Newsletter gennaio 2023
La parte non può ovviare, con effetto sanante “ex tunc”, alla mancanza di procura alle liti o, comunque, alla sua assenza in atti in quanto il vigente art. 182, comma 2, c.p.c. non consente di sanare l’inesistenza o la mancanza in atti della procura alle liti .
Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza n. 37434 del 21 dicembre 2022
Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite sono state chiamate, con ordinanza interlocutoria n. 4932/2022, a dirimere il contrasto giurisprudenziale esistente riguardante la possibilità per il Giudice di assegnare alla parte un termine ex art. 182, comma 2, c.p.c. per il rilascio della procura ad litem o per la rinnovazione della stessa, non solo nel caso di procura alle liti presente in atti ma affetta da un vizio che ne procuri la nullità, ma anche nel caso di inesistenza della stessa in atti.
Sul punto, la Suprema Corte ha ricordato esserci due orientamenti contrapposti, ovvero:
- un primo e più estensivo secondo il quale la nuova formulazione normativa (ovvero, quella dell’art. 182 c.p.c. così come riformulato dalla legge n. 69/2009) impone al giudice, anche in grado d’appello, l’assegnazione del termine non solo nel caso di procura alle liti affetta da vizi che ne procurino la nullità, ma anche nell’ipotesi di procura inesistente o, comunque, non in atti, invitando la parte alla regolarizzazione (Sez. 3, n. 11359/2014), valorizzandosi la scelta legislativa di avere previsto, oltre alla “rinnovazione”, anche il “rilascio” della procura, così restando priva di rilievo la distinzione tra inesistenza e nullità (in tal senso Sez. 2, n. 10885/2018);
- il secondo più restrittivo, invece, secondo il quale si nega che la parte possa ovviare, con effetto sanante “ex tunc”, alla mancanza di procura alle liti o, comunque, alla sua assenza in atti.
I giudici di legittimità soffermandosi, dunque, sulla distinzione tra carenza di rappresentanza sostanziale (attinente ad una condizione dell’azione e sanabile in ogni stato e grado di giudizio, mediante la costituzione del soggetto legittimato) e carenza di rappresentanza tecnica in giudizio, hanno evidenziato come il disegno del codice di rito civile, salvo le eccezioni (ad esempio nelle cause minime davanti al Giudice di Pace) prevede che la parte sta in giudizio con il ministero di un avvocato, al quale ha previamente rilasciato procura nelle forme e modi di legge, dovendosi, dunque, leggere in tale contesto la previsione di cui all’art. 182, co. 2, c.p.c. laddove volta a garantire una sanatoria ex tunc della procura alle liti del difensore.
Sulla scorta di tali premesse, la Corte ha precisato che il fondamento dell’orientamento giuriprudenziale più estensivo risieda nel tenore letterale della disposizione normativa, la quale, a fianco della rinnovazione prevede il rilascio, intendendo, con l’uso del verbo rilasciare il confezionamento “ex novo” di un atto prima non esistente (Cass. nn. 23958/2020, 10885/2018) valorizzandosi, sul punto, oltre al dato letterale, anche l’esigenza di ridurre la visione formalistica del processo e la proliferazione delle cause.
Viceversa, i giudici di legittimità hanno rilevato che si registrano plurime decisioni che escludono la “sanabilità” della procura alla lite inesistente (si veda sul punto Cass. n. 24257/2018, la quale ha affermato che in tema di opposizione a sanzione amministrativa, il ricorso in appello proposto dalla parte personalmente è inesistente e, come tale, non sanabile con il successivo deposito di procura conferita al difensore, poiché la sanatoria prevista dall'art. 182, comma 2, cod. proc. civ. (come modificato dall'art. 46, comma 2, della l. n. 69 del 2009), presupponendo che l'atto di costituzione in giudizio sia stato comunque redatto da un difensore, si applica nelle ipotesi di nullità, ma non di originaria inesistenza della procura (Rv. 650812) - in senso conf., Cass. 11930/2020).
La Suprema Corte, sulla scorta di tali orientamenti giurisprudenziali, ha ritenuto che risulti più confacente all’assetto ordinamentale la tesi più restrittiva, in quanto il dato letterale dell’art. 182 c.p.c. non supporta l’opposta opinione e, anzi, suffraga l’idea che la legge non abbia inteso contemplare l’inesistenza (peraltro fenomeno, per così dire, esterno ed estraneo alla categoria giuridica dell’atto viziato in senso proprio), avendo inteso considerare la procura affetta da nullità.
Per la Suprema Corte, la categoria del vizio inficiante la procura è, per espressa e testuale disposizione, quella della nullità. Nullità emendabile attraverso la rinnovazione, evidentemente eliminando il vizio che l’affetta, oppure, a discrezione della parte, mediante il rilascio di una nuova procura. Quest’ultima opzione non contempla affatto che una procura possa non essere esistita, ma, ben diversamente, che la parte possa sanare il vizio, implicante nullità, mediante un nuovo rilascio. Diversamente si sarebbe dovuto divisare ove, a fianco dell’ipotesi della nullità la legge avesse espressamente previsto quella dell’inesistenza.
I Giudici di legittimità hanno, poi, precisato che l’estensione all’inesistenza, non enunciata espressamente dalla legge, si porrebbe in irrisolvibile contrasto con gli artt. 125, co. 2, 165, 166 e 168 cod. proc. civ. e 72 delle disp. att. e trans., i quali disegnerebbero una disciplina inconferente e inutile. Ma, soprattutto si porrebbe in insanabile contrasto con il principio enunciato dagli artt. 82 e 83 cod. proc. civ., che impone, salvo casi limitati ed eccezionali, il ministero di un difensore, negando alla parte, che non sia avvocato, di poter stare in giudizio personalmente.
Sulla scorta quindi di tutto quanto rilevato, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: il vigente art. 182, comma secondo, cod. proc. civ., non consente di “sanare” l’inesistenza o la mancanza in atti della procura alla lite.
Nei procedimenti di istruzione preventiva ex art. 696 bis c.p.c. trova applicazione l'art. 669-terdecies c.p.c., in ordine alla reclamabilità del provvedimento di rigetto dell'istanza per l'assunzione preventiva dei mezzi di prova di cui agli artt. 692 e 696 c.p.c., in quanto tale rimedio è compatibile anche con il rito previsto per provvedimenti non cautelari.
Tribunale di Siena, ordinanza del 7 dicembre 2022
Con l’ordinanza in esame, il Tribunale di Siena si è pronunciato in tema di reclamo avverso il provvedimento di rigetto sull’istanza di consulenza tecnica preventiva proposta ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c., ritenendolo ammissibile.
Il Tribunale ha, in primo luogo, ricordato come la Corte Costituzionale con Sentenza n. 144/2008 abbia dichiarato l’illegittimità degli artt. 692 e 696 c.p.c. nella parte in cui non consentono di utilizzare lo strumento del reclamo, previsto dall'art. 669-terdecies c.p.c., avverso il provvedimento che rigetta l'istanza per l'assunzione preventiva dei mezzi di prova. Osserva il Giudice di Siena come il mancato richiamo all’art 696 bis c.p.c. deriverebbe dall’assenza del requisito dell’urgenza.
Sulla questione era già intervenuta la Suprema Corte con sentenza n. 23976/2019, evidenziando come, a seguito degli interventi della Corte Costituzionale, ivi richiamati trovi applicazione, anche con riferimento ai procedimenti di istruzione preventiva, l'art. 669-terdecies c.p.c., in ordine alla reclamabilità del provvedimento di rigetto dell'istanza per l'assunzione preventiva dei mezzi di prova di cui agli artt. 692 e 696 c.p.c. Ed infatti, se è pur vero che, con riferimento alla consulenza tecnica preventiva di cui all'art. 669-bis c.p.c., difetta il presupposto del periculum in mora, deve ritenersi - anche alla luce di quanto affermato dalla Consulta con la sentenza n. 26 del 2010 - che la disciplina dettata dagli artt. 692-699 c.p.c. non esclude la natura cautelare delle relative misure.
Ricorda il Tribunale, come la Cassazione abbia ritenuto che il rimedio del reclamo è compatibile anche con il rito previsto per provvedimenti non cautelari (basti pensare alla previsione di cui all'art. 739 c.p.c. in tema di procedimenti in camera di consiglio) e che peraltro, milita nel senso della reclamabilità del provvedimento in questione una ulteriore riflessione: l'art. 696-bis c.p.c., al comma 1, secondo periodo, prevede che il giudice procede a norma dell'art. 696 c.p.c., comma 3 che, a sua volta, stabilisce che il giudice provvede nelle forme stabilite negli artt. 694 e 695 codice di rito. Come già sopra rilevato, proprio l'art. 695 c.p.c. e l'art. 669-quaerdecies c.p.c. sono stati dichiarati, con la sentenza della Consulta n. 144 del 2008, incostituzionali nella parte in cui non prevedono la reclamabilità del provvedimento di rigetto dell'istanza per l'assunzione preventiva dei mezzi di prova di cui agli artt. 692 e 696 c.p.c., sicché sarebbe del tutto irragionevole l'esclusione della reclamabilità del provvedimento di mancato accoglimento dell'istanza ex art. 696-bis c.p.c., atteso che quest'ultima norma fa indirettamente riferimento pure all'art. 695 c.p.c., nel modo di cui si è dato conto.
Il Tribunale, sulla scorta di quanto espresso ha concluso per l’ammissibilità del reclamo.
La regola sul conflitto di interessi, rilevante sia se attuale che virtuale, mira tra l'altro ad evitare che l'unicità della difesa possa recare pregiudizio ad una delle parti che potrebbe sostenere una posizione incompatibile con l'altra e la cui comunanza del difensore con la prima potrebbe precludergli. Pertanto, non è possibile per il terzo trasportato, il conducente e il proprietario di veicolo essere assistiti da un unico difensore nel giudizio volto ad accertare la responsabilità di terzi.
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 1765 del 20 gennaio 2023
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha chiarito se in un sinistro stradale possa configurarsi una situazione di conflitto di interessi del difensore, nel caso in cui un unico avvocato rappresenti e difenda contestualmente nel giudizio tre parti processuali, e precisamente il terzo trasportato, il conducente ed il proprietario del veicolo sul quale viaggiava il terzo trasportato.
La Cassazione, in primo luogo, ha rilevato che è pacifico che "nel caso in cui tra due o più parti sussista un conflitto di interessi, è inammissibile la costituzione in giudizio a mezzo dello stesso procuratore e la violazione di tale limite, investendo i valori costituzionali del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, è rilevabile d'ufficio" (Sez. 6, n. 1143 del 2020; Sez. 1, n. 22772 del 2018).
I Giudici di legittimità hanno, poi, osservato che il conflitto di interessi rileva sia se attuale che virtuale.
Inoltre, viene rilevato che nel caso sottoposto alla Corte pur avendo le parti avanzato istanze apparentemente non incompatibili l'una con l'altra, tutte consistendo nella richiesta di accertare la responsabilità di terzi, hanno in giudizio posizioni tali che virtualmente confliggono tra loro.
Infatti, il terzo trasportato può sempre far valere il diritto al risarcimento verso conducente e proprietario (i due uniti da vincolo di solidarietà, 2054 c.c.), e può comunque giovarsi di un accertamento, anche incidentale, fatto in quel giudizio, in altro e distinto procedimento.
La Cassazione ha poi precisato che il Tribunale ha infatti accertato, in primo grado, che la responsabilità era del conducente, per eccesso di velocità, e già questo poneva le parti in posizione di conflitto virtuale nello stesso procedimento- oltre che legittimare un'azione ulteriore del terzo trasportato verso il conducente: la regola sul conflitto di interessi mira tra l'altro ad evitare che l'unicità della difesa possa recare pregiudizio ad una delle parti che potrebbe sostenere una posizione incompatibile con l'altra e che la comunanza del difensore con quella potrebbe precludergli.
Pertanto, secondo la Corte l'effettivo accertamento, in primo grado, della colpa del conducente ha posto in conflitto attuale la posizione di quest'ultimo con quella del terzo trasportato, che quindi avrebbe dovuto avere difesa diversa; ma il conflitto era comunque virtuale a prescindere dall'effettivo accertamento di quella colpa, in quanto, in astratto avrebbe potuto condurre comunque a quell'accertamento.
La perdita di chance a carattere non patrimoniale per la lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria consiste nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze) conseguente - secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica – alla condotta colposa del sanitario ed integra evento di danno risarcibile (da liquidare in via equitativa) soltanto ove la perduta possibilità sia apprezzabile, seria e consistente. L'attività del giudice preposta all’accertamento di tale voce di danno deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell'evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell'una e dell'altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l'evento, secondo il criterio civilistico del "più probabile che non", e procedendo, poi, all'identificazione dell'evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula, come detto, una incertezza del risultato sperato e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno.
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 37728 del 23 dicembre 2022
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha chiarito la natura del danno da perdita di chance non patrimoniale in ambito di responsabilità sanitaria ed i criteri di valutazione che devono essere adottati da parte del Giudice nell’accertamento di tale voce di danno.
La Suprema Corte, in primo luogo, nell’affrontare tale questione ha richiamato il proprio consolidato orientamento secondo il quale la perdita di chance a carattere non patrimoniale per la lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria consiste nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze) conseguente - secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica – alla condotta colposa del sanitario ed integra evento di danno risarcibile (da liquidare in via equitativa) soltanto ove la perduta possibilità sia apprezzabile, seria e consistente (Cass. n. 5641/2018; Cass. n. 28993/2019; Cass. n. 12906/2020; Cass. n. 2261/2022; Cass. n. 25886/2022).
I Giudici di legittimità hanno rilevato che a tal riguardo, l'attività del giudice deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell'evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell'una e dell'altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l'evento, secondo il criterio civilistico del "più probabile che non", e procedendo, poi, all'identificazione dell'evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula, come detto, una incertezza del risultato sperato e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno.
La Corte ha, poi, proseguito stabilendo che la chance, quindi, si sostanzia nell'incertezza del risultato e la perdita, ossia l'evento di danno, si identifica proprio in ragione di questa insuperabile dimensione di incertezza, predicabile alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo (le c.d. leggi di copertura); su queste basi, la Corte ha identificato la chance nel concetto di "incertezza eventistica".
In tema di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c., quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro. La condotta del danneggiato, ferma la sua rilevanza ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1227, comma primo, cod. civ., per escludere il nesso causale fra la cosa e il danno deve connotarsi come «caso fortuito» e, dunque, per oggettive caratteristiche di imprevedibilità ed imprevedibilità che valgano a determinare una definitiva cesura nella serie causale riconducibile alla cosa, idonea ad escludere del tutto la responsabilità del custode. Stabilire se una certa condotta della vittima d'un danno arrecato da cose affidate alla custodia altrui fosse o meno imprevedibile e non prevenibile è un giudizio di fatto, come tale riservato al giudice di merito.
Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza n. 35559 del 2 dicembre 2022
Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione, richiamando i più recenti approdi giurisprudenziali sul tema, è tornata a pronunciarsi in tema di responsabilità per danni da cose in custodia prevista dall’art. 2051 c.c.
La Suprema Corte ha rilevato, in primo luogo, che i più avanzati approdi della riflessione giurisprudenziale di questa Corte, sul tema della responsabilità per i danni da cosa in custodia (art. 2051 cod. civ.) sono in atto rappresentati dalle ordinanze della Terza Sezione Civile 1 febbraio 2018, nn. 2477 - 2483, nelle quali si sono stabiliti i seguenti principi, cui da ultimo ha prestato avallo anche Cass. Sez. U. n. 20943 del 30/06/2022:
a) l'art. 2051 cod. civ., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l'evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima;
b) la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell'art. 2043 cod. civ., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l'evento dannoso;
c) il caso fortuito, il quale può essere rappresentato da fatto naturale o del terzo, o dalla stessa condotta del danneggiato, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall'accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere;
d) la condotta del danneggiato, il quale entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell'art. 1227, comma primo, cod. civ., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost.;
e) ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.
Sulla scorta di quanto sopra chiarito, la Corte ha quindi precisato che, con riferimento a tale ultimo principio, la giurisprudenza ha ormai più volte rimarcato che:
— in tema di responsabilità per danni da cosa in custodia, ove il danno consegua alla interazione fra il modo di essere della cosa in custodia e l'agire umano, non basta a escludere il nesso causale fra la cosa e il danno la condotta colposa del danneggiato, richiedendosi anche che la stessa si connoti come «caso fortuito» e, dunque, per oggettive caratteristiche di imprevedibilità ed imprevedibilità che valgano a determinare una definitiva cesura nella serie causale riconducibile alla cosa (v. Cass. 16/02/2021, n. 4035);
— la eterogeneità tra i concetti di «negligenza della vittima» e di «imprevedibilità» della sua condotta da parte del custode ha per conseguenza che la condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima, ferma la sua rilevanza ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1227, comma primo, cod. civ., non è di per sé sufficiente ad escludere del tutto la responsabilità del custode, occorrendo anche che si tratti di condotta non prevedibile né prevenibile (v. Cass. 31/10/2017, n. 25837; v. anche Cass. n. 26524 del 20/11/2020);
— stabilire se una certa condotta della vittima d'un danno arrecato da cose affidate alla custodia altrui fosse o meno imprevedibile e non prevenibile è un giudizio di fatto, come tale riservato al giudice di merito.
In caso di malattia professionale o infortunio sul lavoro, che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofale), sicché, mentre nel primo caso la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'invalidità temporanea, nel secondo la natura peculiare del pregiudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, che tenga conto della enormità del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte. Tali danni vanno, quindi, tenuti distinti e liquidati con criteri diversi e in caso di danno catastrofale si reputa comunemente necessario fare riferimento al criterio di liquidazione adottato dal Tribunale di Milano, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono.
Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza n. 36841 del 15 dicembre 2022
Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di liquidazione del danno c.d. biologico terminale e del danno c.d. catastrofale, nell'ipotesi in cui la morte della vittima sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall'evento lesivo.
La Suprema Corte, in primo luogo, ha richiamato la sentenza di legittimità n. 17577 del 2019 nella quale è stato chiarito come il danno subito dalla vittima, nell'ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall'evento lesivo, è configurabile e trasmissibile agli eredi nella duplice componente di danno biologico "terminale", cioè di danno biologico da invalidità temporanea assoluta, e di danno morale consistente nella sofferenza patita dal danneggiato che lucidamente e coscientemente assiste allo spegnersi della propria vita; la liquidazione equitativa del danno in questione va effettuata commisurando la componente del danno biologico all'indennizzo da invalidità temporanea assoluta e valutando la componente morale del danno non patrimoniale mediante una personalizzazione che tenga conto dell'entità e dell'intensità delle conseguenze derivanti dalla lesione della salute in vista del prevedibile "exitus” .
Successivamente, i Giudici di legittimità hanno richiamato la sentenza di legittimità n. 12041/2020 con la quale è stata confermata la correttezza di tecniche di liquidazione del danno "terminale" commisurate alle tabelle che stimano l'inabilità temporanea assoluta con opportuni "fattori di personalizzazione", i quali tengano conto dell'entità e dell'intensità delle conseguenze derivanti dalla lesione della salute in vista del prevedibile exitus (Cass. n. 15491/2014, n. 23053/2009, n. 9959/2006, n. 3549/2004) e hanno affermato di voler dare continuità a tale pronuncia con la quale è stato chiarito che:
a) in caso di malattia professionale o infortunio sul lavoro con esito mortale, che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofale), sicché, mentre nel primo caso la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'invalidità temporanea, nel secondo la natura peculiare del pregiudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, che tenga conto della "enormità" del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte (cfr. Cass. n. 23183/2014, n. 15491/2014);
b) si tratta di danni che vanno tenuti distinti e liquidati con criteri diversi;
c) per il danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso) la liquidazione può ben essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'invalidità temporanea e deve essere effettuata in relazione alla menomazione dell'integrità fisica patita dal danneggiato sino al decesso; tale danno, qualificabile come danno "biologico terminale", dà luogo ad una pretesa risarcitoria, trasmissibile "iure hereditatis" da commisurare soltanto all'inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte;
d) invece il danno catastrofale - che integra un danno non patrimoniale di natura del tutto peculiare consistente nella sofferenza patita dalla vittima che lucidamente e coscientemente assiste allo spegnersi della propria vita - comporta la necessità di una liquidazione che si affidi a un criterio equitativo denominato "puro" - ancorché sempre puntualmente correlato alle circostanze del caso - che sappia tener conto della sofferenza interiore psichica di massimo livello, correlata alla consapevolezza dell'approssimarsi della fine della vita, la quale deve essere misurata secondo criteri di proporzionalità e di equità adeguati alla sua particolare rilevanza ed entità, e all'enormità del pregiudizio sofferto a livello psichico in quella determinata circostanza (vedi, tra le altre, Cass. n. 23183/2014);
e) ai fini della sussistenza del danno catastrofale, la durata di tale consapevolezza non rileva ai fini della sua oggettiva configurabilità, ma per la sua quantificazione secondo i suindicati criteri di proporzionalità e di equità (in termini: Cass. n. 16592/2019; v. pure Cass. n. 23153/2019, n. 21837/2019);
f) per ottenere uniformità di trattamento a livello nazionale, per questa ultima voce di danno si reputa comunemente necessario fare riferimento al criterio di liquidazione adottato dal Tribunale di Milano, per l'ampia diffusione sul territorio, appunto, nazionale e per il riconoscimento attribuito dalla giurisprudenza di legittimità, alla stregua, in linea generale e in applicazione dell'art. 3 Cost., del parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico a norma degli artt. 1226 e 2056 c.c., salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono (cfr. Cass. n. 12408/2011, n. 27562/2017; v. anche Cass. n. 9950/2017);
Infine, la Corte ha osservato che la disparità di trattamento in materia risulta tanto più irragionevole, perché destinata a consumarsi nella sfera protetta dal riconoscimento costituzionale del diritto alla salute quale diritto fondamentale ed inviolabile della persona umana; proprio dal nucleo irriducibile di tale diritto discende il principio dell'integrale riparazione del pregiudizio quale aspetto essenziale della tutela risarcitoria dei valori non patrimoniali dell'individuo.
La Corte ha, dunque, cassato con rinvio la sentenza impugnata ritenendo che in tale pronuncia non si fosse tenuto conto del criterio di liquidazione individuato dalla Suprema Corte nelle tabelle che stimano l’inabilità temporanea con opportuni “fattori di personalizzazione”, quale parametro di conformità della valutazione equitativa del danno alle disposizioni degli artt. 1226 e 2056 c.c. e che non si fosse considerata la duplice componente fenomenologica del danno oggetto di giudizio.
Le nuove tabelle milanesi consentono - al pari di quelle romane - una liquidazione rispettosa dei criteri indicati dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 10579 e 26300 del 2021, onde la loro applicazione dovrà ritenersi del tutto conforme a diritto poiché l’individuazione di tali criteri consente l'applicazione della legge, ordinaria e costituzionale (art. 1226 c.c., art. 3 Cost.), in modo sostanzialmente – sia pur se solo tendenzialmente, in assenza di una tabella unica nazionale di matrice legislativa - uniforme sul territorio nazionale.
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 37009 del 16 dicembre 2022
Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione si è occupata di specificare i criteri di liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale e la conseguente scelta della tabella di riferimento.
La Corte ha precisato, preliminarmente, che tale questione deve essere risolta alla luce dei principi recentemente affermati da questo giudice di legittimità con le sentenze n. 10579/2021 e 26300/2021 - principi cui il collegio intende dare continuità, sia pur con le precisazioni che seguono.
La Corte, infatti, pur ricordando come le citate sentenze evidenziarono la carenza, in seno alla tabella milanese, di parametri standard di valutazione, idonei a garantire l’applicazione di un criterio equitativo, ha rilevato come le ultime tabelle milanesi, rielaborate e rese pubbliche nel mese di giugno del corrente anno, si siano conformate tout court ai requisiti richiesti dalla Suprema Corte per la liquidazione del danno parentale.
Più precisamente, i Giudici di legittimità hanno osservato che nelle nuove tabelle, l'assegnazione dei punti è stata ripartita in funzione dei cinque parametri corrispondenti all'età della vittima primaria e della vittima secondaria, della convivenza tra le due, della sopravvivenza di altri congiunti e della qualità intensità della specifica relazione affettiva perduta. Sulla base di tali indicazioni, partendo dai valori monetari previsti dalla precedente formulazione "a forbice", è stato ricavato il valore base per la tabella relativa alla perdita di genitori/figli/coniuge/assimilati, nonché per quella relativa alla perdita di fratelli/nipoti.
Peraltro, secondo la Corte, dei cinque parametri considerati ai fini della distribuzione a punti, quattro hanno natura oggettiva - e sono quindi dimostrabili - (…) mentre il quinto ha natura soggettiva e riguarda sia gli aspetti dinamico relazionali (stravolgimento della vita della vittima secondaria in conseguenza della perdita) sia quelli da sofferenza interiore.
Per ciascun parametro, dunque, è necessario fornire adeguata allegazione e prova che, può avvenire anche per il tramite di presunzioni, non essendo predicabile, nel sistema della responsabilità civile, l'esistenza di una fattispecie di danno in re ipsa.
Sulla scorta di tutto quanto sopra osservato, la Corte ha, dunque, chiarito che le nuove tabelle milanesi consentono - al pari di quelle romane - una liquidazione rispettosa dei criteri indicati da questa Corte con le citate pronunce 10579 e 26300 del 2021, onde la loro applicazione (…) dovrà ritenersi del tutto conforme a diritto nel caso di specie, poiché l'individuazione dei criteri poc'anzi ricordati consente l'applicazione della legge, ordinaria e costituzionale (art. 1226 c.c., art. 3 Cost.), in modo sostanzialmente – sia pur se solo tendenzialmente, in assenza di una tabella unica nazionale di matrice legislativa – uniforme sul territorio nazionale.
L'accertamento del danno alla persona deve essere sì condotto secondo una rigorosa criteriologia medico-legale, ma nell'ambito di detta criteriologia, anche nel caso di micro-permanenti, sono ammissibili anche fonti di prova diverse dai referti di esami strumentali. Gli esami strumentali, infatti, non sono l'unico mezzo utilizzabile, ma si pongono in una posizione di fungibilità ed alternatività rispetto all'esame obiettivo (criterio visivo) e all'esame clinico, demandato al medico legale. I criteri scientifici di accertamento e di valutazione del danno biologico tipici della medicina legale (e cioè il criterio visivo, il criterio clinico ed il criterio strumentale), invero, non sono tra di loro gerarchicamente ordinati e neppure vanno unitariamente intesi, ma vanno utilizzati dal medico legale, secondo le legis artis, nella prospettiva di una "obiettività" dell'accertamento, che riguardi sia le lesioni che i relativi eventuali postumi.
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 37477 del 22 dicembre 2022
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi dell’annosa questione della risarcibilità delle lesioni di lieve entità ai sensi dell’ 139 del Codice delle Assicurazioni Private, in assenza di accertamento clinico strumentale delle predette lesioni.
La Corte, in primo luogo, ha rilevato che i criteri di accertamento del danno biologico, evocati dalla normativa vigente, stanno complessivamente a significare la necessità di condurre a una obiettività dell'accertamento medico legale che riguardi le lesioni ed i relativi postumi (sent. n. 18773/2016). Ed ha precisato (sent. n. 1272/2018; ord. nn. 22066/2018, 5820/2019 e 11218/2019) che le modifiche legislative del 2012 hanno assunto come obiettivo quello di rimarcare l'imprescindibilità di un rigoroso accertamento dell'effettiva esistenza di dette patologie, anche quando normativamente di modesta entità, e cioè con esiti permanenti contenuti entro la soglia invalidante del 9 per cento.
Sulla scorta di tale premessa, la Corte ha osservato che il rigore - che il legislatore ha dimostrato di esigere e che, peraltro, deve caratterizzare ogni tipo di accertamento in tale materia - non può essere inteso nel senso che la prova della lesione debba essere fornita, nel caso di microlesioni, sempre e comunque con l'accertamento clinico strumentale (radiografie, TAC, risonanze magnetica, ecc.). Infatti, è sempre e soltanto l'accertamento medico legale, che sia svolto in conformità alle leges artis, a stabilire se la lesione sussista e quale percentuale sia ad essa ricollegabile (ord. n. 7753/2020).
Infatti, secondo i Giudici di legittimità l'accertamento medico legale non può essere imbrigliato con un vincolo probatorio che, ove effettivamente fosse posto per legge, condurrebbe a dubbi non manifestamente infondati di legittimità costituzionale, posto che il diritto alla salute è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione e che la limitazione della prova della lesione del medesimo deve essere conforme a criteri di ragionevolezza, anche nei casi di danni anatomici non accertabili strumentalmente (quali fratture, lussazioni, lesioni legamentose, ecc.).
Secondo la Corte, il rigore perseguito dal legislatore va, infatti, inteso nel senso che - fermo restando un accertamento rigoroso in rapporto ad ogni singola patologia e ferma restando l'irrilevanza della mera sintomatologia soggettiva riferita dal danneggiato - accanto a situazioni nelle quali, data la natura della patologia e la modestia della lesione, l'accertamento strumentale risulta, in concreto, l'unico in grado di fornire la prova rigorosa che la legge richiede, ve ne possano essere altre nelle quali, al contrario, sempre data la natura della patologia e la modestia della lesioni, è possibile pervenire ad una diagnosi attendibile anche senza ricorrere a tali accertamenti, tenuto conto del ruolo insostituibile della visita medico legale e dell'esperienza clinica dello specialista, sulla cui base dovranno essere rassegnate al giudice conclusioni scientificamente documentate e giuridicamente ineccepibili.
Pertanto, l'accertamento del danno alla persona deve essere sì condotto secondo una rigorosa criteriologia medico-legale, ma nell'ambito di detta criteriologia, anche nel caso di micro-permanenti, sono ammissibili anche fonti di prova diverse dai referti di esami strumentali. Gli esami strumentali, infatti, non sono l'unico mezzo utilizzabile, ma si pongono in una posizione di fungibilità ed alternatività rispetto all'esame obiettivo (criterio visivo) e all'esame clinico, demandato al medico legale. I criteri scientifici di accertamento e di valutazione del danno biologico tipici della medicina legale (e cioè il criterio visivo, il criterio clinico ed il criterio strumentale), invero, non sono tra di loro gerarchicamente ordinati e neppure vanno unitariamente intesi, ma vanno utilizzati dal medico legale, secondo le legis artis, nella prospettiva di una "obiettività" dell'accertamento, che riguardi sia le lesioni che i relativi eventuali postumi.
La Corte ha, infine, osservato come ad impedire il risarcimento del danno alla salute con esiti micropermanenti, dunque, non è di per sé l'assenza di riscontri diagnostici strumentali, ma piuttosto l'assenza di una ragionevole inferenza logica della sua esistenza stessa, che ben può essere compiuta sulla base di qualsivoglia elemento probatorio od anche indiziario, purché in quest'ultimo caso munito dei requisiti di cui all'art. 2729 c.c. ritenendo che la nuova normativa, dunque, valorizza (e, al contempo, grava di maggiore responsabilità) il ruolo del medico legale, imponendo a quest'ultimo la corretta e rigorosa applicazione di tutti i criteri medico legali di valutazione e stima del danno alla persona. Pertanto, sarà risarcibile anche il danno i cui postumi non siano "visibili", ovvero non siano suscettibili di accertamenti strumentali, a condizione che l'esistenza di essa possa affermarsi sulla base di una ineccepibile e scientificamente inappuntabile criteriologia medico legale.
Nel caso in cui il risarcimento del danno avvenga tramite il pagamento di un acconto seguito poi dalla liquidazione definitiva del danno, il computo degli interessi deve essere svolto anche sulla somma versata a titolo di acconto poiché altrimenti non si riproduce la condizione patrimoniale in cui il danneggiato si sarebbe trovato se il fatto illecito non si fosse verificato.
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 832 del 13 gennaio 2023
Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione ha definito i criteri da adottare per il calcolo degli interessi sul credito risarcitorio nel caso in cui le somme a titolo di risarcimento non siano state versate in un’unica soluzione, ma tramite il versamento di un acconto, seguito poi dalla liquidazione definitiva.
La Corte ha rilevato, in primo luogo, che il danno da fatto illecito forma l'oggetto d'una obbligazione di valore, cioè d'un debito che, al momento in cui nasce, non è predeterminato in una somma di denaro né è monetizzabile con un criterio oggettivo. Il risarcimento del danno ha lo scopo di riprodurre la condizione patrimoniale in cui si sarebbe trovato il danneggiato se il fatto illecito non si fosse verificato.
I Giudici di legittimità hanno, poi, osservato come nel caso in cui il risarcimento avvenga tramite il pagamento di acconti seguito poi dalla liquidazione definitiva del danno, se, (..), si omette il computo degli interessi sulla somma versata a titolo di acconto, e cioè dalla data del sinistro fino al pagamento dell'acconto, non si riproduce la condizione patrimoniale in cui il danneggiato si sarebbe trovato se il fatto illecito non si fosse verificato.
Pertanto, la Corte, richiamando dei propri precedenti giurisprudenziali, ha stabilito che il computo degli interessi deve essere svolto anche sulla somma versata a titolo di acconto.
La Corte ha, dunque, chiarito come la liquidazione del danno da ritardato adempimento di un'obbligazione di valore, ove il debitore abbia pagato un acconto prima della quantificazione definitiva, debba avvenire:
a) devalutando l'acconto ed il credito alla data dell'illecito;
b) detraendo l'acconto dal credito;
c) calcolando gli interessi compensativi individuando un saggio scelto in via equitativa, ed applicandolo prima sull'intero capitale, rivalutato anno per anno, per il periodo intercorso dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto, e poi sulla somma che residua dopo la detrazione dell'acconto, rivalutata annualmente, per il periodo che va da quel pagamento fino alla liquidazione definitiva." Questo orientamento si è ormai consolidato, essendo stato ribadito da più pronunce (Cass.,3, n. 25817 del 31/10/2017; Cass., 3, n. 16027 del 18/5/2022).
In tema di sinistri da circolazione stradale, il principio dell’affidamento trova un temperamento nel principio secondo cui il soggetto garante del rischio è responsabile anche del comportamento imprudente altrui, purché questo rientri nel limite generale della prevedibilità ed evitabilità del caso concreto. La possibilità di fare affidamento sulla condotta diligente altrui viene meno allorquando, in relazione alle circostanze del caso specifico, sia concretamente e ragionevolmente prevedibile l'inosservanza delle regole cautelari da parte degli altri utenti della strada.
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 48632 del 22 dicembre 2022
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione penale ha ribadito i confini del c.d. principio dell’affidamento nell’ambito della circolazione stradale, rilevando, in primo luogo che tale regola è espressione del più generale principio, costituzionalmente enunciato, della responsabilità penale personale dell'imputato, temperato dalla regola dell'auto-responsabilità.
La Corte ha ribadito il proprio consolidato orientamento in materia di sinistri stradali in forza del quale il principio dell'affidamento trova un temperamento nel principio secondo il quale il soggetto garante del rischio è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite generale della prevedibilità ed evitabilità del caso concreto (ex multis Sez. 4, n. 5691 del 02/02/2016, Tettamanti, Rv. 265981; Sez. 4, n. 27513 del 10/05/2017, Mulas, Rv. 269997; Sez. 4, n. 7664 del 06/12/2017, Bonfrisco, Rv. 272223).
Secondo i Giudici di legittimità, il principio di cui si discute, più in generale, "costituisce una particolare accezione del più generale principio del rischio consentito: dover continuamente tener conto delle altrui possibili violazioni della diligenza imposta avrebbe il risultato di paralizzare ogni azione, i cui effetti dipendano anche dal comportamento altrui. Al contrario, l'affidamento è in linea con la diffusa divisione e specializzazione dei compiti ed assicura il migliore adempimento delle prestazioni a ciascuno richieste. Nell'ambito della circolazione stradale tale principio è sotteso ad assicurare la regolarità della circolazione, evitando l'effetto paralizzante di dover agire prospettandosi tutte le altrui possibili trascuratezze" (Sez. 4, n. 27513 del 10/05/2017, Mulas, Rv. 269997).
Infine, la Corte ha ricordato che la possibilità di fare affidamento sulla condotta diligente altrui viene meno allorquando, in relazione alle circostanze del caso concreto, sia concretamente e ragionevolmente prevedibile l'inosservanza delle regole cautelare da parte degli altri utenti della strada. Il giudizio di prevedibilità, anche in questo caso, deve essere svolto dal giudice ex ante, avendo come parametro di riferimento la condotta del c.d. agente modello razionale, tenendo conto di tutte le circostanze spazio-temporali conosciute o conoscibili al momento dell'evento.
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