Newsletter novembre 2021
L’incapacità a testimoniare del conducente del veicolo tamponante nel processo instaurato dal danneggiato contro il proprietario del predetto veicolo e della sua compagnia assicurativa
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 14468 del 26 maggio 2021
Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in merito all’incapacità a testimoniare del conducente del veicolo tamponante nel processo instaurato dal danneggiato proprietario del veicolo tamponato contro il proprietario del veicolo tamponante e la relativa compagnia assicurativa.
La Suprema Corte ribadisce, infatti, che la vittima di un sinistro stradale, anche se già risarcita, è incapace a deporre nel giudizio pendente tra altra vittima e il responsabile; ciò in quanto la vittima di un sinistro stradale [...] ha sempre un interesse giuridico, e non di mero fatto, all'esito della lite introdotta da altro danneggiato contro un soggetto potenzialmente responsabile nei confronti del testimone. Infatti, anche quando il diritto del testimone sia prescritto o sia estinto per adempimento o rinuncia, egli potrebbe pur sempre teoricamente intervenire nel giudizio proposto nei confronti del responsabile per far valere il diritto al risarcimento di danni a decorso occulto, o lungolatenti, o sopravvenuti all'adempimento e non prevedibili al momento del pagamento, danni che come ripetutamente affermato da questa Corte sfuggono tanto alla prescrizione (che non decorre con riguardo ai danni ignorati e non conoscibili dalla vittima), quanto agli effetti del c.d. "diritto quesito", quando non siano stati prevedibili al momento dell'adempimento o della rinuncia.
A tal proposito, la Cassazione ricorda una propria precedente pronuncia secondo la quale l'incapacità prevista dall'art. 246 c.p.c. si verifica solo quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso sì da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia che ivi è in discussione. Non ha, invece, rilevanza l'interesse di fatto ad un determinato esito del giudizio stesso (Cass. 9353/2012).
Secondo i giudici di legittimità, il trasportato testimone e danneggiato, pertanto, ha un interesse giuridico, e non di mero fatto, all'esito della lite introdotta tanto dal vettore contro l'antagonista, quanto a quella introdotta da quest'ultimo contro il primo potendo, ad esempio, avere interesse:
- all'accertamento della responsabilità concorsuale dei due conducenti, per beneficiare del cumulo di due massimali assicurativi;
- all'accertamento della responsabilità concorsuale dei due conducenti, per potere inoltrare la propria richiesta ad un secondo debitore, nel caso di renitenza od insolvenza del primo;
- all'accertamento dell'assenza della ricorrenza d'un caso fortuito, per potere evitare che il vettore si sottragga alla propria responsabilità invocando il disposto dell'art. 141 cod. ass.
Nei giudizi di responsabilità medica instaurati prima della modifica all’art. 195 c.p.c. ad opera dell'art. 46 della Legge 69/2009, in caso di mancata sottoposizione della bozza del CTU ai consulenti di parte, la C.T.U. è affetta da mera irregolarità
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 26992 del 5 ottobre 2021
Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione chiarisce quali sono le conseguenze che derivano dalla mancata sottoposizione della bozza della relazione peritale del C.t.u. ai consulenti di parte in un giudizio di responsabilità medica instaurato prima della modifica all’art. 195 c.p.c. ad opera dell'art. 46 della Legge 69/2009.
La Suprema Corte afferma che, nel regime precedente la modifica dell'art. 195 c.p.c., nessuna norma del codice di rito impone al c.t.u. di fornire ai consulenti di parte una "bozza" della propria relazione, in quanto, al contrario, le parti possono legittimamente formulare critiche solo dopo il deposito della relazione da parte del consulente tecnico d'ufficio, atteso che il diritto di esse ad intervenire alle operazioni tecniche anche a mezzo dei propri consulenti deve essere inteso non come diritto a partecipare alla stesura della relazione medesima, che è atto riservato al consulente d'ufficio, ma soltanto all'accertamento materiale dei dati da elaborare.
Di conseguenza, secondo i giudici di legittimità, non è affetta da nullità - ma da mera irregolarità, che resta irrilevante ove non tradottasi in nocumento del diritto di difesa - la consulenza tecnica d'ufficio, qualora il consulente, pur disattendendo le prescrizioni del provvedimento di conferimento dell'incarico peritale, abbia omesso di mettere la sua relazione a disposizione delle parti per eventuali osservazioni scritte, da consegnargli prima del deposito della relazione stessa.
La mancata specifica reiterazione, in sede di precisazione delle conclusioni, delle istanze istruttorie rigettate dal Giudice non ne fa presumere l’abbandono se, attraverso l'esame degli scritti difensivi della parte, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa
Cassazione civile, sezione II, sentenza, n. 33103 del 10 novembre 2021
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla mancata reiterazione, in sede di precisazione delle conclusioni, delle istanze istruttorie formulate nei propri atti difensivi e non ammesse dal giudice.
La Suprema Corte richiama innanzitutto il consolidato orientamento per cui la parte che si sia vista rigettare dal giudice le proprie richieste istruttorie ha l'onere di reiterarle, in modo specifico, quando precisa le conclusioni, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, le stesse devono ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in sede di impugnazione.
Tuttavia, secondo la Cassazione, il suddetto principio dev’essere coordinato sul tema con gli altri principi - anch’essi rinvenibili nella giurisprudenza di legittimità - in tema di interpretazione del contegno processuale del difensore in sede di precisazione delle conclusioni, sulla scorta dei quali il tema della presunzione di rinuncia/abbandono delle domande o eccezioni non riproposte in sede di precisazione delle conclusioni viene prevalentemente risolto nel senso di una ricerca ricostruttiva dell'effettiva volontà della parte, disancorata dai rigidi formalismi processuali.
Dunque, i giudici di legittimità ritengono che anche una presunzione di abbandono di istanze istruttorie in sede di precisazione delle conclusioni non possa, in taluni casi, prescindere da una doverosa indagine volta ad accertare se, effettivamente, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l'esame degli scritti difensivi quali la comparsa di costituzione, le memorie di cui all'art. 183 c.p.c. (o art. 184 c.p.c., nella formulazione ratione temporis applicabile), e poi con la comparsa conclusionale di cui all'art. 190 c.p.c., la cui funzione tipica - è bene rimarcarlo - è proprio quella di illustrare le domande e le questioni già proposte e che la parte intende sottoporre al giudice.
Alla luce di ciò, la Suprema Corte afferma che resta comunque salva la possibilità, per il giudice di merito, di ritenere superata la presunzione di abbandono delle richieste istruttorie qualora dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l'esame degli scritti difensivi.
In definitiva, la Corte ha, dunque, sancito il seguente principio di diritto: la parte che si sia vista rigettare dal giudice le proprie richieste istruttorie ha l'onere di reiterarle, in modo specifico, quando precisa le conclusioni, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poichè, diversamente, le stesse devono ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in sede di impugnazione; resta salva però la possibilità per il giudice di merito di ritenere superata tale presunzione qualora dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l'esame degli scritti difensivi.
Spetta all’assicurato dimostrare l’assenza di completa erosione dell’importo di cui alla franchigia aggregata pattuita
Corte d’appello di Catanzaro, sentenza n. 1470 del 17 novembre 2021
Con la sentenza in commento la Corte d’appello di Catanzaro si pronuncia in merito all'onere probatorio incombente sull’assicurato, con particolare riferimento alla prova dell'erosione del limite della franchigia aggregata concordata nel contratto di assicurazione.
La Corte d’appello di Catanzaro afferma che la parte assicurata ha l'onere di provare la sussistenza delle condizioni di operatività della polizza stipulata, con precipuo riferimento all’avvenuta erosione del limite della franchigia aggregata concordata nel contratto di assicurazione, e tanto in applicazione anche in materia del regime dell’onere probatorio dettato dall’art. 2697 c.c., in forza del quale incombe sull’assicurato l’onere di dimostrare la sussistenza della garanzia, della sua estensione e dei suoi limiti.
Secondo i giudici, infatti, laddove venga domandato l’adempimento di un contratto di cui la controparte contesti l’esatta delimitazione del relativo oggetto alla stregua delle clausole in esso pattuite, questo deve essere provato unicamente dall’attore che intenda giovarsi dei conseguenti effetti trattandosi di fatto costitutivo della domanda ai sensi dell’art. 2697, comma 1, c.c. Analogamente, in ipotesi di contratto di assicurazione, l’allegazione del convenuto per la quale la polizza non produca i suoi effetti per essere il danno riconducibile ad una clausola contrattuale di esclusione della garanzia assicurativa, quale [...] l’assenza di completa erosione dell’importo di cui alla franchigia aggregata pattuita, lungi da potersi qualificare come eccezione in senso proprio, dovrà inquadrarsi piuttosto in termini di eccezione in senso improprio e, come tale, non compresa del capoverso dall’art. 2697 c.c. citato, poiché sostanziantesi in una contestazione della mancanza di prova, incombente sull’attore, del fatto costitutivo della domanda.
Il criterio del "più probabile che non" va utilizzato unicamente con riguardo all'indagine sul nesso di causalità tra l'operato del medico e l'evento sofferto dal danneggiato
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 26304 del 29 settembre 2021
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in un caso di responsabilità da malpractice sanitaria, chiarendo quali siano le prospettive di valutazione che il Giudice deve adottare nell’accertamento del nesso di causalità tra l'operato del medico e l'evento sofferto dal danneggiato e nell’accertamento della colpa del sanitario nell'adempimento della propria prestazione.
La Suprema Corte afferma che mentre l’indagine sul nesso di causalità nell'ambito della responsabilità civile deve ritenersi necessariamente affidata, nell'individuazione dello standard probatorio della relazione causale investigata, al criterio del "più probabile che non" (alternativo a quello della responsabilità "oltre ogni ragionevole dubbio" rilevante in sede penale), l'indagine sulla colpa del sanitario (e, dunque, sulla prospettabile negligenza, imprudenza o imperizia, dello stesso nell'adempimento della propria prestazione professionale) attiene invece alla valutazione dell'attendibilità degli elementi probatori utilizzati ai fini della ricostruzione del comportamento del debitore, ossia alla correttezza dell'inferenza critica che, sul piano logico, autorizza l'affermazione della concreta sussistenza di un determinato fatto ignorato (il comportamento difforme dalla regola cautelare) quale conseguenza logicamente attribuibile alla preliminare verificazione di fatti certi.
Secondo la Corte di Cassazione, sul terreno della responsabilità civile, la censura critica avanzata, in sede di legittimità, sulla valutazione logico-giuridica della diligenza di un determinato comportamento ricostruita senza l'utilizzazione del criterio del "più probabile che non" (rispetto al contenuto rappresentativo degli elementi probatori disponibili), non è di per sé suscettibile di intercettare un vizio di legittimità del ragionamento del giudice di merito, segnatamente laddove quest'ultimo, pur non avendo prescelto, sul piano dell'adeguatezza rappresentativa di un elemento probatorio, la configurazione probatoria "più probabilmente adeguata" (in termini espressivi), abbia comunque tratto inferenze critiche non illogiche, e dunque non censurabili in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione.
In conclusione, il criterio del "più probabile che non" è suscettibile di essere utilizzato [...] unicamente con riguardo all'indagine sul nesso di causalità [...], là dove, con riferimento a ogni altra indagine sulla valutazione dell'idoneità rappresentativa di un determinato compendio probatorio (e quindi anche con riguardo all'indagine sulla diligenza di un determinato comportamento umano), deve ritenersi legittimamente utilizzabile la più elastica categoria dell’attendibilità" (come predicato della maggiore o minore "congruità logica" dell'inferenza critica), poiché la (attuale) legge processuale civile non consente di censurare la legittimità della motivazione della sentenza, là dove la stessa si dipani in termini di (semplice) adeguatezza logica, pur non integrando l'opzione interpretativa del compendio probatorio dotata della più elevata probabilità di esattezza rappresentativa.
L’omessa preventiva informazione al paziente sugli effetti pregiudizievoli del trattamento sanitario, pur correttamente eseguito secundum legem artis, può riverberarsi sulla violazione del diritto alla salute del paziente
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 27109 del 6 ottobre 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di danno da omessa informazione da parte del medico nei confronti del paziente, nel caso in cui l’intervento medico sia stato, invece, eseguito correttamente ed in conformità alle leges artis.
La Suprema Corte ribadisce preliminarmente il consolidato orientamento secondo cui l'acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell'intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell'eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente. Secondo la Cassazione, infatti, si tratta di due distinti diritti: mentre il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all'espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente [...], il trattamento medico terapeutico ha viceversa riguardo alla tutela del (diverso) diritto fondamentale alla salute. [...] L'autonoma rilevanza della condotta di adempimento della dovuta prestazione medica ne impone, pertanto, l'autonoma valutazione rispetto alla vicenda dell'acquisizione del consenso informato.
I giudici di legittimità affermano che in mancanza di consenso informato l'intervento del medico è (al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità) sicuramente illecito, anche quando sia nell'interesse del paziente, in quanto l'obbligo del consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Tale obbligo attiene all'informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto, al fine di porlo in condizione di consapevolmente consentirvi. [...] La struttura e il medico hanno dunque il dovere di informare il paziente in ordine alla natura dell'intervento, ai suoi rischi, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili nonché delle implicazioni verificabili. A tal proposito, la Suprema Corte ricorda che il consenso informato va acquisito anche qualora la probabilità di verificazione dell'evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento, poiché la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono omettere di fornirgli tutte le dovute informazioni (Cass. 19731/2014).
Secondo la Corte di Cassazione il consenso libero e informato [...] non può mai essere presunto o tacito ma deve essere sempre espressamente fornito, dopo avere ricevuto un'adeguata informazione, anch'essa esplicita, laddove presuntiva può essere invece la prova che un consenso informato sia stato dato effettivamente ed in modo esplicito, ed il relativo onere ricade sulla struttura e sul medico.
Pertanto, a fronte dell'allegazione di inadempimento da parte del paziente è onere della struttura e del medico provare l'adempimento dell'obbligazione di fornirgli un'informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze, senza che sia dato presumere il rilascio del consenso informato sulla base delle qualità personali del paziente, potendo esse incidere unicamente sulle modalità dell'informazione, la quale deve [...] sostanziarsi in spiegazioni dettagliate ed adeguate al livello culturale del paziente, con l'adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone.
In conclusione, la violazione del diritto al consenso informato può avere riflessi anche sulla violazione del diritto alla salute del paziente quando l'atto terapeutico necessario e pur correttamente eseguito secundum leges artis cui siano conseguiti effetti pregiudizievoli non sia stato [...] preceduto dalla preventiva espressa indicazione al paziente dei relativi possibili effetti pregiudizievoli, potendo essere riconosciuto il risarcimento ove il paziente alleghi e provi che, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi a detto intervento, ovvero avrebbe vissuto il periodo successivo ad esso con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze e sofferenze, ovvero avrebbe deciso di farsi operare presso altra idonea struttura.
I confini del risarcimento del danno in tema di consenso informato
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 27268 del 7 ottobre 2021
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema dei confini del risarcimento del danno in caso di violazione dell'obbligo informativo da parte dei sanitari.
La Suprema Corte, in primo luogo, ribadisce i principi dalla stessa già precedente enunciati (Cass. 28985/2019; Cass. 9706/2020; Cass. n. 24471/2020), secondo cui:
1) la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all'autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2, 13 Cost. e art. 32 Cost., comma 2;
2) sebbene l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico (comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute), in ragione dell'unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente [...] non può affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tale da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno; è possibile, invece, che anche l'inadempimento dell'obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e benefici della terapia si inserisca tra i fattori "concorrenti" della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute [...];
3) qualora venga allegato e provato, come conseguenza della mancata acquisizione del consenso informato, unicamente un danno biologico, ai fini dell'individuazione della causa "immediata" e "diretta" (ex art. 1223 c.c.) di tale danno-conseguenza, occorre accertare, mediante giudizio controfattuale, quale sarebbe stata la scelta del paziente ove correttamente informato, atteso che, se egli avesse comunque prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento, la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute, se determinata dalla errata esecuzione della prestazione professionale; mentre, se egli avrebbe negato il consenso, il danno biologico scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile "ab origine" alla violazione dell'obbligo informativo, e concorrerebbe, unitamente all'errore relativo alla prestazione sanitaria, alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno-conseguenza;
4) le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all'autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l'onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico eventualità non rientrante nell'id quod plerumque accidit [...].
Alla luce di ciò, la Cassazione afferma che i confini entro cui ci si deve muovere ai fini del risarcimento in tema di consenso informato sono i seguenti:
a) nell'ipotesi di omessa o insufficiente informazione riguardante un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente e al quale egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi, nessun risarcimento sarà dovuto;
b) nell'ipotesi di omissione o inadeguatezza informativa che non abbia cagionato danno alla salute del paziente ma che gli ha impedito tuttavia di accedere a più accurati attendibili accertamenti, il danno da lesione del diritto costituzionalmente tutelato all'autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente alleghi che dalla omessa informazione siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e di contrazione della libertà di disporre di sé, in termini psichici e fisici.
L’omessa o ritardata diagnosi di una patologia terminale può ledere il diritto di autodeterminazione del paziente
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 27682 del 12 ottobre 2021
Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia sul tema del danno risarcibile in caso di omessa o ritardata diagnosi di una patologia morbosa terminale.
La Suprema Corte afferma di aderire all’orientamento secondo cui in tema di danno alla persona, conseguente a responsabilità medica, integra l'esistenza di un danno risarcibile alla persona l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in quanto essa nega al paziente, oltre che di essere messo nelle condizioni di scegliere "cosa fare", nell'ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all'esito infausto, anche di essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche, in vista e fino a quell'esito.
La Cassazione precisa, poi, che la violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali, determinata dal colpevole ritardo diagnostico di una patologia ad esito certamente infausto, non coincide con la perdita di "chances" connesse allo svolgimento di specifiche scelte di vita non potute compiere, ma con la lesione di un bene di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l'assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno sulla base di una liquidazione equitativa (Cass. 7260/2018).
Dunque, in caso di colpevole ritardo nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l'area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, né nella perdita di "chance" di guarigione, ma include la perdita di un "ventaglio" di opzioni con le quali scegliere come affrontare l'ultimo tratto del proprio percorso di vita, che determina la lesione di un bene reale, certo - sul piano sostanziale - ed effettivo, apprezzabile con immediatezza, qual è il diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali; in tale prospettiva, il diritto di autodeterminarsi riceve positivo riconoscimento e protezione non solo mediante il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all'opposto, mediante la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche attraverso la mera accettazione della propria condizione.
Le modalità di liquidazione del danno alla salute in caso di menomazioni concorrenti
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 32657 del 9 novembre 2021
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia su una domanda di risarcimento del danno da malpractice sanitaria proposta nei confronti di una struttura ospedaliera da parte dei genitori di un neonato che, a causa della patologia pregressa di cui la madre era portatrice, sarebbe comunque nato con patologie neurologiche irreversibili.
In merito alle modalità di liquidazione di tale danno, la Suprema Corte afferma il seguente principio di diritto:
1) lo stato anteriore di salute della vittima di lesioni personali può concausare la lesione, oppure la menomazione che da quella è derivata;
2) la concausa delle lesioni è giuridicamente irrilevante sul piano della causalità materiale;
3) la menomazione preesistente può essere concorrente o coesistente col maggior danno causato dall'illecito;
4) saranno "coesistenti" le menomazioni i cui effetti invalidanti non mutano per il fatto che si presentino sole od associate ad altre menomazioni, anche se afferenti i medesimi organi; saranno, invece, "concorrenti" le menomazioni i cui effetti invalidanti sono meno gravi se isolate, e più gravi se associate ad altre menomazioni, anche se afferenti ad organi diversi;
5) le menomazioni coesistenti sono di norma (e salvo specificità del caso concreto) irrilevanti ai fini della liquidazione;
6) le menomazioni concorrenti vanno di norma tenute in considerazione:
a) stimando in punti percentuali l'invalidità complessiva dell'individuo (risultante, cioè, dalla menomazione preesistente più quella causata dall'illecito), e convertendola in denaro;
b) stimando in punti percentuali l'invalidità teoricamente preesistente all'illecito, e convertendola in denaro; lo stato di validità anteriore al sinistro dovrà essere però considerato pari al 100% in tutti quei casi in cui le patologie pregresse di cui il danneggiato era portatore non gli impedivano di condurre una vita normale;
c) sottraendo l'importo (b) dall'importo (a), partendo dal valore (b);
7) resta imprescindibile il potere-dovere del giudice di ricorrere all'equità correttiva ove la rigida applicazione del calcolo che precede conduca, per effetto della progressività delle tabelle, a risultati manifestamente iniqui per eccesso o per difetto.
Danno da perdita del rapporto parentale: per la liquidazione del danno si devono applicare tabelle basate sul sistema a punti ed il danneggiato ha esclusivamente l'onere di fare istanza di liquidazione del danno non patrimoniale mediante applicazione del sistema tabellare, non l’onere di produrre in giudizio le tabelle
Cassazione civile, sezione III, sentenza n. 33005 del 10 novembre 2021
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di danno da perdita del rapporto parentale, con riferimento, in particolare, alle tabelle da adottare per la sua liquidazione e all’onere di produzione in giudizio delle stesse.
La Suprema Corte ricorda che le tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale rappresentano la concretizzazione in forma di fattispecie della clausola generale di valutazione equitativa del danno di cui all'art. 1226 c.c. e che la conversione della clausola generale in ipotesi standardizzate, alla stessa stregua di fattispecie, risponde all'esigenza di preservazione dell'uniformità e prevedibilità delle decisioni a garanzia del fondamentale principio di eguaglianza (Cass. 21 aprile 2021, n. 10579).
La Cassazione menziona, dunque, una sua precedente pronuncia, la sentenza n. 12408 del 7 giugno 2011, secondo la quale l’uniformità di trattamento è garantita dal criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono. Benché le tabelle giudiziali non costituiscano una fonte di diritto che il giudice è tenuto a conoscere, esse, tuttavia, vengono ritenute integrare il diritto vivente se acquistano, come nel caso delle tabelle del Tribunale di Milano, la valenza di determinazione del danno non patrimoniale conforme a diritto.
Secondo la Cassazione, sul tema, è necessario distinguere fra il proporre l'istanza di applicazione delle tabelle e l'onere di produzione o quanto meno di allegazione del contenuto delle tabelle medesime negli scritti defensionali. Nella sentenza della Corte di Cassazione del 2011, infatti, si richiedeva non solo che l'applicazione delle tabelle fosse stata invocata nei gradi di merito, ma [...] anche che nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi erano comunemente adottate, le tabelle fossero state versate in atti, mediante deposito o riproduzione negli scritti difensionali. Secondo la Suprema Corte, l'esigenza di produzione in giudizio delle tabelle era data dal fatto che queste, all’epoca, non erano "comunemente adottate" in tutti gli uffici giudiziari; tuttavia, il decennio da allora trascorso, che ha consolidato il diritto vivente in termini di utilizzo delle tabelle milanesi quale parametro di liquidazione del danno non patrimoniale basato sul sistema del punto variabile, impone di presumere non solo che l'assoluta prevalenza degli uffici giudiziari abbia adottato nella propria giurisprudenza le tabelle in discorso, ma anche che le tabelle siano facilmente accessibili mediante i comuni mezzi di comunicazione, ed in primo luogo i mezzi informatici; e ciò vale, afferma la Corte, non solo per le tabelle milanesi, ma anche a per quelle adottate negli altri uffici giudiziari. Di conseguenza, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale mediante il criterio tabellare il danneggiato ha esclusivamente l'onere di fare istanza di applicazione del detto criterio, spettando poi al giudice di merito di liquidare il danno non patrimoniale mediante la tabella conforme a diritto.
Nel caso di danno da perdita di rapporto parentale, la Corte di Cassazione intende, dunque, dare continuità alla sua precedente pronuncia, la sentenza n. 10579 del 21 aprile 2021, secondo la quale, al fine di garantire non solo un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l'adozione del criterio a punto, l'estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l'elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l'indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull'importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l'eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella. Secondo la sentenza in commento, le tabelle milanesi, non rispondendo ai predetti requisiti, sono da considerarsi conformi a diritto salvo che per la liquidazione del danno da perdita di rapporto parentale; pertanto, in quest’ultimo caso, devono essere applicate altre tabelle che rispondano ai requisiti sopra indicati.
Il Comune non è responsabile dei danni riportati dal conducente di un veicolo in seguito all’impatto contro un albero caduto sulla strada in seguito ad un nubifragio
Cassazione civile, sezione III, ordinanza n. 27527 del 11 ottobre 2021
Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in tema di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c. in un caso di richiesta di risarcimento del danno formulata nei confronti di un Comune da parte del conducente di un veicolo a seguito dell’impatto contro un grosso albero caduto sulla strada in prossimità del suo passaggio.
I giudici di legittimità hanno ribadito il consolidato orientamento per cui il caso fortuito può essere costituito da eventi che si inseriscono, spezzandola, nell'ordinaria serie causale che prende le mosse dall'esistenza della cosa custodita, eventi che [...] devono essere non conoscibili né eliminabili con immediatezza. Dunque, il caso fortuito, ove ricorrente, spezza la serie causale ovvero "toglie di mezzo" gli effetti giuridici della serie causale ordinaria, rappresentando un quid che esorbita dall'attività custodiale, ovvero dall'area del possibile propria della vigilanza: il fortuito è quel che è impossibile vigilare (Cass. 1725/2019; Cass. 8811/2020).
La responsabilità del custode va, di conseguenza, esclusa nel caso in cui il custode non abbia avuto tempo sufficiente per intervenire a eliminare l'imprevisto (che si sostanzia nel "caso fortuito") e quindi disinserirlo dalla serie causale in cui coinvolta è la cosa custodita. Secondo la Suprema Corte, il concetto della prevedibilità si rapporta intrinsecamente a quello della conoscibilità, utilizzato per esprimere proprio l'obbligo del custode di prevedere lo status in cui può venire a trovarsi il bene che custodisce. Perciò, sussiste l’obbligo del custode solo qualora questi sia effettivamente nella condizione di adempiere all’obbligo stesso e tale possibilità di adempiere va valutata non solo in base all'estensione dell'intero bene, ma anche alla luce di tutte le circostanze del caso concreto.
La Cassazione, a tal proposito, ricorda due fondamentali principi in materia di responsabilità degli enti proprietari delle strade:
a) in tema di circolazione stradale è dovere primario dell'ente custode della strada di garantirne la sicurezza mediante l'adozione delle opere e l'assunzione dei provvedimenti necessari;
b) il custode della strada non è responsabile di ciò che non sia prevedibile oggettivamente ovvero di tutto ciò che rappresenta un'eccezione alla normale sequenza causale, che, invece, per quanto detto rapportato ad una valutazione ex ante o in astratto, integra il caso fortuito, quale causa non prevedibile: da tanto derivando che l'imprevedibilità, da un punto di vista oggettivizzato, comporta pure la non evitabilità dell'evento.
In conclusione, secondo la Cassazione va esclusa la responsabilità da cose in custodia in capo all'ente proprietario e gestore della strada per i danni patiti dal conducente di un veicolo che abbia impattato contro un grosso albero caduto sulla strada in prossimità del suo passaggio, non potendo il custode rispondere dei danni cagionati da un evento da qualificarsi oggettivamente non prevedibile come corrispondente alla normale regolarità causale nelle condizioni date dei luoghi e non tempestivamente eliminabile o segnalabile.
Ai fini della liquidazione equitativa del danno, il danneggiato ha l’onere di dimostrare ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno di cui possa ragionevolmente disporre
Cassazione civile, sezione II, ordinanza n. 31251 del 3 novembre 2021
Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione chiarisce quali sono i presupposti in presenza dei quali il giudice è tenuto a liquidare il danno in via equitativa.
La Suprema Corte ricorda che alla liquidazione del danno il giudice può procedere anche in via equitativa, in forza del potere conferitogli dagli artt. 1226 e 2056 c.c., restando, peraltro, la cosiddetta equità giudiziale correttiva ed integrativa subordinata alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare e, a un tempo, non comprendendo tale potere giudiziale anche l'accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo la liquidazione equitativa già assolto l'onere della parte di dimostrare sia la sussistenza sia l'entità materiale del danno subito.
Secondo i giudici di legittimità, i danni derivanti dalla perdita del guadagno di un'attività commerciale per loro stessa natura evidenziano la pratica impossibilità di una precisa dimostrazione; tuttavia, spetta all'attore l'onere di fornire elementi, di natura contabile o fiscale, con riguardo, indicativamente, alla consistenza ed alla redditività dell'esercizio commerciale, al fatturato e agli utili realizzati negli anni precedenti, all'incidenza del pagamento del canone e degli oneri connessi alla locazione. Infatti, l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., non esime la parte interessata dall'onere di dimostrare non solo l'"an debeatur" del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi "in re ipsa", ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui, nonostante la riconosciuta difficoltà, possa ragionevolmente disporre.
In caso di danni cagionati da fauna selvatica la legittimazione passiva è in capo alla Regione, che ha l’onere di fornire la prova liberatoria del caso fortuito
Cassazione civile, sezione VI-3, ordinanza n. 32018 del 5 novembre 2021
Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di danni cagionati da fauna selvatica ex art. 2052 c.c. in un caso di incidente stradale causato dell’attraversamento improvviso di un capriolo sulla strada.
La Suprema Corte ribadisce i principi, già affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui i danni cagionati dalla fauna selvatica sono risarcibili dalla pubblica amministrazione giacché, da un lato, il criterio di imputazione della responsabilità previsto da tale disposizione si fonda non sul dovere di custodia ma sulla proprietà o, comunque, sull'utilizzazione dell'animale e, dall'altro, le specie selvatiche protette ai sensi della L. n. 157 del 1992 rientrano nel patrimonio indisponibile dello Stato e sono affidate alla cura e alla gestione di soggetti pubblici in funzione della tutela generale dell'ambiente e dell'ecosistema.
Continuano i giudici di legittimità affermando che nell'azione di risarcimento del danno cagionato da animali selvatici a norma dell'art. 2052 c.c. la legittimazione passiva spetta in via esclusiva alla Regione, in quanto titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonché delle funzioni amministrative di programmazione, di coordinamento e di controllo delle attività di tutela e gestione della fauna selvatica, anche se eventualmente svolte - per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari - da altri enti; la Regione può rivalersi (anche mediante chiamata in causa nello stesso giudizio promosso dal danneggiato) nei confronti degli enti ai quali sarebbe in concreto spettata, nell'esercizio di funzioni proprie o delegate, l'adozione delle misure che avrebbero dovuto impedire il danno.
Infine, la Corte di Cassazione evidenzia che grava sul danneggiato l'onere di dimostrare il nesso eziologico tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo, mentre spetta alla Regione fornire la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che la condotta dell'animale si è posta del tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l'adozione delle più adeguate e diligenti misure - concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto e compatibili con la funzione di protezione di gestione e controllo dell'ambiente e dell'ecosistema - del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi.
Infortunio sul lavoro: la responsabilità del datore di lavoro è esclusa solo in caso di c.d. rischio elettivo del lavoratore
Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza n. 25597 del 22 settembre 2021
Nell’ordinanza in esame la Corte di Cassazione affronta il tema della responsabilità del datore di lavoro per infortunio del lavoratore nel caso in cui quest’ultimo, nello svolgimento della propria mansione, abbia posto in essere una condotta imprudente.
La Suprema Corte afferma che la dimensione dell'obbligo di sicurezza che grava sul datore di lavoro comporta che questi sia tenuto a proteggere l'incolumità dei lavoratori e a prevenire anche i rischi insiti nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia dei medesimi nell'esecuzione della prestazione, dimostrando di aver posto in essere ogni precauzione a tal fine idonea […], con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le misure protettive, comprese quelle esigibili in relazione al rischio derivante dalla condotta colposa del lavoratore, sia quando, pur avendo adottate le necessarie misure, non accerti e vigili affinché queste siano di fatto rispettate da parte del dipendente.In tale cornice, l'eventuale condotta colposa del lavoratore non può avere alcun effetto esimente per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni o per la mancata adozione delle misure necessarie a tutela della salute psicofisica dei lavoratori.
Secondo i giudici di legittimità, l'eventuale imprudenza o negligenza del lavoratore non rileva neanche ai fini del concorso di colpa quando vi sia inadempimento datoriale rispetto all'adozione di cautele, tipiche o atipiche, concretamente individuabili, nonché esigibili ex ante ed idonee ad impedire, nonostante l'imprudenza del lavoratore, il verificarsi dell'evento dannoso. È, pertanto, da escludere la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell'art. 1227 c.c., comma 1 (al di fuori dei casi cd. di rischio elettivo), quando risulti che il datore di lavoro abbia omesso di adottare le prescritte misure di sicurezza, oppure abbia egli stesso impartito l'ordine, nell'esecuzione puntuale del quale si è verificato l'infortunio, o ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi; ricorrendo tali ipotesi, l'eventuale condotta imprudente della vittima degrada a mera occasione dell'infortunio ed è, pertanto, giuridicamente irrilevante.
La Corte di Cassazione ricorda il consolidato orientamento per cui la condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento (Cass. 4075/2004), cioè quando la condotta del lavoratore, del tutto imprevedibile rispetto al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, rappresenti essa stessa la causa esclusiva dell'evento (Cass. 3786/2009). Trattasi, in tal caso, del c.d. "rischio elettivo", ossia una condotta personalissima del lavoratore, esercitata ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa e tale da creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità di lavoro e da porsi come causa esclusiva dell'evento, interrompendo il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata.
In conclusione, in relazione al precetto stabilito dall'art. 2087 c.c., la responsabilità del datore di lavoro, nel caso di danno alla salute subito dal lavoratore, è […] esclusa se il danno è provocato da una condotta di quest'ultimo del tutto atipica ed eccezionale rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute in modo da porsi come causa esclusiva dell'evento dannoso.
Infortunio sul lavoro: i limiti dell’onere probatorio incombente sul lavoratore danneggiato
Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza n. 29909 del 25 ottobre 2021
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in un caso di infortunio sul lavoro chiarendo i limiti dell’onere probatorio gravante sul lavoratore danneggiato, creditore dell’obbligo di sicurezza previsto dall’art. 2087 c.c.
La Suprema Corte preliminarmente rileva che l’art. 2087 c.c. disciplina un’ipotesi di responsabilità contrattuale e costituisce una norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali, l'omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.
I giudici di legittimità osservano che le caratteristiche del contenuto dell'obbligo di protezione ex art. 2087 c.c. […] sono destinate a riverberarsi sugli oneri di allegazione e prova del lavoratore, creditore dell'obbligo di sicurezza, il quale agisca in giudizio per far valere la responsabilità datoriale per il risarcimento del danno, oneri che alla luce della giurisprudenza di questa Corte presentano profili ulteriori di complessità rispetto a quelli del creditore di una prestazione già ab origine compiutamente individuata nei suoi tratti essenziali.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (a partire da Cass. SS.UU. sentenza n. 13533 del 30 ottobre 2001), il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento o anche dalla impossibilità sopravvenuta della prestazione per fatto non imputabile. Per quanto riguarda l’onere di allegazione dell’inadempimento, tuttavia, la Suprema Corte osserva che, poiché l'inadempimento esprime la qualificazione giuridica di una determinata condotta, commissiva o omissiva, adottata in violazione di un obbligo preesistente, tanto comporta che la relativa allegazione debba modularsi in relazione alle caratteristiche ed al contenuto di tale obbligo ed alla conseguente identificazione della condotta che nello specifico ne ha determinato violazione. Perciò, qualora la fonte contrattuale non identifichi in maniera specifica la condotta dovuta dal debitore, il creditore della prestazione che agisce in giudizio per la risoluzione, l'adempimento o anche, come nel caso di specie, per il risarcimento del danno, non può sottrarsi all'onere della puntuale identificazione del comportamento che la controparte avrebbe dovuto tenere.
In particolare, nel caso dell'art. 2087 c.c., l'allegazione dell'inadempimento datoriale richiederà [...] la individuazione delle misure di prevenzione che il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare al fine di evitare la lesione del bene tutelato.Di conseguenza, in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell'art. 2087 c.c., la parte che subisce l'inadempimento non deve dimostrare la colpa dell'altra parte [...], ma è comunque soggetta all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Tuttavia, afferma la Corte, laddove la concreta situazione di fatto descritta dal lavoratore, sulla base della quale questi assume la violazione dell'obbligo di sicurezza, si presenti priva di particolari profili di complessità e cioè tale da consentire in maniera agevole la individuazione delle condotte che astrattamente potevano pretendersi dal soggetto datore di lavoro o anche, specularmente, di escludere in radice la sussistenza di un siffatto obbligo, non vi è ragione di gravare il lavoratore di un onere di allegazione che nel contesto descritto finirebbe per assumere un rilievo meramente formalistico, in contrasto con la esigenza di effettività di tutela e con la stessa natura primaria degli interessi coinvolti.
La rilevanza del coefficiente di probabilità statistica nella valutazione della responsabilità omissiva colposa del medico
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 30229 del 3 agosto 2021
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema dell’accertamento del nesso causale in caso di omissione colposa del medico, soffermandosi in particolare sul valore da attribuire al coefficiente salvifico di responsabilità statistica ed agli ulteriori elementi indiziari emersi nel corso del processo.
La Suprema Corte osserva che, nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, al fine di stabilire se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del medico e l'evento lesivo, non si può prescindere dall'individuazione di tutti gli elementi rilevanti in ordine alla "causa" dell'evento stesso, giacché solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici la scaturigine e il decorso della malattia è possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale.Tale giudizio controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l'evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale.
Secondo i giudici di legittimità, sussiste il nesso di causalità tra l'omissione del medico e il decesso del paziente qualora risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell'intensità della sintomatologia dolorosa [...]. Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, cosicché, all'esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con alto grado di credibilità razionale.
Infine, rimane il problema di stabilire in che modo il coefficiente salvifico di probabilità statistica - idoneo a ricondurre causalmente l'evento al comportamento omissivo del medico - possa essere "modificato" dagli ulteriori dati indiziari processualmente emersi, mediante l'analisi delle particolarità del caso concreto, in maniera tale da sorreggere quel giudizio di "alta probabilità logica" idoneo a fondare la ragionevole certezza della configurabilità del nesso causale, e quindi la responsabilità penale del medico che abbia adottato un comportamento colposo. Secondo la Cassazione, il giudice di merito non potrà basarsi sulla mera "sommatoria" dei dati indiziari emersi rispetto al "nudo" dato statistico indicativo delle (generali e teoriche) probabilità di salvezza del paziente. I dati indiziari, piuttosto, dovranno essere attentamente scrutinati, singolarmente e nel loro complesso, dall'organo giudicante, e quindi analizzati - anche avvalendosi del parere degli esperti - al fine di offrire una ragionevole e convincente spiegazione in ordine alla concreta "attitudine" degli stessi ad incidere in maniera significativa sul coefficiente probabilistico di natura scientifico/statistica, incrementandolo in maniera tale da rendere (eventualmente) "elevato" il giudizio di "credibilità razionale" dell'ipotesi per cui, se il medico avesse adottato l'intervento omesso, il paziente si sarebbe salvato.
Si tratta di un giudizio complesso che dovrà essere compiutamente argomentato e che, nella maggior parte dei casi, non potrà prescindere dal dato scientifico fornito dal contributo degli esperti. Di tale dato scientifico il giudice è tenuto a dare adeguato conto, al fine di offrire una motivata valutazione in ordine all'attitudine degli elementi indiziari caratterizzanti il caso concreto ad incidere sul coefficiente di probabilità statistica, in maniera tale da "elevarlo" fino a giungere ad un motivato giudizio di alta probabilità logica in ordine all'efficacia salvifica della condotta omessa, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Responsabilità medica: il rispetto delle linee guida non esclude la colpa del sanitario se queste non risultano adeguate al caso concreto
Cassazione penale, sezione IV, sentenza n. 37617 del 18 ottobre 2021
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema responsabilità medica e, in particolare, sulla possibilità di ravvisare dei profili di colpa anche in capo al medico che, nell’esecuzione della propria prestazione, si attenga alle linee guida.
La Suprema Corte sottolinea che il formale rispetto delle linee guida vigenti presso il nosocomio […] non può considerarsi esaustivo ai fini dell'esclusione della responsabilità del medico: ciò in quanto le linee guida, lungi dall'atteggiarsi come regole di cautela a carattere normativo, costituiscono invece raccomandazioni di massima che non sollevano il sanitario dal dovere di verificarne la praticabilità e l'adattabilità nel singolo caso concreto. Anche in passato la Cassazione ha avuto modo di affermare che il rispetto delle "linee guida" non può essere univocamente assunto quale parametro di riferimento della legittimità e di valutazione della condotta del medico; […] pertanto, non può dirsi esclusa la responsabilità colposa del medico in riguardo all'evento lesivo occorso al paziente per il solo fatto che abbia rispettato le linee guida, comunque elaborate, avendo il dovere di curare utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo la scienza medica dispone.
Sebbene non applicabile ratione temporis al caso di specie, i giudici di legittimità hanno colto l’occasione per ricordare che anche la Legge 24/2017, all'art. 5 co. 1, obbliga gli esercenti le professioni sanitarie - nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale - ad attenersi alle raccomandazioni previste dalle linee guida (pubblicate ai sensi del successivo comma 3) "salve le specificità del caso concreto"; e d'altronde lo stesso art. 6 della legge prevede l'esclusione della punibilità nel caso in cui l'evento si sia verificato a causa di imperizia quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida sempreché queste "risultino adeguate alle specificità del caso concreto".
In conclusione, la Suprema Corte ritiene necessario che il giudice verifichi se, rispetto alle peculiarità del caso concreto, fosse sufficiente il rispetto delle linee guida o il caso richiedesse, invece, un approfondimento delle condizioni del paziente, magari mantenendolo per qualche tempo in ambiente ospedaliero.
Lavori di pubblica utilità in caso di guida in stato di ebbrezza: spetta al PM comunicare dove svolgerli e il termine entro il quale il condannato deve presentarsi presso l’ente di riferimento
Cassazione penale, sezione I, sentenza n. 39330 del 3 novembre 2021
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di lavori di pubblica utilità in caso di condanna dell’imputato per guida in stato di ebbrezza, chiarendo quali oneri incombono in capo al condannato e quali in capo al PM.
Nel caso di specie, il giudice dell'esecuzione aveva revocato la pena sostitutiva dei lavori di pubblica utilità precedentemente concessa dal Tribunale, ai sensi dell’art. 186 co. 9-bis C.d.s., per guida sotto l'influenza dell'alcool e ripristinato la pena sostituita per non avere il condannato mai svolto i predetti lavori. Il condannato, tuttavia, sosteneva che il PM avesse omesso di emettere l'ordine di esecuzione della sentenza e, perciò, l'organo di polizia non aveva potuto notificargli tale atto, come invece previsto dall’art. 43 del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274.
La Suprema Corte ricorda che, ai fini dell'applicazione della pena sostitutiva, è sufficiente la non opposizione da parte dell’imputato, non essendo richiesto dalla legge che l'imputato indichi l'istituzione presso cui intende svolgere l'attività e le modalità di esecuzione della misura, gravando tale obbligo sul giudice che si determini a disporre il predetto beneficio.
Secondo la Corte di Cassazione, la sequenza procedimentale che muove dalla sentenza di condanna e giunge all'inizio della prestazione dell'attività lavorativa, dal punto di vista logico, deve prevedere sia la indicazione dell'ente presso cui l'attività debba essere prestata, che lo specifico calendario recante l'indicazione dei giorni e degli orari in cui il lavoro debba essere svolto; infine, deve ovviamente presupporre una specifica sollecitazione, da parte dell'Autorità giudiziaria e rivolta al condannato, affinché prenda contatto con l'ente di riferimento e si uniformi alle indicazioni del cennato calendario. Dunque, il condannato deve ricevere specifica comunicazione dei citati passaggi procedimentali, onde potersi configurare a suo carico un obbligo che, ove rimasto inadempiuto, consenta di attivare, legittimamente, la procedura per la revoca della pena sostitutiva e per il ripristino della pena sostituita.
Alla luce di ciò, spetta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale mettere in esecuzione la sentenza di condanna, comunicando formalmente l'avvio della relativa procedura sia al condannato, sia (anche con il coinvolgimento dell'UDEPE) all'ente presso il quale doveva svolgersi l'attività, invitando quest'ultimo a predisporre tutti gli adempimenti necessari, così da consentire al condannato di poter svolgere i lavori di pubblica utilità.
In conclusione, la Cassazione enuncia il seguente principio di diritto: in tema di guida in stato di ebbrezza, ai fini della sostituzione della sanzione detentiva o pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità, il condannato non è tenuto ad avviare di propria iniziativa il procedimento per lo svolgimento in fase esecutiva dell'attività individuata, poiché tale adempimento spetta al pubblico ministero, il quale non solo deve indicare l'ente presso il quale svolgere la pena sostitutiva, ma anche comunicare il termine entro il quale l'interessato deve presentarsi presso il suddetto ente al fine di svolgere i lavori di pubblica utilità.
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