondo la Corte nell’esperienza italiana le linee guida sono sempre state qualificate come raccomandazioni di carattere ordine generale, rispetto alle quali tuttavia resta salva la libertà di scelta professionale (e la responsabilità) del sanitario nel rapportarsi al caso concreto, nelle sue molteplici varianti e peculiarità e nel rispetto della c.d. relazione terapeutica (o, come altri dice, “alleanza terapeutica”) tra medico e paziente. (…) Inoltre, e soprattutto, non tutti i pazienti sono uguali, né è necessariamente uguale la loro risposta alle patologia che li affligge: e ciò, a talune condizioni, comporta necessariamente un adattamento delle “regole d’ingaggio” al caso concreto e alle variabili che, nell’ambito di esso, entrano in gioco e suggeriscono di attenersi in misura maggiore o minore a “protocolli” e “linee guida”, o addirittura impongono in certi casi di discostarsene. Di qui la natura delle linee guida come regole di massima flessibili ed adattabili alle specificità del caso concreto. Anche per questo, l’approccio giurisprudenziale tradizionale si è sempre mostrato tendenzialmente cauto: la Suprema Corte si esprime da tempo nel senso di non considerare le linee guida come idonee a esaurire le regole di condotta sanitaria in rapporto a ogni singolo caso concreto.
I Giudici nella sentenza hanno altresì precisato che il rispetto delle linee guida non esonera di per sé il medico dalla responsabilità penale in quanto è sempre necessario verificare se la specificità del caso concreto imponesse un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato dalle linee guida.
Pertanto, conclude la Corte alle linee guida non può essere riconosciuto un “carattere precettivo” come quello delle regole cautelari “codificate”, poste a base di forme di colpa specifica e contenute in disposizioni normative, restando tuttavia fermo che, sul piano orientativo – e fatte salve le peculiarità e le specificità di ogni singola vicenda – le raccomandazioni contenute nelle linee guida forniscono un’indicazione di quello che, astrattamente sarebbe il comportamento doveroso del sanitario; tant’è che, sia nella Legge Balduzzi (su un piano generale) che nella Legge Gelli – Bianco (nel solo caso di imperizia, alla luce di quanto affermato da SS.UU. Mariotti), l’adesione alle linee guida comporta una elevazione del grado di colpa rilevante ai fini penali. In tal senso può bensì parlarsi, genericamente ed impropriamente, di “regole” cautelari, ma se ne deve categoricamente escludere il carattere precettivo proprio delle regole normative, rispetto alle quali le linee guida si distinguono per un più ampio margine di flessibilità rispetto alle peculiarità del caso concreto.
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